traduzione sentenza 6 maggio 2003

Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo) GRANDE CAMERA
CASO PERNA contro ITALIA . 
SENTENZA del  06 MAGGIO 2003  Ricorso n° 48898/99. Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva diffamato un alto magistrato (il dott. Caselli). Non violazione dell'articolo  6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione (equo processo) quanto alla mancata ammissione di mezzi di prova.

 

ITALIA

Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo)

GRANDE CAMERA

CASO PERNA contro ITALIA

 

SENTENZA del  06 maggio 2003  Ricorso n° 48898/99

 

Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva  diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli di aver prestato un giuramento di obbedienza al vecchio partito comunista italiano.

Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva  diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli, senza un riscontro nei fatti, di aver partecipato alla strategia di conquista delle Procure in molte città d’Italia e di aver fatto un uso strumentale di un  “pentito” contro un uomo politico.

Non violazione dell'articolo  6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione (equo processo) quanto alla mancata ammissione di mezzi di prova a sostegno delle asserzioni ritenute  diffamatorie per non aver il ricorrente dimostrato l’utilità di tali  mezzi.

 

La sentenza così motiva

(traduzione non ufficiale a cura del dott. Lorenzo Rinelli)

 

Nel caso Perna contro Italia,

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riunitasi nella Grande Camera e composta dai seguenti giudici:

          L. Wildhaber, Presidente,  C.L. Rozakis, J.-P. Costa, G. Ress, Nicolas Bratza, B. Conforti, E. Palm, I. Cabral Barreto, V. Butkevych, B. Zupančič, J. Hedigan, W. Thomassen, M. Pellonpää, S. Botoucharova, M. Ugrekhelidze, E. Steiner, S. Pavlovschi, nonché dal Sig. P.J. Mahoney   cancelliere,

Dopo averla deliberata in camera di consiglio il 25 settembre 2002 e il 5 marzo 2003,

Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

PROCEDURA

1§. All’origine del caso vi è un ricorso (n° 48898/99) proposto contro l’Italia da un suo cittadino, il signor Giancarlo Perna («il ricorrente»), che ha adito la Corte il 22 marzo 1999 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2§. Il ricorrente è rappresentato dall’avv. G.D. Caiazza, avvocato presso il foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo Agente, il signor U. Leanza, Capo del Contenzioso Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, assistito dal signor F. Crisafulli, Cogente aggiunto.

3§. Il ricorrente ha addotto una violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, a causa del rifiuto degli organi giurisdizionali italiani di ammettere le prove che egli aveva presentato ed una violazione del suo diritto alla libertà di espressione, con riferimento all’articolo 10 della Convenzione.

4§. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione della Corte (articolo 52 § 1 del Regolamento). Al suo interno, la Camera incaricata di esaminare il caso (articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del Regolamento.Composta dai seguenti giudici: C.L. Rozakis, Presidente,

B. Conforti, G. Bonello, V. Stráznická, M. Fischbach, M. Tsatsa-Nikolovska, E. Levits, giudici,

e da E. Fribergh, cancelliere di sezione

5§. Con decisione del 14 dicembre 2000, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile.

6§. Il 25 luglio 2001 la Camera ha emesso una sentenza in cui essa ha dichiarato  all’unanimità: 

«  1. …che non vi è stata violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione;

 

  2. che vi è stata una violazione dell’articolo 10 della Convenzione quanto alla condanna del ricorrente per aver attribuito, sotto forma di espressione simbolica, al querelante di aver prestato “giuramento di obbedienza” al vecchio Partito Comunista italiano e che, peraltro,  non vi è stata alcuna violazione di tale disposizione quanto alla condanna del ricorrente a causa delle sue affermazioni riguardo rispettivamente alla partecipazione del querelante ad una presunta strategia di controllo delle Procure di molte città ed ai reali fini dell’uso del “pentito” Buscetta;

 

  3.  che la constatazione di una violazione costituisce in sé una equa soddisfazione sufficiente per il danno morale sostenuto dal ricorrente;

 

  4. 

  (a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro i tre mesi a  decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà  divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, 9.000.000 (nove milioni) di lire italiane per spese legali, in aggiunta qualsiasi somma che possa essere dovuta per l’imposta sul valore aggiunto ed il contributo alla Cassa di previdenza degli avvocati (CAP).

che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro i tre mesi a  decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà  divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, 9.000.000 (nove milioni) di lire italiane per spese legali, in aggiunta qualsiasi somma che possa essere dovuta per l’imposta sul valore aggiunto ed il contributo alla Cassa di previdenza degli avvocati;

  (b)…;  »

  Essa ha rigettato per il surplus la domanda di equa soddisfazione.

 L’opinione concordante del giudice Conforti, a cui aderisce il giudice Levits, è stata annessa a questa sentenza.

7§. Il 19 ed il 24 ottobre 2001 il Governo ed il ricorrente hanno chiesto il rinvio del caso davanti alla Grande camera in ottemperanza dell’articolo43 della Convenzione e dell’articolo 73 del Regolamento. Il collegio della Grande Camera accetta la richiesta il 12 dicembre 2001.

8§. la Grande camera si è costituita secondo l’Articolo27 §§ 2 e 3 della Convenzione e l’Articolo 24 del Regolamento.

9§. Il Governo ha depositato una memoria. Inoltre sono pervenute delle osservazioni da parte del sig. G. Caselli, che il  Presidente aveva autorizzato ad  intervenire in qualità di persona interessata (articoli 36 § 2 della Convenzione e 61 § 3 del Regolamento).

.

10§. Il 25 settembre 2002, un’udienza pubblica ha avuto luogo presso il Palazzo dei Diritti dell’Uomo. Articolo 59 § 2 del Regolamento).(Nota : Nella  versione in vigore prima del 1°ottobre 2002).

 

Sono comparsi di fronte la Corte:

-per il Governo,        F.Crisafulli     Coagente-aggiunto;

-per il ricorrente, G.D. Caiazza, avvocato           Difensore;

      - per il terzo intervenuto,      G.Caselli           terzo intervenuto

         G.C. Smuraglia, avvocato          Difensore

La Corte  ha ascoltato le loro dichiarazioni.

 

IN FATTO

.  11§. Il ricorrente è nato nel 1940 e vive a Roma.

.  12§. In quanto giornalista professionista, il 21 novembre 1993, ha pubblicato, su di un quotidiano italiano Il Giornale, un articolo riguardante G.Caselliil quale in quel periodo ricopriva la carica di  Capo della Procura (Pubblico Ministero n.d.r.) a Palermo. L’articolo era intitolato “Caselli, il bianco ciuffo della giustizia” e portava il sottotitolo “«Scuola dai preti, militanza comunista  come l’amico Violante…-L’avviso ad Andreotti un altro caso Sogno?”  

. 13§.  Nell'articolo, il ricorrente, dopo aver fatto riferimento al procedimento promosso dal sig. Caselli contro il sig. G. Andreotti, un uomo di Stato italiano molto conosciuto accusato di appoggio esterno alla mafia che, nel frattempo, era stato assolto in primo grado, si esprimeva come segue:

“A un giornale israeliano, Giulio Andreotti ha detto nei giorni scorsi che teme di essere fatto fuori.

Se è lecito cominciare subito con una divagazione, mi chiedo perché confidarlo alla stampa estera anziché italiana. Non è l’unico. Sta diventando un’epidemia. Negli stessi giorni, l’industriale Carlo De Benedetti ha scelto un giornale inglese per dire che l’Italia è la sua Siberia. Pure Bettino Craxi , se deve minacciare o lamentarsi, lo fa generalmente sui giornali spagnoli. Può essere snobismo  gratuito. Ma anche vittimismo tipo siamo stranieri in Patria e costretti a portare fuori le nostre voci per farle ascoltare dentro”.

E’ quello che fa balenare Andreotti quando aggiunge di sentirsi in esilio e vittima di un complotto, ma non sa quale. Chi lo ha visto di recente dice che è pallido, ha le orecchie a punta abbassate, è ingobbito all’ultimo stadio. E’ in pensiero per la moglie Lidia, sprofondata in una specie di catalessi dal fatale 27 marzo. Giorno in cui un avviso di garanzia di 250 pagine dattiloscritte ha trasformato il più noto politico italiano nel padrino numero uno della mafia siciliana. Ora Andreotti è smarrito. Scruta, ma non vede. Pensa a una congiura dell’ultim’ora.

E invece l’anticorpo che lo sta minando, è lì da tempo. E’ stato allevato per anni , proprio negli ambienti parrocchiali che Andreotti predilige. Mentre  lui già dominava Roma negli anni Cinquanta, nella scuola dei salesiani di Torino si faceva le ossa Giancarlo Caselli, il procuratore capo di Palermo. L’uomo delle 250 pagine che lo hanno annichilito.

Giancarlo era un ragazzo bravo e studioso. Torino è piena di gente così, perché la città è piovosa e le case sono senza balconi da cui guardare  la strada. Perciò non resta che chinare la testa sui libri. Di qui la produzione in serie di intellettuali. Da Bobbio a Conso, il guardasigilli. Una confraternità di quaccheri.

Quanto più però Giancarlo prendeva coscienza di sé, tanto più gli pesava il complesso del padre. Costui era un uomo pieno di dignità, ma modesto chauffeur di un dirigente industriale. Guidando, respirava l’aria della borghesia e ne trasferiva il soffio sul figlio . Il ragazzo decise che da grande sarebbe passato sull’altro versante  della barricata, ma col coltello dalla parte del manico.

All'università si agganciò al PCI [Partito Comunista italiano], il partito che esalta i frustrati. Quando fu ammesso in magistratura, fece un triplo giuramento di obbedienza: a Dio, alla legge, a Botteghe Oscure [ sede del vecchio Partito Comunista Italiano, poi del PDS, il Partito Democratico della Sinistra]. E Giancarlo divenne il giudice che è  da trenta anni: pio, severo e partigiano.

 

Ma  non lo capireste a fondo, se non introducessi a questo punto il suo alter ego: E’ Luciano Violante, il fratello gemello di Caselli.  Torinesi tutti e due. Stessa età, cinquantadue anni. Stesse scuole dei preti. Stessa militanza comunista. Magistrati entrambi. Un legame profondo.  Violante che è la testa, chiama, Caselli, il braccio risponde.

Luciano, è stato sempre un passo più avanti di Giancarlo. A metà degli anni Settanta, incriminò per golpismo Edgardo Sogno, un ex partigiano, ma  anticomunista. Fu un tipico processo politico e finì nel nulla. Violante, invece di andare sotto inchiesta, ci imbastì una carriera. Nel 1979 divenne  deputato del PCI. E da allora è sempre stato il ministro ombra della Giustizia di  Botteghe Oscure. Oggi, è il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il grande regista  del viavai dei pentiti e l’uomo forte del PDS.

Mentre Violante saliva  i suoi gradini, Caselli  si era fatto un bell’uomo con una precoce capigliatura bianca. Ne è fiero.  Se si sposta anche per poco , porta  sempre dietro il phon Nelle pause, si sistema il ciuffo sulla fronte e si copre le orecchie coi capelli.  . Poi, come avrete notato in TV, muove la testa il minimo indispensabile per non guastare il lavoroVanitoso è vanitoso. Quando dal 1986 al 1990, Giancarlo fu membro del Consiglio Superiore della Magistratura, i suoi compagni del CSM lo prendevano in giro dicendo “ Sotto i capelli, niente ”. E’ un  po’ vero, se riferito al suo narcisismo e ai suoi paraocchi ideologici. E’ falso se si parla invece della sua intelligenza, sulla quale non c’è da ridire. Finora, come vedete, nulla fa pensare che un giorno incrocerà Andreotti..

 

Salvo la parentesi del CSM, Giancarlo ha continuato a vivere a Torino.  E’ un giudice in vista. Combatte il terrorismo in prima fila. E’ lui che ottiene la confessione di Patrizio Peci, il cui pentimento devasterà BR.

 Intanto il PCI ha messo in moto la sua strategia di conquista di tutte le procure d’Italia. La battaglia, ripresa dal PDS, è ancora in corso. Il tutto nasce da due idee concatenate, ma semplici semplici  di Violante. La prima è che se i comunisti non riescono  a conquistare il potere coi voti , possono farlo col grimaldello giudiziario. Il materiale non manca. Democristiani e socialisti sono ladri autentici e sarà facile inchiodarli. La seconda idea è  più geniale della prima: basta l’avviso di garanzia  per stroncare le carriere, non serve il processo; è sufficiente la gogna. E per fare questo,  è necessario controllare la rete completa delle procure.

Così nasce Tangentopoli.  I Craxi, i De Lorenzo e gli altri sono subito  presi con le mani nel sacco e abbattuti. Ma per completare l’opera, manca all’appello Andreotti. Più furbo degli altri, o meno avido, il vecchio marpione della Democrazia Cristiana non si è quasi fatto beccare in faccende di tangenti Proprio allora, Giancarlo si prepara a lasciare la pioggia di Torino per il sole di Palermo. Una campagna di accuse non provate travolge il procuratore in carica Giammanco  , che scappa con la coda tra le gambe. E all’inizio di quest’anno, il bel giudice può sostituirlo e mettere finalmente il suggello di Violante anche sulla Procura palermitanaPrima di insediarsi, Caselli è convocato al  Quirinale. Il Presidente Scalfaro, che conosce il tipo , è preoccupato. Quando ce l’ha davanti, gli dice: “Libero di fare quello che  crede. Però sia obbiettivo”

 

Giunto a Palermo, i  destini del giudice  e di Andreotti, rimasti distanti per anni, si incrociano. Meno di due mesi dopo, piomba sul senatore a vita l’accusa di mafiosità . Il dossier che lo contiene è un guazzabuglio. Dichiarazioni  di pentiti, documenti vecchi e nuovi, interrogatori del solito Buscetta fatti da Violante all’Antimafia e utilizzati da Caselli  come prova, in una specie di gioco del tamburello tra i due gemelli Breve. In base al principio che basta l’accusa per distruggerli, anche il più longevo brontosauro del Palazzo è distrutto

In aprile, Caselli corre negli Stati Uniti e incontra Buscetta. Gli offre undici milioni di lire al mese per continuare a fare il pentito. Potrà servirgli ancora nell’istruttoria, anche se l’esito non ha più importanza. Il risultato è raggiunto.

 

Si fa già una previsione. Tra sei, otto mesi, l’inchiesta sarà archiviata. Ma Andreotti non potrà certo risorgere. E questa è una  fortuna. Di Caselli, si dirà invece che  è  un giudice obiettivo. Aveva il dovere di procedere, ma ha saputo conoscere l’errore, Diventerà un eroe. E questo, se c’è un Dio, grida  vendetta”.

 

14§. Il 10 marzo 1994, agendo su denuncia del sig. Caselli, il giudice delle indagini preliminari rinviava a giudizio presso il Tribunale di Monza il ricorrente, così come il direttore de Il Giornale. Il ricorrente era accusato di diffamazione a mezzo stampa, aggravata dal fatto che l'offesa era stata compiuta nei confronti di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni.

 

15§. Nel corso del dibattimento del 10 gennaio 1996, la parte civile ha richiesto di acquisire nel fascicolo il verbale dell’interrogatorio reso  da Buscetta alle autorità giudiziarie di New York  e una copia della rivista italiana l’ “Espresso” sul quale erano state pubblicate tali dichiarazioni.

La difesa, da parte sua,  ha chiesto di interrogare il sig. Caselli e ha chiesto che due articoli comparsi sulla stampa e riguardanti i rapporti professionali fra Caselli ed il pentito Buscetta fossero acquisiti al fascicolo. Il tribunale, con ordinanza dello stesso giorno, ha rigettato le richieste sulla base del fatto che, l’interrogatorio di Caselli era superfluo dato il tenore dell'articolo scritto dal ricorrente, e che i documenti in questione non erano pertinenti in riferimento all’oggetto del procedimento (la diffamazione)  

16§. Lo stesso giorno, in base agli articoli 57, 595, commi  1 e  2, 61 § 10 del  codice penale e 13 della legge no 47 dell’ 8 febbraio  1948 sulla stampa,   il tribunale ha condannato il direttore del giornale ed il ricorrente rispettivamente  ad una multa di 1.000.000 e di 1.500.000 di lire italiane (ITL), al risarcimento dei danni e delle spese della procedura fino a 60.000.000 ITL , al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, così come alla pubblicazione della sentenza sul quotidiano Il Giornale. Nella motivazione della sua decisione, il tribunale affermava che:  

L’autore di tale articolo, prendendo spunto dal caso contro il senatore Giulio Andreotti, ha descritto la biografia del querelante in  un modo che enfatizza il suo retroterra culturale e soprattutto le sue propensioni ideologiche – presumibilmente vicino al PCI ( ora PDS) – sostenendo che tali inclinazioni avessero influenzato decisamente l’ attività professionale ( del querelante)  fino al punto di considerarlo quale strumento di un grande disegno di questo partito, dettagliatamente di ottenere il controllo degli organi  giudiziari, in particolare degli uffici della procura.

 

Il sig. Perna ha posto in risalto la lunga amicizia fra il querelante ed il deputato Violante asserendo che quest’ultimo era la  mente  di una strategia  di cui  il sig. Caselli  era  il braccio. Ha aggiunto a tale breve biografia delle frasi dal senso letterale particolarmente sensazionale come: “Quando fu ammesso in magistratura, fece un triplo giuramento di obbedienza: a Dio, alla legge ed a Botteghe Oscure. E Giancarlo divenne il giudice che è  da trenta anni: pio, severo e partigiano.

 

Egli ha accusato il sig. Caselli di aver strumentalizzato il caso Andreotti nel quadro di un grande disegno politico ordito da Violante in nome del PCI/PDS, al fine di destabilizzare la classe politica al governo in quel periodo, cosicché il partito  di appartenenza potesse prendere il potere con mezzi non elettorali.

 

Egli ha insinuato che le accuse contro il sig. Andreotti, l’ultimo politico ancora in piedi nell’ambito delle investigazioni del pool di mani pulite, venissero considerate, alla luce dello sfruttamento di tali investigazioni.

(...)

La natura diffamatoria di tale articolo…è assolutamente evidente, dato che il testo ha escluso categoricamente la possibilità che il sig. Caselli fosse rispettoso degli obblighi deontologici propri della sua funzione di magistrato e  ha negato che possedesse le qualità di imparzialità, indipendenza, obiettività e probità che caratterizza l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, le quali, secondo l’autore dell’articolo, il  querelante avrebbe  usato a fini politici.

 

Nel caso ad oggetto,  l’esercizio del diritto di cronaca non si potrebbe invocare quale circostanza attenuante dal momento che il sig. Perna non ha addotto il minimo elemento di  prova che  avvalorasse accuse tanto gravi. Neppure potrebbe fondarsi sull’esercizio del diritto di critica per commentare tali fatti – un diritto senza dubbio appartenente a qualunque giornalista che, nel commentare episodi giudiziari, critica questa o quella decisione -  dato che le affermazione offensive contenute nell’articolo si riducono ad un attacco ingiustificato al querelante, che ignobilmente offende il suo onore e la sua reputazione…. (...) »

 

17§. Il ricorrente ha proposto appello. Invocando la libertà di stampa ed in particolare il diritto di cronaca e di critica, egli ha sostenuto, tra gli altri argomenti, che il riferimento alle tendenze politiche di Caselli rispecchiava la realtà e che il tribunale avrebbe potuto constatare se ciò fosse vero o meno ammettendo la testimonianza del querelante stesso; che l’amicizia tra Caselli e Violante era effettiva e che era anche vero che, nel procedimento contro Andreotti, Caselli aveva usato l’aiuto del pentito Buscetta e che gli aveva consegnato somme di denaro come rappresentante dello Stato, dal momento che tutti i  pentiti ricevevano denaro dallo Stato italiano.

Inoltre il ricorrente qualificandosi come un opinionista affermava che  la sua intenzione non era quella di presentare una biografia di Caselli ma di esprimere le sue opinioni critiche, in modo figurato ed efficace. Egli aveva più esattamente formulato dei giudizi critici, certamente più o meno fondati e più o meno condivisibili, ma esplicitamente derivati dalle premesse in fatto: l’attività politica di Caselli.  . Infine ha insistito perché fossero interrogati il querelante, insieme a alcuni  giornalisti e ad altre personalità del mondo politico italiano che, come Caselli, erano stati militanti del partito comunista. Il ricorrente in particolare ha chiesto l’audizione del sig. S. Vertone e del sig. G. Ferrara e l’acquisizione al fascicolo degli articoli di stampa contenenti interviste in cui essi avevano confermato l’attiva militanza politica del querelante. In particolare, in un’intervista pubblicata dal quotidiano Il Corriere della sera l’11 dicembre 1994, di cui alcuni estratti erano stati citati nell’atto d’appello del ricorrente, il sig. Vertone aveva dichiarato, tra le altre cose, che il querelante era un uomo coraggioso di grande integrità ma che tuttavia era influenzato da quel modello politico e culturale, che i suoi legami con il vecchio Partito Comunista erano molto stretti e che, successivamente, Caselli era diventato null’altro che un suo membro. Da parte sua, in un’intervista pubblicata da un altro quotidiano, La Stampa, il 9 dicembre 1994, di cui erano anche stati citati degli estratti nell’atto d’appello del ricorrente, il sig. Ferrara aveva affermato che negli anni ’70 aveva partecipato a dozzine di riunioni politiche insieme in particolare a Caselli e Violante, tenute dalla federazione di Torino del vecchio Partito Comunista. Aveva poi continuato dicendo che, nonostante Caselli, persona integgerrima, avesse svolto un buon lavoro quale magistrato nella lotta al terrorismo, era tuttavia altamente politicizzato ed avrebbe quindi dovuto evitare di pronunciare discorsi come fosse un tribuno.

18§. Con una  sentenza del 28 ottobre 1997, la Corte d'Appello di Milano ha condannato il ricorrente, per i seguenti motivi:

 

« (...) le affermazioni esposte nei capi di imputazione ….sono innegabilmente gravemente dannose per la reputazione della parte lesa. In effetti, più che mettere in dubbio  – come si può leggere nei capi di imputazione la lealtà del sig.Caselli verso le istituzioni nazionali, la sua devozione al principio di legalità, la sua obiettività ed indipendenza; esse negano categoricamente che possedesse tali caratteristiche ed inoltre gli attribuiscono fra le altre cose, comportamenti, che costituiscono infrazioni disciplinari e reati ».

La Corte d’Appello ha sostenuto come fosse evidente che l’articolo si riferisse innanzitutto a fatti, alcuni dei quali non avevano una portata diffamatoria e dunque non rilevanti per la decisione da prendere.

 

“In particolare, i seguenti elementi sono da considerare innegabilmente fatti (non opinioni ) che una delle argomentazioni dell’appello segnala come tali ( da parte dell’avv. D’A)

 

-l’orientamento politico di Gian Carlo Caselli

-          l’amicizia tra Violante e Caselli

-          l’elemento per cui che il sig. Caselli nella sua qualità di Procuratore della Repubblica a Palermo abbia usato le dichiarazioni del pentito Buscetta nell’inchiesta contro Andreotti, e la notizia che lo stesso Buscetta alla stregua degli altri pentiti, è stato pagato dallo Stato.

 Tali elementi sono da considerare come fatti la cui enunciazione di per sé  non costituisce diffamazione, quindi non sono rilevanti per la decisione che spetta alla Corte. Questo pare abbastanza ovvio per le ultime due circostanze, ma nondimeno è vero per la prima circostanza (l’orientamento politico di Caselli) poiché lo Stato non solo garantisce la libertà di pensiero e la libertà di espressione,  ma anche la libertà di associazione nell’ambito dei partiti politici.

 

Dunque  non è pertinente  cercare di accertare quale siano le convinzioni politiche di Caselli e se le abbia o meno espresse in determinate circostanze (in ogni caso al di fuori della sfera giudiziaria ed al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni) poiché  questa circostanza  non può considerarsi  in alcun modo diffamatoria in se stessa (...)…

 

Non c’è dunque  alcuna base sulla quale procedere alla richiesta di riapertura del processo, in primis perché Caselli venga ascoltato come testimone, e in secundis al fine di acquisire gli articoli di stampa  di Saverio Vertone e Giuliano Ferrara, ma neppure  di ascoltare questi ultimi come testimoni, sempre a proposito della militanza politica  (di Caselli), o in ogni caso sulla (sua) partecipazione politica al  PCI/PDS. Prima di tutto, perché questa circostanza non è praticamente menzionata, come è stato detto, nell’articolo, e in secondo luogo perché non può in ogni caso essere considerata dannosa della reputazione del querelante e di conseguenza non abbisogna di verifiche.”

 

19§. Al contrario, altre circostanze riferite al querelante, erano senza dubbio diffamatorie. Innanzitutto c’era il riferimento al giuramento d’obbedienza, il quale, al di là dell’importanza simbolica, implicava l’accusa determinata, che il Sig.Caselli, avesse preso un personale e durevole impegno “d’obbedienza”, nell’ambito delle sue funzioni, alla legge, alle sue convinzioni religiose,e alle “indicazioni dei dirigenti” di un partito politico.

La Corte d’Appello continuava:

Il seguito dell’articolo, il quale offre una illustrazione altamente diffamatoria di questa pretesa obbedienza del sig. Caselli o al Partito Comunista, conferma che il giornalista non stesse esprimendo un giudizio né una opinione personale, ma attribuisse una specifica condotta del Sig.Caselli.

In effetti, più oltre nell’articolo si afferma

-          che il Sig.Caselli è  il fratello gemello del Sig.Violante;

-          che  il PCI (...) ha messo in moto la sua strategia di conquista di tutte le procure d’Italia mettendo in pratica due idee  del deputato, - la  prima conquistare il potere (...)col grimaldello giudiziario, la seconda:  basta l’avviso di garanzia (...)  per stroncare le carriere (degli avversari politici) poiché non serve il processo; è sufficiente la gogna.

E’ in questo contesto che il giornalista fa riferimento a due comportamenti di Gian Carlo .Caselli: la sua richiesta di trasferimento alla procura di Palermo e la conseguente nomina alla carica di Procuratore della repubblica di questa città e l’invio dell’avviso di garanzia al sig.Andreotti per appartenenza alla Mafia.

 (...)

(...)

Il giornalista Perna non ha espresso  in alcun modo sue opinioni o giudizi, ma ha attribuito in maniera altamente diffamatoria nei confronti del querelante Gian Carlo Caselli, azioni e condotte – e qui non si può che ribadire quanto affermato dal tribunale  – in merito alle quali non ha prodotto il benché minimo elemento  di prova; inoltre non ha nemmeno tentato di avvalorare la sua tesi  sostenendo i suoi avvocati a che si trattava di mere opinioni.

 (...)…(avendo) il giornalista attribuito al procuratore Gian Carlo Caselli azioni determinate senza in alcun modo comprovarle ed in maniera totalmente gratuita, la sua condotta non può essere giustificata da errori o fraintendimenti, ma solo come un atto deliberato.

Ciò è  confermato dal senso letterale dell’intero articolo, nel quale la figura del Sig. Gian Carlo Caselli viene costantemente e sottilmente denigrata, sebbene alcune considerazioni positive vengano abilmente combinate con gli attacchi.. (...)

Il contenuto dell’intero articolo dimostra che non c’è stato errore inconsapevole da parte del querelato ma che egli fosse perfettamente conscio di danneggiare  l’altrui reputazione e che quindi intendeva farlo.”

 

20§. Con sentenza del 9 ottobre 1998, depositata in cancelleria il 3 dicembre 1998,  (in rivista Cassazione Penale, editore Giuffrè, Milano, anno, 1999, n. 11, pag. 1577/1578, n.d.t.) la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, affermando che quest’ultima era assolutamente corretta, sia nei termini procedurali che per quanto riguarda il merito.

« (...)

Le istanze probatorie della difesa, diversamente da quanto dedotto, sono state interpretate nel loro esatto significato e valore e sono state correttamente disattese perché assolutamente prive di rilevanza ai fini della decisione

Nei motivi d’appello  redatti a firma dell’imputato Perna e dall’avvocato Caiazza  si chiede la rinnovazione del dibattimento in primo luogo per la ‘escussione testimoniale della parte civile’, in particolare sulla circostanza ‘relativa a forme e modi della sua militanza o comunque della sua partecipazione politica alle attività del PCI-PDS, nel periodo in cui egli era già magistrato della Repubblica, così come su tutte le altre questioni oggetto delle doglianze del querelante’ . E’ di palmare evidenza l’assoluta genericità ed in conferenza dell’oggetto, in relazione al tenore ed al contenuto delle frasi adoperate da Perna (nel cui articolo il riferimento alla militanza politica  del Sig.Caselli non è affatto limitato - come invece è detto nei motivi d’appello dell’Avv. Caiazza - all’essersi il predetto associato al  Partito Comunista  negli anni dell’università: il ché peraltro non è offensivo): ‘l’articolo già indicava le forme ed i modi’  della militanza attribuendo certi fatti al Caselli, onde provare la verità di tale militanza. Ed allora la genericità del capitolo o resta tale o si risolve nel tentativo di far ammettere da parte del querelante  quei fatti riportati nel capo di imputazione, con conseguente spostamento dell’onere probatorio incombente su (il Sig. Perna e il Sig.Montanelli).” (...).

I ‘testimoni diretti’, poi,  Giuliano Ferrara e Saverio Vertone, vengono indicati proprio sulla predetta circostanza, onde ( cioè circa ‘le forme ed i modi’  della militanza); onde per essi vale quanto testè detto sulla genericità ed irrilevanza del capitoloquanto detto circa la vaghezza e l’irrilevanza  di quel punto, quindi, vale allo stesso modo per tali persone. Ma anche l’ulteriore specificazione dei fatti, a loro diretta conoscenza caret effectu essendo relativa a circostanze che la corte di merito  ha ritenuto non offensive, in ordine alle quali quindi non aveva senso di parlare di prova liberatoria.

Senza dire, alla fine, che  la militanza del Sig.Caselli, nel PCI non ha nulla a che vedere  con i fatti determinati  attribuitigli e cioè col preteso giuramento d’obbedienza a Botteghe Oscure (di cui comunque non v’è cenno nel capitolo), con i rapporti Caselli-Violante, e soprattutto con l’attribuito rapporto con Buscetta.

 

Superato l’aspetto processuale, va subito detto che anche gli accenni ad una pretesa non obiettiva offensività del contenuto dell’articolo sono assolutamente privi di consistenza essendo corretto sotto  ogni aspetto il giudizio della corte di merito sull’ offensività , per un uomo prima che per un magistrato, di frasi che attribuiscono fatti specifici che sottendono  mancanza di personalità, dignità, di autonomia  di pensiero, di coerenza ed onestà morale, nonché comportamenti che indicano in modo esplicito deviazioni dai propri doveri di ufficio. . (...)

 

Anche l’indagine sulle scriminanti del diritto di cronaca e del diritto  di critica è stata correttamente condotta dalla corte di merito ed è testimoniata dalla motivazione congrua, esente da errori di diritto e da vizi  logici.

 

Nessun rapporto è dato individuare, come non è stato individuato dalla Corte d’Appello, tra   la personalità ( del sig. Caselli ) ed un preteso diritto di cronaca esercitato  con l’attribuzione di fatti offensivi, di cui non è stata dimostrata la verità, che non assolvono a nessuna funzione di informazione.

 

Ma il punto focale della sentenza sta nella decisa esclusione di ogni giudizio critico nell’articolo, con la conseguente insussistenza della scriminante  del diritto di libera manifestazione del pensiero. Ed in effetti, proprio in virtù del parametro comparativo di cui innanzi e dei connessi poteri di cognizione, questa Corte deve ribadire che la motivazione (della Corte d’Appello ) si sottrae ad ogni censura essendo di palmare evidenza come  l’articolo si esaurisca in una pressoché arida elencazione di fatti  e di comportamenti attribuiti al Sig. Caselli, senza il sia pur minimo sintomo, neanche implicito, di un contributo di pensiero da promuoversi al rango di giudizio critico e tanto meno di un tentativo d’ironia con le dedotte ma inafferrabili ‘formule graffianti e corrosive’ di cui ai motivi del ricorso. Alla stregua di siffatte conclusioni della Corte d’Appello, non si poneva nessun problema di osservanza o meno dei limiti della continenza formale.

Quanto fin qui detto dimostra pure che , non potendosi parlare di critica, è ultronea ogni indagine sull’esercizio del relativo  diritto e tanto meno sulla scriminante dell’eccesso colposo nell’esercizio del diritto  di critica o sull’esercizio putativo del diritto stesso”

(...) »

 

 

IN DIRITTO

 

I.                  QUESTIONE PRELIMINARE : L’ OGGETTO DELLA CONTROVERSIA

21§. Nella richiesta di rinvio alla Grande Camera, ed ancora all’udienza, il Governo ha sostenuto che è da considerare definitivo quel passo della sentenza della Corte del 25 luglio 2001 che fa riferimento alla doglianza fondata sull’ articolo 6 §§ 1 e 3 (d) della Convenzione e, per conseguenza,  non costituirebbe oggetto del presente procedimento.

 22§. Il ricorrente, per contro, ha invocato alla Corte di concludere per la violazione degli artt. 6 e 10 della Convenzione.

. 23§. La Corte non accetta le argomentazioni del Governo. Come ha avuto  modo di affermare in altre occasioni, la lettera dell’ articolo 43 della Convenzione, dice chiaramente, che se l’esistenza di “ gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un’importante questione di carattere generale” (par.2) è la conditio sine qua non perché venga accolta la richiesta di una parte, la conseguenza dell’accoglimento della domanda è che l’intero “caso” venga rimesso alla Grande Camera per essere deciso con una nuova sentenza (par.3). Avvenuto ciò, il “caso” rinviato alla Grande Camera necessariamente abbraccia tutti gli spetti del ricorso precedentemente esaminatidalla Camera nella sua sentenza,e l’ambito del suo giudizio sul caso  è limitato solo dalla decisione della Camera sulla ricevibilità. Insomma, nessuna base permette di rinviare in maniera soltanto parziale il caso di fronte alla Grande Camera ( vedi K. e T. contro Finlandia [GC] ricorso n. 25702/94, §§ 139-141, ECHR 2001-VII; eGöç c. Turkia [GC], ricorso n. 36590/97, §§ 35-37, ECHR 2002-V).

. 24§. La Corte quindi esaminerà le due doglianze fondate sugli articoli  6 e 10 che erano state dichiarate  ricevibili dalla Camera e sulle quali è stata emessa la sentenza

II.                 SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 PARAGRAFI 1 e 3 d) DELLA CONVENZIONE

 

. 25§.  Il ricorrente denuncia una violazione del suo diritto alla difesa, poiché le Corti italiane avevano rifiutato per tutta la durata del procedimento di ammettere le prove che egli aveva proposto, compreso l’interrogatorio in contraddittorio del querelante. A tal proposito egli invoca la Corte a constatare la violazione dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione, che enunciano quanto segue:

 

“1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, (...)  da un tribunale (...), il quale sia chiamato a pronunciarsi , (...)  sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (…).

 

3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

 (...)  

d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico».

 

26§.  Il Governo convenuto ha dato risalto innanzitutto al fatto che l'ammissibilità delle prove rientra nella  competenza delle Corti nazionali e che la responsabilità penale del ricorrente è stata confermata da <<tre gradi di giudizio che hanno esaminato in contraddittorio le prove presentate in udienza>>. I giudici nazionali hanno così valutato che le prove di cui il ricorrente aveva chiesto l’esame non erano pertinenti ai fini della fondatezza dell’accusa rivolta al ricorrente, e nessuna circostanza indica che il rifiuto di ammetterle costituisca una violazione dell'articolo 6. Inoltre, basandosi sulla giurisprudenza costante della Corte il Governo fa rimarcare che  l’accusato non dispone di un diritto illimitato di ottenere la convocazione di testimoni. Ed ancora bisogna che egli dimostri che quella testimonianza sia necessaria per accertare i fatti ed il ricorrentenella specie non lo avrebbe fatto. In realtà, nessuna delle testimonianze richieste dal ricorrente era pertinente in rapporto alle dichiarazioni diffamatorie contenute nell’articolo in questione.

27§. Il ricorrente contesta l'affermazione del Governo secondo cui le Corti nazionali lo avrebbero condannato basandosi  sulle prove esaminate nell’udienza. Secondo il ricorrente, i giudici avevano rifiutato di ammettere la prova cruciale in ogni processo per diffamazione, vale a dire la testimonianza del querelante. In tal modo, l’imputato si è visto negare il diritto di difesa  più elementare: vale a dire il diritto di chiedere al querelante, sotto giuramento, se i fatti alla base delle critiche  contenute nell’articolo fossero veri o meno. Inoltre,  egli non ha avuto la possibilità di presentare alcuna prova, e ciò sarebbe, a suo avviso, sintomatico della natura anormale del processo nei suoi confronti. In particolare, il ricorrente non capisce come si possano qualificare non pertinenti le testimonianze circa la militanza politica del querelante nel periodo in cui questo era già un magistrato, che costituiva la base delle critiche che egli aveva mosso riguardo all'indipendenza del sig. Caselli. In altre parole, fondando la sua colpevolezza soltanto in base all'articolo incriminato, le Corti interne competenti avrebbero, in sostanza, considerato il processo in sé come superfluo.

28§.  Il sig. Caselli, terzo intervenuto,sottolinea come le prove che il ricorrente ha cercato di addurre non avessero alcuna pertinenza con  l’oggetto del processo di diffamazione.

  29§. La Corte ricorda innanzitutto che la ammissibilità delle prove è materia primariamente rimessa alle regole del diritto interno.  Il ruolo attribuito alla Corte  dalla Convenzione non consiste nel pronunciarsi sul quesito se le deposizioni dei testimoni sono state a buon diritto ammesse come prove, ma nel ricercare se la procedura considerata nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova,  ha rivestito un carattere equo (si veda, tra molte altre, la sentenza  Van Mechelen ed altri contro Paesi-Bassi del  23 aprile 1997, Raccolta delle Sentenze e delle Decisioni 1997-III, § 50). In particolare, <<in linea di principio, spetta alle giurisdizioni nazionali di valutare gli elementi di prova da esse stesse  raccolti, e la pertinenza di quelli  che gli accusati desiderano poter presentare(...). In particolare, l'articolo 6 paragrafo 3 d) lascia loro, sempre in linea di principio, la facoltà di valutare l’utilità di un’offerta di prova testimoniale (si veda la sentenza Vidal contro Belgio, del 22 aprile 1992, Serie A no. 235-B, § 33). Di conseguenza, non è sufficiente per l’accusato protestare che non gli è stato consentito di far interrogare alcuni testimoni. Egli deve anche supportare la sua richiesta di audizione dei testimoni precisandone l'importanza e che queste audizioni siano necessarie per la dimostrazione della verità giudiziaria (sentenze Engel ed altri contro i Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, Serie A no. 22, § 91 e Bricmont contro Belgio, del 7 luglio 1989, Serie A no. 158, § 89). Questo principio si applica parimenti quando un imputato chiede l’interrogatorio del querelante in una causa di diffamazione.

 30§. La Corte nota che  in primo grado il ricorrente ha chiesto l’acquisizione nel fascicolo di due articoli di giornale riguardanti i rapporti fra il sig. Caselli e il pentito sig.Buscetta  , così come l’interrogatorio del primo (si veda par.15 sopra). In Appello il ricorrente ha reiterato la richiesta che il querelante venisse ascoltato ed anche il sig. Vertone ed il sig. Ferrara e che venissero acquisiti nel fascicolo altri due articoli apparsi sui giornali  nel dicembre 1994. Tali articoli riportano un intervista in cui  il sig. Vertone ed il sig. Ferrara avrebbero dichiarato che il sig. Caselli <<era  quasi affiliato al partito (Comunista) e che fosse “fortemente politicizzato” (si veda par. 17 sopra).

31§. Con questi mezzi di prova, il ricorrente ha cercato di dimostrare che l’orientamento politico del sig. Caselli, la sua amicizia con Violante e le sue relazioni professionali con Buscetta fossero reali. Ma le corti italiane investite del caso hanno sostenuto che le idee politiche di Caselli ed ogni manifestazione delle stesse che non avessero alcun legame con l’esercizio delle sue funzioni, l’amicizia con Violante e l’uso delle dichiarazioni del pentito Buscetta pagato dallo Stato, nel processo contro Andreotti, fossero fatti privi di rilevanza diffamatoria. D’altra parte, è stato considerato diffamatorio affermare  che il ricorrente avesse “strumentalizzato il caso Andreotti nel quadro di un grande disegno politico ordito da Violante” al fine di prendere il potere con mezzi non elettorali, così da abusare dei poteri giudiziari a fini politici. L’articolo diffamatorio, negava apertamente che Caselli avesse  le “qualità di imparzialità indipendenza obiettività e probità che caratterizzano l’esercizio delle funzioni giurisdizionali,” attribuendogli una condotta “che indica deviazioni dai propri doveri di ufficio” e che “ costituisce infrazione disciplinare nonché reato”.

Come affermato dalla Cassazione  nella sentenza del 8 ottobre 1998, le istanze probatorie della difesa “sono state interpretate nel loro esatto significato e valore e sono state correttamente disattese perché assolutamente prive di rilevanza ai fini della decisione”  ( si veda par.20 sopra). La natura vaga  ed irrilevante della richiesta di riapertura del dibattimento è stata agli occhi della Cassazione, ben chiara alla luce delle dichiarazioni del ricorrente: <<l’articolo già indicava le forme ed i modi’  della militanza attribuendo certi fatti al Caselli, onde provare la verità di tale militanza. Ed allora la genericità del capitolo o resta tale o si risolve nel tentativo di far ammettere da parte del querelante  quei fatti riportati nel capo di imputazione, con conseguente spostamento dell’onere probatorio incombente su (il Sig. Perna e il Sig.Montanelli). (...)>>.

 

La Corte è d’accordo con le corti italiane che, anche ammettendo  che l’acquisizione dei due articoli nel fascicolo e la testimonianza di Caselli potessero far luce sulle convinzioni politiche e le sue relazioni con terzi, tali misure non sarebbero state in grado  di stabilire  se avesse mancato nel rispettare i principi d’imparzialità, indipendenza e obiettività inerenti alle sue funzioni di magistrato. Su questo punto cruciale, in nessun momento il ricorrente ha cercato di provare che la condotta del magistrato fosse realmente contraria a tali principi.  Al contrario, a sua difesa ha sostenuto che fossero delle osservazioni critiche che non abbisognavano di prove.

. 32§. Alla luce di tali considerazioni  la Corte  considera   la decisione delle autorità nazionali non criticabile in riferimento all’articolo6, dal momento che il ricorrente non ha dimostrato l’utilità di produrre prove documentarie e acquisire le dichiarazioni del querelante e di altri testimoni al fine di dimostrare che la condotta imputata al Sig. Caselli, fosse effettivamente occorsa. Da tale punto di vista, il processo per diffamazione intentato dal Sig. Caselli nei confronti del ricorrente non si potrebbe considerare non equo in ragione del  modo di presentazione  delle prove.

La Corte osserva fra l’altro, sebbene non sia fondamentale per il caso in oggetto, che, il 10 gennaio1996 il tribunale di Monza  ha ritenuto irrilevante far riferimento ai verbali dell’interrogatorio di Buscetta e ad un articolo di giornale che li riportava, documenti che la difesa di Caselli aveva chiesto di ammettere come prova al fine di precisare lo svolgimento dell’interrogatorio (paragrafo 15 sopra).

In conclusione non c’è stata violazione dell’articolo6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione.

 

III.               SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE.

 

 33§. Invocando l'articolo 10 della Convenzione, il ricorrente si è ulteriormente lamentato di una violazione del suo diritto alla libertà di espressione, risultante sia dalla decisione nel merito delle Corti italiane che dalle loro decisioni sugli aspetti procedurali, queste ultime avendogli impedito di dimostrare che l'articolo incriminato era una manifestazione del “diritto di cronaca” e di critica nel contesto della libertà di stampa. Egli si riferisce all’articolo10 che sancisce:

 

“1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.

 

2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario”.

 

. 34§. La Corte osserva che, nella misura in cui riguarda il rifiuto delle Corti italiane di ammettere le prove richieste dal ricorrente, la seconda parte della doglianza in base all'articolo 10 non solleva in sostanza alcuna questione distinta da quella che è stata già decisa nel quadro dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione. Di conseguenza, la Corte esaminerà questa parte del ricorso puramente dal punto di vista delle garanzie sostanziali previste dall'articolo 10 per quanto riguarda come tale la condanna del ricorrente.

 

  1. Argomenti delle parti 

 

  1. Il Governo

 

  35§. Il Governo  di fronte alla Corte ha sostenuto che le decisioni di cui si lamenta il ricorrente avevano lo scopo di tutelare la reputazione altrui e, specificamente, quella del Procuratore della Repubblica di Palermo, sig. Caselli,  e di proteggere l'autorità del potere giudiziario; quindi, hanno perseguito degli obiettivi legittimi in base a quanto previsto dal secondo paragrafo dell'articolo 10. Le dichiarazioni del ricorrente, lontane dall'interessare un dibattito di interesse generale, contenevano, in effetti, insulti personali contro il magistrato in questione. Riferendosi alla giurisprudenza della Corte in materia, il Governo ha dato risalto al fatto che, tenendo conto della posizione specifica ricoperta dal  potere giudiziario all'interno della società, potrebbe essere necessario proteggerlo dagli attacchi privi di qualsiasi fondamento, in particolare, nei casi in cui il dovere di discrezione impedisce ai magistrati implicati di reagire.  Nell'accusare il magistrato interessato di aver infranto la legge o, quantomeno, i suoi doveri professionali, il ricorrente non ha soltanto danneggiato la reputazione dell’interessato ma egualmente la fiducia dei cittadini nella Magistratura. Come precisato dalla Corte d'Appello di Milano, il ricorrente non ha espresso delle opinioni ma ha attribuito dei fatti nei confronti magistrato accusato, senza procedere ad alcuna verifica e senza aver prodotto alcun elemento concreto a sostegno.

. 36§. Il Governo , nella richiesta di rinvio alla Grande Camera, ed in seguito in udienza, ha concentrato le proprie argomentazioni sulle ragioni che hanno portato la Camera a sostenere che ci fosse violazione dell’ articolo10 nella sentenza del 25 luglio 2001. Secondo la sua tesi, la constatazione della violazione non poggia su alcuna base dei fatti: lungi dal ritenere che la militanza politica di Caselli, fosse un fatto notorio, le Corti italiane hanno sostenuto che la frase simbolica che si riferiva al giuramento di obbedienza non era diffamatoria, e questo è stato il motivo per cui la richiesta di assunzione della testimonianza del querelante è stata respinta in quanto irrilevante.

2.Il ricorrente

37§. Il ricorrente ha asserito che la militanza   politica di un magistrato influenza inevitabilmente quest’ultimo nell’esercizio delle sue funzioni. Si può non essere d'accordo con questa opinione, ma non si potrebbe qualificarla come un’accusa molto grave tanto da essere sanzionata penalmente senza permettere alla difesa di addurre alcuna prova a discarico.

3        Il terzo intervenuto

38§. Il sig.Caselli ha affermato che la militanza politica  a cui fa riferimento la Camera nella sentenza del 25 luglio 2001  (paragrafi 28,29,41 e 42) non risulta per nulla dalle sentenze italiane. Nessuna delle corti interne ha considerato che tale militanza fosse stata comprovata. Inoltre il sig. Caselli, sostiene di non aver mai celato il proprio orientamento politico ( da non confondersi con una pretesa militanza): egli peraltro è stato membro di Magistratura Democratica, associazione di magistrati rappresentata all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura.

B. La valutazione della Corte

 1.I principi generali

. 39§. La Corte ricorda i principi fondamentali relativi all’argomento:

(a) La libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica ed una delle condizioni primordiali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni individuo. Salva la riserva del paragrafo 2, essa vale non soltanto per le “informazioni” o le “idee” accolte con favore o considerate come inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, sconvolgono o inquietano. Così esigono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale, senza i quali non vi è una “società democratica”. Come precisato nell’articolo 10, questa libertà è soggetta a delle eccezioni, che devono, tuttavia, interpretarsi in maniera restrittiva e l'esigenza di qualsiasi restrizione deve essere stabilita in modo convincente (si vedano, tra le altre, le seguenti sentenze: Jersild contro Danimarca, del 23 settembre 1994, Serie A n°. 298, p. 23, § 31;  Janowski contro Polonia [GC], n°. 25716/94, § 30, ECHR 1999-I; Nilsen e Johnsen contro Norvegia, [GC], n°. 23118/93, § 43, ECHR 1999 – VIII e Fuentes Bobo contro Spagna, no. 39293, §  43, 29 febbraio 2000 che deve essere ancora pubblicata).

La stampa gioca un ruolo fondamentale all’interno di una società democratica. Sebbene non debba oltrepassare certi limiti, soprattutto riguardo in particolare alla protezione della  reputazione e dei diritti altrui, e la necessità di prevenire il diffondersi di informazioni confidenziali, suo dovere è tuttavia quello di informare in ogni materia di pubblico interesse, comprese quelle inerenti la giustizia. ( vedi De Haes e Gijsels contro Belgio, sentenza del 24 febbraio 1997,Reports 1997-I, pp. 233-234, § 37). Non solo ha il compito di fornire tali informazioni ed idee: la gente ha il diritto di riceverle. Fosse altrimenti, la stampa non potrebbe svolgere il ruolo fondamentale di “cane da guardia” della comunità  (si veda Thorgeir Thorgeirson contro Islanda, sentenza del 25 giugno 1992, Serie A n. 239, p. 28, § 63, eBladet Tromsø e Stensaas contro Norvegia [GC], no. 21980/93, § 62, ECHR 1999-III). L’Articolo10 non protegge solo la  sostanza delle idee e dell’informazione espresse, ma anche la forma in cui vengono divulgate ( si veda Oberschlick contro Austria (n. 1), sentenza del 23 Maggio 1991, Serie A n. 204, p. 25, § 57). La libertà giornalistica comprende inoltre un possibile grado di esagerazione o persino di provocazione(si veda Prager e Oberschlick contro Austria, sentenza del 26 Aprile 1995, Serie A n. 313, p. 19, § 38, e Thoma contro Luxembourg, n. 38432/97, §§ 45 e 46, ECHR 2001-III).

(b) L’aggettivo “necessario”, nella lettera dell’art 10 § 2, implica l’esistenza di “ un’imperiosa esigenza sociale”. Gli Stati Contraenti godono di un certo margine di discrezionalità per giudicare  la sussistenza di un tale bisogno, ma questo margine va di pari passo con un controllo europeo, abbracciando sia la legge che le decisioni che la applicano, persino quelle derivanti da una giurisdizione indipendente. Compete, dunque, alla Corte in ultima istanza di  decidere se una “restrizione”  è conciliabile con la libertà di espressione come protetta dall'articolo 10 (Janowski contro Polonia, sopra citata, § 30).

(c ) Nell'esercitare il suo potere di controllo, la Corte deve esaminare l’ingerenza alla luce del caso nel suo insieme, ivi compreso il tenore  delle accuse rivolte contro il ricorrente ed il contesto in cui egli le ha fatte. In particolare, essa deve determinare se l’ingerenza in questione sia stata “proporzionata ai fini legittimi perseguiti” e se i motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificarla appaiano “pertinenti e sufficienti” (vedi la sentenza Barfod contro Danimarcadel 22 febbraio 1989, Serie A n°. 149, p. 12 § 28 e Janowski contro Polonia, sopra citata, § 30 e ). In tal modo, la Corte deve convincersi che le autorità nazionali hanno applicato delle regole conformi ai principi sanciti dall’articolo 10 ed, inoltre, che si sono basate su una valutazione accettabile dei fatti pertinenti (si veda la citata sentenza Jersild contro Danimarca, p. 24 § 31¸Fuentes Bobo contro Spagna sopra citata § 44; e Diego Nafrìa contro Spagna n. 46833/99, § 34, 14 Marzo 2002, non ancora pubblicata).

(d) La natura ed l’intensità della pena  comminata sono fattori ulteriori che vanno considerati nel momento in cui  bisogna valutare la proporzionalità dell’ingerenza ( vedi ad esempio, Ceylan contro Turkey [GC], n. 23556/94, § 37, ECHR 1999-IV, e Tammer contro Estonia, n. 41205/98, § 69, ECHR 2001-I).

 

2.  Applicazione dei suddetti principi nel caso in questione

 

40§. Come risulta dalle decisioni delle corti nazionali, il ricorrente è stato  rinviato a giudizio ed in seguito condannato per aver messo in dubbio  “la fedeltà del sig. Caselli ai principi di legalità, obbiettività ed indipendenza” (si veda par. 18 sopra) accusandolo, fra le altre cose di aver agito nell’esercizio dei propri doveri di magistrato, impropriamente ed illegalmente, in particolare se si fa riferimento al processo Andreotti.

Furono considerate le seguenti circostanze aggravanti:

-“Di aver imputato alla parte lesa gli atti menzionati ( e anche atti criminosi per quanto riguarda il pentito Buscetta)

-Il fatto di aver commesso l’atto (di diffamazione) a danno di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.”

La condanna in primo grado è stata in seguito confermata in Appello ed in Cassazione. (si vedano par.18-20 sopra).

41§. La condanna senza dubbio equivale ad una “ingerenza”  nell’esercizio del diritto di libertà di espressione del ricorrente. La questione attiene se tale ingerenza  può giustificarsi in base al secondo comma dell’articolo10. Quindi è da determinarsi se, l’ingerenza era  “prevista dalla legge”, se abbia perseguito uno “scopo legittimo” ai sensi di questo comma e se fosse “necessaria in una società democratica” ( si veda Lingens contro Austria, sentenza del 8 luglio 1986, Serie A n. 103, pp. 24-25, §§ 34-37).

42§. La Corte rileva  che le corti competenti hanno basato le loro decisioni sull’applicazione dell’articolo 595 commi 1 e 2 e sull’articolo61 numero10 del codice penale, e sull’articolo 13 del Testo Unico sulla Stampa (Legge n. 47 dell’8 febbraio 1948 – si veda par. 16 sopra) e che, come sostenuto dal Governo, le ragioni di tali sentenze abbiano perseguito  un fine legittimo, specificatamente la protezione  della reputazione e dei diritti altrui, in questo specifico caso del sig.Caselli che in quel momento ricopriva la carica di Capo della procura di Palermo.

43§. Comunque, la Corte ha il dovere di verificare se, l’ingerenza  fosse giustificata e necessaria in una società democratica, in particolare se fosse proporzionata e se le ragioni addotte a giustificazione dalle autorità nazionali, fossero pertinenti e sufficienti. Quindi, risulta essenziale determinare se le autorità nazionali hanno usato  correttamente il loro potere di discrezione condannando il ricorrente per diffamazione.

44§. Il Tribunale di Monza ha sostenuto come la natura diffamatoria dell’articolo fosse “assolutamente manifesta” dal momento che lo scritto escludeva la possibilità che il sig. Caselli fosse fedele agli obblighi imposti dalla deontologia professionale del suo incarico quale magistrato ed inoltre negava che possedesse le qualità d’imparzialità, indipendenza e obbiettività che caratterizzano l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Infine, le affermazioni del ricorrente si riducono ad un attacco ingiustificato al querelante, che ignobilmente offende il suo onore e la sua reputazione » (paragrafo 16 sopra).

 45§.La Corte d’Appello, ha sostenuto che talune affermazioni fatte dal sig. Perna nei confronti del querelante non erano per nulla diffamatorie. Altre invece, considerate erroneamente dal ricorrente alla stregua di giudizi o opinioni, attribuivano al sig. Caselli una condotta in maniera altamente diffamatoria e gratuita senza il minimo tentativo di confermare con prove le affermazioni espresse. Il fatto che il giornalista avesse agito deliberatamente, è stato pienamente confermato dal contenuto dell’insieme dell’articolo, nel quale il sig.Caselli viene “costantemente e sottilmente” denigrato. Quindi l’autore aveva inteso senza dubbio danneggiare la reputazione altrui  (paragrafi 18 e 19 sopra).

 46§. Infine la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, considerando che non fosse suscettibile di critica. La Corte di Cassazione ha sostenuto che i fatti addebitati al sig.Caselli non hanno svolto un ruolo informativo e non sono state corroborate da alcuna prova. La natura offensiva dell’articolo, per una persona, a maggior ragione per un magistrato, non era in dubbio, dal momento che il ricorrente ha riferito specifici fatti che implicavano una mancanza di personalità, dignità, indipendenza di pensiero, coerenza ed onestà morale, ed una condotta che indicava chiaramente come vi fossero stati  esempi di abbandono dei doveri professionali (paragrafo 20 sopra).

 47§. La Corte osserva come non si possa escludere a priori una constatazione della violazione dell’articolo10 allorché un imputato viene condannato dai tribunali nazionali sulla base di separate disamine di diverse affermazioni presentate in un articolo come quello in oggetto. Nel caso in esame tuttavia,  analizzare semplicemente ogni affermazione, che le autorità nazionali hanno preso in considerazione per giungere  alla conclusione che è stato commesso un reato di diffamazione, vorrebbe dire perdere di vista l’intero contesto dell’articolo e la sua vera essenza. Il sig. Perna non ha limitato le sue dichiarazioni al fatto che il sig. Caselli nutrisse o abbia manifestato convinzioni politiche  e che questo giustificasse dei dubbi circa la sua imparzialità nell’esercizio  delle sue funzioni. Appare abbastanza chiaro dall’intero articolo – come giustamente notato dai tribunali nazionali – come il ricorrente abbia voluto trasmettere all’opinione pubblica il seguente messaggio chiaro e privo di ambiguità: che il sig. Caselli segnatamente in precise circostanze legate all’incriminazione di Andreotti, avrebbe commesso coscientemente un abuso d’autorità con lo scopo di favorire la pretesa strategia del PCI di conquista delle procure italiane. In tale contesto, anche delle frasi come quella relativa  al “giuramento d’obbedienza” assume un significato tutt’altro che simbolico. Inoltre la Corte ricorda di aver  appena constatato nel paragrafo 31 della sua sentenza  che il ricorrente non ha mai tentato di comprovare  la veridicità della  condotta specificamente imputata al sig.Caselli ed anzi, come nella sua difesa abbia affermato  di aver espresso dei giudizi critici che non abbisognavano di alcuna prova.

48§. In considerazione di quanto detto sopra, la Corte considera non sproporzionata al legittimo scopo perseguito la condanna del ricorrente per diffamazione e la pena imposta (  una multa di  lire italiane  1.500.000, e lire italiane  60.000.000  come risarcimento danni, rimborso delle spese legali e pubblicazione della sentenza) e che le ragioni addotte dalle corti italiane a sostegno di tale decisione  sono state sufficienti e pertinenti. L’ingerenza nell’esercizio del diritto del ricorrente alla libertà d’espressione, può dunque ragionevolmente considerarsi  necessaria in una società democratica, al fine di proteggere la reputazione altrui, secondo il significato dell’articolo 10 § 2 della Convenzione.

Dunque non vi è stata violazione dell’articolo10.

 

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

 

1. Dichiara all’unanimità che non vi è stata violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione;

 

2.      Dichiara con sedici voti favorevoli ed uno contrario, che non c’è stata violazione dell’articolo10 della Convenzione.

 

Redatta in francese,  e poi pronunciata in pubblica udienza nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 6 maggio 2003.

Luzius Wildhaber (Presidente)
  
Paul Mahoney  (
Cancelliere)

 

Alla presente sentenza è annessa, in conformità con l’articolo 45 § 2 della Convenzione e con l’articolo 74 § 2 del Regolamento della Corte, l'opinione dissenziente del sig. Conforti.

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE CONFORTI,

 

 

Alla sentenza emessa dalla Camera avevo chiesto di aggiungere la mia opinione distinta, nella quale ho criticato  l’approccio seguito dalla maggioranza,  in particolare per il fatto che la maggioranza aveva  considerato la doglianza circa gli aspetti procedurali separatamente da quella che si riferisce all’articolo 10.

Io, invece,  ero in favore di  un approccio globale focalizzato sull’articolo 10.

La Grande Camera ha ora confermato la visione della Camera e come quella, ritiene  che i processi sono stati condotti in linea col dettato dell’articolo 6. Inoltre essa non ha seguito l’opinione della Camera per quanto riguarda la questione dell’ articolo10, perché a suo avviso non ha ritenuto che questo articolo fosse stato violato. Per mio conto posso solo ripetere l’opinione già espressa in occasione della sentenza della Camera.

Dal mio punto di vista, credo, che le questioni sollevate in casi di questo tipo rientrino ancora nell'articolo 10 anche per quanto riguarda lo svolgimento della procedura seguita; e ciò che può essere normalmente tollerato dal punto di vista dei diritti della difesa secondo le regole dell’equo processo stabilite nell’articolo 6, non può essere accettato quando bisogna verificare se un’ingerenza con la libertà di espressione è “necessaria in una società democratica”. Nel caso in questione le Corti hanno rigettato ogni richiesta di prove a discarico e, cosa che ritengo di una gravità eccezionale, hanno rifiutato di far testimoniare il querelante, che avrebbe potuto essere interrogato dalla difesa del ricorrente. Non è corretto speculare a priori su ciò che poteva  emergere da un tale interrogatorio.

 In un processo per diffamazione da parte di un giornalista nei confronti di un magistrato della procura, tale comportamento delle corti nazionali, che fosse intenzionale o meno, dà la chiara impressione di intimidazione, che non può essere tollerata alla luce della giurisprudenza della Corte sulle limitazioni della libertà di stampa. In effetti, le Corti italiane hanno dato prova di una grande rapidità giudicando il ricorrente in meno di quattro anni per tre livelli di giudizio. Tuttavia, anche questa circostanza, pur essendo encomiabile dal punto di vista del principio della durata ragionevole del processo, non può non rinforzare -  provenendo da un Paese condannato molte volte per la lunghezza dei suoi processi - l'impressione menzionata precedentemente.

  Questo è il motivo per cui considero che vi è stata una violazione dell’articolo 10.

Nell’esprimere la mia opinione, non ho davvero bisogno di enfatizzare l’importanza che do alla libertà di stampa. In relazione a ciò, impressiona il numero di azioni giudiziarie che i magistrati portano avanti contro i giornalisti in Italia, ed a quanto ammontano le somme per risarcimento danni, come ha lamentato l’Ordine dei Giornalisti nel 1999 ( si vedaOrdine dei giornalisti, Tutela della reputazione e libertà di stampa, Contenuti e riflessioni sul Convegno di Roma Citazioni e miliardi, Roma, 1999).

Dal momento che ciò che mi sta a cuore è solo la libertà di stampa, mi duole aver espresso la mia opinione in  un caso nel quale è coinvolto un magistrato – terzo intervenuto – che ogni cittadino italiano deve ammirare per il fatto che rischia la sua vita nella lotta contro la Mafia.