Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo)
GRANDE CAMERA CASO PERNA contro ITALIA SENTENZA del 06 MAGGIO 2003 Ricorso n° 48898/99
Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli di aver prestato un giuramento di obbedienza al vecchio partito comunista italiano.
Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli, senza un riscontro nei fatti, di aver partecipato alla strategia di conquista delle Procure in molte città d’Italia e di aver fatto un uso strumentale di un “pentito” contro un uomo politico.
Non violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione (equo processo) quanto alla mancata ammissione di mezzi di prova a sostegno delle asserzioni ritenute diffamatorie per non aver il ricorrente dimostrato l’utilità di tali mezzi.
(Traduzione non ufficiale del comunicato stampa a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)
1. Principali fatti
Il ricorrente, Giancarlo Perna, è un giornalista italiano, nato nel 1940 e residente a Roma.
Il 21 novembre 1993 egli pubblicò nel quotidiano italiano « Il Giornale » un articolo su di un magistrato, Giancarlo Caselli, a quel tempo Capo della Procura (Pubblico Ministero n.d.r.) a Palermo. L’articolo era intitolato «Caselli, il ciuffo bianco della giustizia » e portava il sottotitolo «Scuola dai preti, militanza comunista come l’amico Violante…».
L’articolo criticava innanzitutto la militanza politica del dott. Caselli, evocando « un triplo giuramento di obbedienza. A Dio, alla Legge, a Botteghe Oscure » [ sede del vecchio Partito Comunista Italiano, poi del PDS, il Partito Democratico della Sinistra).L’articolo accusava poi il dott. Caselli di aver contribuito alla strategia di conquista delle procure di molte città d’Italia e di aver utilizzato il « pentito » T. Buscetta per cercare di annientare la carriera politica di Giulio Andreotti, già presidente del Consiglio dei Ministri, incriminandolo di appoggio esterno alla mafia, ben sapendo che egli avrebbe dovuto ben presto desistere dall’azione penale per mancanza di prove.
A seguito della querela per diffamazione del dott. Caselli, il tribunale di Monza dichiarò il 10 gennaio 1996 il sig. Perna ed anche il direttore del quotidiano dell’epoca colpevoli del delitto di diffamazione aggravata. Questi ultimi furono condannati rispettivamente alla multa di lire italiane 1.500.000 e 1.000.000 (cioè circa 775 e 515 euro), al pagamento dei danni e delle spese processuali fino a lire 60.000.000 (cioè circa 31.000 euro), al rimborso delle spese legali sostenute dal querelante, come alla pubblicazione della sentenza. Il sig. Perna propose appello avverso questa sentenza.
La corte d’appello di Milano rigettò l’appello il 28 ottobre 1997. Essa ritenne che il passaggio relativo al giuramento d’obbedienza fosse diffamatorio perché indicava una dipendenza riguardo alle direttive di un partito politico. Quanto al prosieguo dell’articolo, essa considerò che le allegazioni relative al comportamento del dott. Caselli nell’esercizio delle sue funzioni di magistrato fossero gravissime e fortemente diffamatorie per il fatto che non erano corroborate da alcun elemento di prova. La corte non ritenne peraltro necessario dar corso ai mezzi di prova richiesti dal ricorrente, per il fatto che le osservazioni di quest’ultimo riguardanti in particolare l’appartenenza politica del dott. Caselli e l’utilizzo di un « pentito » nel procedimento a carico del sig. Andreotti, non avevano un carattere diffamatorio e risultavano dunque insignificanti nel quadro del procedimento in questione. La Corte di cassazione confermò la sentenza della corte d’appello.
2. Procedura e composizione della Corte europea
Il ricorso è stato presentato il 22 marzo 1999 e dichiarato ricevibile il 14 dicembre 2000. Nella sua sentenza resa da una camera il 25 luglio 2001, la Corte concluse all’unanimità per la non-violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione. Per contro, essa dichiarò all’unanimità che vi è stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea quanto alla condanna del ricorrente per aver attribuito ad un alto magistrato italiano, utilizzando una espressione simbolica, un giuramento di obbedienza al vecchio partito comunista.
Il Governo ed il ricorrente hanno chiesto il rinvio del caso davanti alla Grande Camera conformemente all’articolo 43 della Convenzione. Il 12 dicembre 2001, il collegio della Grande Camera ha accolto le predette domande. Una udienza ha avuto luogo il 25 settembre 2002 in occasione della quale il dott. Caselli ha presentato delle osservazioni scritte e partecipato all’udienza quale terzo intervenuto (articolo 61 § 3 del Regolamento della Corte europea).
La sentenza è stata emessa dalla Grande Camera composta di 17 giudici, segnatamente :
Luzius Wildhaber (Svizzero), presidente, Christos Rozakis (Greco), Jean-Paul Costa (Francese), Georg Ress (Tedesco), Nicolas Bratza (Inglese), Benedetto Conforti (Italiano), Elisabeth Palm (Svedese) Ireneu Cabral Barreto (Portogheses), Volodymyr Butkevych (Ukraino), Boštjan Zupančič (Sloveno), John Hedigan (Irlandese), Wilhelmina Thomassen (Olandese), Matti Pellonpää (Finlandese), Snejana Botoucharova (Bulgaro), Mindia Ugrekhelidze (Georgiano), Elisabeth Steiner (Austriaco), Stanislav Pavlovschi (Moldavo), giudici,
così come Paul Mahoney, cancelliere.
3. Riassunto della sentenza
Doglianze
Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, il ricorrente lamenta una violazione del suo diritto di difesa, avendo le giurisdizioni italiane rifiutato per tutta la durata della procedura di ammettere i mezzi di prova che egli aveva richiesto. Egli allegava parimenti una violazione del suo diritto alla libertà d’espressione, garantito dall’articolo 10 della Convenzione, sia per la decisione nel merito delle giurisdizioni italiane, sia per le limitazioni ai diritti della difesa allegati.
Decisione della Corte europea
Articolo 6 §§ 1 e 3 d) dela Convenzione
La Corte ricorda che l’ammissibilità delle prove è primariamente rimessa alle regole del diritto interno, ma che compete alla stessa Corte di ricercare se la procedura considerata nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo.
La Corte rileva che le richieste di prove del ricorrente cioè l’acquisizione al fascicolo di due articoli di stampa e l’ audizione del dott. Caselli, tendevano a provare la realtà di fatti sprovvisti di portata diffamatoria secondo i giudici di merito. La Corte condivide il parere di queste giurisdizioni secondo cui queste prove non avrebbero potuto stabilire una violazione dei principi d’imparzialità, d’indipendenza e d’obiettività propri delle funzioni esercitati dal magistrato. Il ricorrente non ha cercato di provare la veridicità di quei fatti ed al contrario ha sostenuto che si trattava di giudizi critici che non bisognava provare. Pertanto, non si potrebbe considerare che la procedura di cui è causa ha rivestito un carattere non equo in ragione del modo di presentazione delle prove.
Articolo 10 della Convenzione europea
La condanna del ricorrente per diffamazione si inquadra senza dubbio in una ingerenza nel suo diritto alla libertà d’espressione. Questa ingerenza, che era prevista nelle disposizioni del codice penale e dalla legge sulla stampa dell’ 8 febbraio 1948, perseguiva un fine legittimo : la protezione della reputazione e dei diritti altrui. Sulla questione se questa ingerenza era necessaria in una società democratica, bisogna determinare se le autorità nazionali hanno correttamente fatto uso del loro potere di valutazione condannando il ricorrente per diffamazione.
Secondo la Corte, non bisogna perdere di vista l’insieme dell’articolo e la sua stessa essenza. In effetti, il ricorrente non si è limitato a dichiarare che il dott. Caselli nutriva o aveva manifestato delle convinzioni politiche che permettessero di dubitare della sua imparzialità nell’esercizio delle sue funzioni. Come lo hanno a giusto titolo rilevato le giurisdizioni nazionali, risulta dall’insieme dell’articolo in questione che il suo autore mirava a trasmettere all’opinione pubblica un messaggio chiaro e senza ambiguità ai sensi del quale il dott. Caselli aveva scientemente commesso un abuso di potere, partecipando ad una strategia per la conquista delle procure d’Italia posta in essere dal Partito Comunista Italiano. In questo contesto, anche delle frasi come quella relativa al « giuramento d’obbedienza » acquistano una valore tutt’altro che simbolico. Peraltro, come la Corte lo ha già constatato, il ricorrente non ha in alcun momento tentato di provare la veridicità delle sue allegazioni ed al contrario ha affermato di aver addotto dei giudizi critici che non dovevano essere provati.
In queste circostanze, la Corte ritiene che la condanna per diffamazione del ricorrente e la pena che gli è stata inflitta non erano sproporzionate avuto riguardo al fine legittimo mirato, e che i motivi prospettati dalle giurisdizioni nazionali erano sufficienti e pertinenti per giustificare simili misure. Pertanto, l’ingerenza nel diritto alla libertà d’espressione del ricorrente poteva ragionevolmente considerarsi come necessaria in una società democratica.
Il giudice Conforti ha espresso una opinione dissenziente il cui testo si trova annesso alla sentenza.
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TRADUZIONE DELL'INTERA SENTENZA
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