sentenza agosto 2001

Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
Caso :  N.F. contro ITALIA

SENTENZA del  02 agosto 2001.  Ricorso n° 37119/97.

Violazione dell'articolo 11 (libertà di riunione ed associazione) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, quanto alla sanzione disciplinare inflitta ad un magistrato per il solo fatto di essere stato iscritto alla massoneria, poiché tale sanzione non era né « prevedibile », né « prevista dalla legge ». Equa soddisfazione liquidata in 20.000.000 (venti milioni) lire italiane per il danno e   27.312.012 (venti sette milioni trecento dodici mila dodici) lire italiane  per le spese legali, comprese quelle sostenute davanti ai giudici nazionali.

Non violazione dell'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, quanto alla divulgazione sulla stampa dell’appartenenza del ricorrente alla  massoneria.

 

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

La sentenza così motiva

 (traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)

SECONDA SEZIONE

Sentenza del  02 agosto  2001

sul ricorso n° 37119/97
presentato da N.F. 
contro ITALIA

Nel caso N.F. c. Italia,

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi in una camera

composta da: 

C.L. ROZAKIS, presidente A.B. BAKA,  B. CONFORTI, G. BONELLO,  P. LORENZEN, M. FISCHBACH, M. TSATSA-NIKOLOVSKA, giudici, e dal sig. M.E. Fribergh, cancelliere di sezione,  

Dopo averla deliberata in camera di consiglio il 25 novembre 1999 e il 10 luglio 2001, rende la seguente sentenza adottata in quest’ultima data:

PROCEDURA

1.  All’origine del caso vi è un ricorso (n°  37119/97) indirizzato contro l’Italia , di cui un cittadino di questo Stato, il sig. .N.F.  (<<il ricorrente>>), aveva adito la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (<<la Commissione >>) il 31 luglio 1997  in virtù del vecchio articolo 25  della Convenzione per la  salvaguardia dei Diritti  dell’Uomo  e delle Libertà fondamentali (<<la Convenzione>>).

 

2. Il ricorrente è rappresentato davanti alla Corte dall’avv.  Anton Giulio Lana, avvocato del foro di Roma. Il Governo italiano (<<Il Governo >>) è rappresentato dal suo agente U. Leanza e dal suo coagente V. Esposito.  Il presidente della camera ha consentito alla richiesta formulata dal ricorrente di non‑divulgazione della sua identità  (articolo 47 § 3 del Regolamento).

 

3. Il ricorrente denunciava particolare che una sanzione disciplinare adottata nei suoi confronti, violava gli articoli 8, 9, 10 e 11 della Convenzione, esaminati  isolatamente o combinati con l’articolo 14.

4. Il ricorso è stato  trasmesso alla Corte  il 1  novembre 1998, data d’entrata in vigore del Protocollo n° 11 alla Convenzione (articolo 5 § 2 del Protocollo n° 11).

5.  Il ricorso è stato attribuito alla seconda sezione della Corte (articolo 52 § 1 del Regolamento). In seno alla quale, la  camera incaricata di esaminare la questione (articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del Regolamento.

6. . Con  una decisione del 25 novembre 1999, la Corte  ha dichiarato il ricorso parzialmente ricevibile , dopo una udienza dedicata sia alle questioni di ricevibilità che a quelle di merito (articolo 54 § 4 del Regolamento).

7.  Dopo l’udienza, il ricorrente ha depositato delle osservazioni scritte sul merito del caso , ma non il Governo (articolo 59 § 1 del Regolamento).

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

8.  Il ricorrente, nato nel 1942, è un magistrato che fece domanda , dopo l’estate 1990, di affiliazione alla massoneria del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. Il 5 marzo 1991,  divenne membro della loggia « Adriano Lemmi »  di Milano.

Durante l’estate 1992, il ricorrente lesse sulla stampa  nazionale che certi Procuratori della Repubblica – segnatamente quello di Palmi (Reggio  Calabria) – avevano avviato delle inchieste che, secondo alcune voci, avrebbero riguardato delle logge associate al Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani.

Nell’ottobre 1992, il ricorrente chiese di allontanarsi dalla massoneria ed, il 5 novembre 1992,  fu messo « in sonno ».

9.  Il Procuratore di Palmi, che aveva  trasmesso la lista dei magistrati iscritti alla massoneria al Consiglio Superiore della Magistratura,  la comunicò alle persone incaricate dell’avvio delle  procedure disciplinari contro i magistrati, segnatamente il ministro della Giustizia ed il Procuratore Generale presso la Corte  di Cassazione. In questa  circostanza, la lista fu resa pubblica - almeno in parte – dalla stampa.

10.  A seguito dell’apertura di un’inchiesta , nel luglio 1993, il ricorrente fu ascoltato da un ispettore  dell’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia. In seguito, nel febbraio 1994,  fu ascoltato dal  Procuratore Generale presso la Corte  di Cassazione.

11.  Nel giugno 1994, il ricorrente fu citato a comparire davanti la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Egli era  accusato di aver compromesso il prestigio  dell’ordine giudiziario, perché aveva  gravemente mancato ai suoi doveri. Egli non si sarebbe dunque reso degno della fiducia che bisogna avere in un  magistrato.

Nelle sua arringa, il difensore  del ricorrente richiamò  una decisione della stessa Sezione, adottata  una decina di anni prima , che sottolineava  la differenza tra una associazione segreta– a cui era vietato di aderire – ed una associazione a carattere riservato. Il difensore del ricorrente osservò parimenti che  la direttiva del Consiglio Superiore della Magistratura, che stabiliva  l’incompatibilità tra la funzione di magistrato e l’iscrizione alla massoneria, era stata adottata durante l’estate 1993, cioè un anno dopo che il ricorrente aveva lasciato la massoneria di sua spontanea volontà.

All’esito della procedura, la Sezione disciplinare stimò che il ricorrente avesse violato l’articolo 18 del decreto  legislativo regio del 31 maggio 1946 n° 511 ed inflisse la sanzione dell’avvertimento.

12.  Avendo il ricorrente proposto gravame davanti la Corte  di Cassazione, quest’ultima esaminò il caso a Sezioni Unite il 13 giugno 1996 e, con una sentenza  del 10 dicembre 1996, rigettò il gravame.

13  Il 17 maggio 2000, la IVa Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura espresse un nuovo parere  negativo circa la promozione del ricorrente- per il quale  le condizioni richieste erano maturate fin dal  17 ottobre 1997 -  e ciò a motivo  della sanzione disciplinare che egli aveva subito. In effetti, una simile decisione era stata già adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura in  una data non precisata.

 

II.  IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

14.  Le disposizioni particolari della Costituzione citate dal Governo sono  le seguenti :

« Articolo 54

Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e  di osservarne la Costituzione e le leggi.

   I  cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

Articolo 98

I  pubblici  impiegati  sono  a servizio esclusivo della Nazione. Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità.

   Si   possono   con   legge    stabilire   limitazioni  al  diritto d'iscriversi  ai  partiti  politici  per i magistrati, i militari di carriera  in  servizio  attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero.

Articolo 111

<<   Contro  le  sentenze  e  contro  i  provvedimenti  sulla  libertà personale,  pronunciati  dagli  organi  giurisdizionali  ordinari  o speciali,  è  sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge.  Si  può  derogare  a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.

   Contro  le  decisioni  del  Consiglio  di Stato e della Corte dei conti  il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. >>

15.              Ai sensi dell’articolo 18 del decreto  legislativo regio n° 511 del 31 maggio 1946 (« il decreto  del 1946 »), il magistrato che << manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere>> è soggetto ad una  sanzione disciplinare.

16.  Chiamata a pronunciarsi  sulla costituzionalità dell’articolo 18 del decreto  del 1946 in  rapporto all’articolo 25 § 2 della Costituzione, la Corte  costituzionale ha statuito che in materia di procedimento disciplinare contro i magistrati, il principio di legalità trova applicazione come esigenza fondamentale dello Sato di diritto e costituisce una conseguenza necessaria dell’assetto dato alla Magistratura dalla Costituzione (sentenza n° 100 dell’ 8 giugno 1981, § 4).

Tuttavia, per il  fatto che l’articolo  18 non elenca i  comportamenti che possono essere  considerati come illeciti, la Corte  costituzionale ha precisato che non è  possibile indicare tutti i comportamenti che  possono compromettere  i valori  - la  fiducia e la considerazione di cui deve godere,  un magistrato così come  il prestigio dell'ordine giudiziario, - garantiti dalla predetta disposizione. In effetti, secondo quest’ultima, questi valori costituiscono dei principi deontologici che non possono essere  ricompresi in degli « schemi preordinati, non essendo identificati e catalogabili tutti i possibili comportamenti  con essi contrastanti  e che potrebbero provocare  una negativa reazione dell’ambiente sociale » (ibidem, § 5). La Corte  ha poi ricordato che, nelle leggi anteriori che disciplinavano la stessa materia, c’era una  disposizione avente un contenuto generale a fianco delle disposizioni che sanzionavano dei comportamenti specifici, che i progetti di riforma in questo campo mantenevano sempre delle formule aventi un contenuto generale ed, infine, che ciò accadeva anche per le altre categorie professionali. La Corte  costituzionale ha concluso che « le disposizioni in  materia non possono non avere un contenuto generale perché una indicazione puntuale avrebbe per conseguenza di attribuire la legittimità a dei comportamenti non previsti che erano tuttavia criticati dalla coscienza sociale. Essa ha aggiunto che queste  considerazioni giustificavano l’ampiezza della norma ed il largo margine di valutazione  accordato ad un organo che, agendo  con le garanzie proprie di un procedimento giudiziario, era in ragione della sua struttura particolarmente qualificato per valutare  se il comportamento considerato in ogni caso comprometteva o meno i valori protetti (ibidem, § 5).

La Corte  costituzionale ha infine indicato  che tale  interpretazione era conforme alla sua giurisprudenza in materia di legalità (ibidem, § 6).

17.  La legge n° 17 del 25 gennaio 1982 recante Norme di attuazione dell'art. 18 (diritto d’associazione) della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento della associazione denominata  P2, ha previsto che la partecipazione ad una associazione segreta costituisce un reato penale (articolo 2). Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, l’articolo 4 prevede che un procedimento disciplinare deve essere parimenti aperto a loro carico  davanti una commissione speciale composta secondo  regole ben precise. Tuttavia, nei confronti dei magistrati ordinari, amministrativi e militari, la competenza resta ai rispettivi organi disciplinari.

18. Il 22 marzo 1990, nel corso  di una discussione riguardante l’incompatibilità tra l’esercizio delle funzioni giudiziarie e l’iscrizione di magistrati alla massoneria in seguito ad un messaggio del Capo dello Stato – che lo presiede – inviato al Consiglio Superiore della Magistratura, quest’ultimo ha adottato una direttiva. Il verbale (discussione e testo della direttiva) della riunione relativa è stato  pubblicato in « Verbali consiliari » (pp. 89-129) e comunicato ai presidenti della Repubblica, del Senato e della Camera dei Deputati.

Secondo questa  direttiva, « la partecipazione di magistrati ad  associazioni che comportino il vincolo gerarchico e sodalistico  particolarmente forte attraverso l’assunzione, in forme solenni, di vincoli come quelli richiesti dalle logge massoniche, pone delicati  problemi di rispetto dei valori  della Costituzione italiana ».

Il Consiglio Superiore della Magistratura ha aggiunto che rientrava « sicuramente [nella sua] competenza di controllare il rispetto del principio basilare dell’articolo 101 della Costituzione secondo cui  “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. ». Secondo il Consiglio, « questa tutela comporta (...) la sorveglianza attenta perché ogni magistrato osservi - ed appaia  come osservante -nell’esercizio delle sue funzioni il principio della soggezione soltanto alla legge  ».

Il Consiglio Superiore della Magistratura ha in seguito richiamato una sentenza  del 7 maggio 1981 della Corte  costituzionale in cui quest’ultima fa  una ponderazione tra la libertà di pensiero dei magistrati e il loro  obbligo di essere  imparziali ed  indipendenti.

Il Consiglio ha aggiunto che « bisogna sottolineare che tra i comportamenti del magistrato da prendere in considerazione, come altri, per i bisogni dell’esercizio dell’attività amministrativa propria del Consiglio, vi è anche , al di là del limite fissato dalla legge n° 17 del 1982, l’accettazione di vincoli che  A) si sovrappongono all’obbligo di fedeltà alla Costituzione, di esercizio imparziale ed indipendente dell’attività giurisdizionale, B) compromettono la fiducia dei cittadini verso  la funzione giudiziaria facendogli perdere la sua credibilità ».

Infine, il Consiglio Superiore della Magistratura ha stimato « dover segnalare al Ministro di Grazia e Giustizia di considerare l’opportunità di proporre che  limitazioni eventuali al diritto d’associazione dei magistrati facciano riferimento a tutte  le associazioni che - per la loro  organizzazione e fini - comportino per i membri dei vincoli di gerarchia e di solidarietà particolarmente costrittivi ».

29.  Il 14 luglio 1993, il Consiglio Superiore della Magistratura ha adottato un’altra direttiva con cui ha  affermato l’incompatibilità dell’esercizio delle funzioni di magistrato con l’appartenenza alla massoneria.

 
IN DIRITTO

20.  Il ricorrente lamenta  la violazione degli articoli 8, 9, 10 e 11 della Convenzione così come  dell’articolo 14 combinato con tutte queste disposizioni.

La Corte  ne esaminerà la fondatezza  cominciando con l’articolo 11 che , secondo essa, costituisce la doglianza più pertinente nella fattispecie.

I.  SULLA PRETESA VIOLAZIONE  DELL’ARTICOLO 11 DELLA CONVENZIONE

3.  Il ricorrente reputa che la sanzione disciplinare in questione costituisce una ingerenza nel suo  diritto alla libertà d’associazione. Egli vi ravvisa una violazione dell’articolo 11 della Convenzione, così formulato :

«1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d'associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi.

2. L'esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale e per la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non vieta che restrizioni legittime siano imposte all'esercizio di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell'amministrazione dello Stato.

 

1.  Sull’esistenza d’una ingerenza

22.  La Corte  considera, ed il Governo d’altronde non lo contesta, che vi è stata ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto della sua libertà d’associazione.

23.  Per essere compatibile con l’articolo 11, una tale ingerenza deve soddisfare a tre condizioni : essere « prevista dalla legge », mirare ad uno od a fini  legittimi al riguardo del paragrafo 2 precitato ed essere  « necessaria, in  una società democratica », per raggiungerli.

2.  Era l’ingerenza  « prevista dalla legge » ?

24.  Il ricorrente fa notare che la sanzione disciplinare è stata  irrogata sulla base dell’articolo 18 del decreto  del 1946. Ora questa disposizione è stata  criticata per il suo carattere generico e la sua costituzionalità è stata anche  contestata davanti la Corte  costituzionale. In tal modo, secondo il ricorrente, non si potrebbe  parlare di legge ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 11, e dunque l’ingerenza non era  « prevista dalla legge ». Per di più, sulla base della legislazione in vigore e della giurisprudenza dell’epoca quanto al detto articolo 18, il ricorrente era in diritto di credere che  la sua  adesione alla massoneria non fosse  incompatibile con la legge.

25.  Da parte sua , il Governo considera che l’ingerenza in questione  trovi il suo fondamento nell’articolo 18 del decreto  del 1946. Egli osserva tuttavia che questa disposizione mette in campo gli articoli 54 § 2, 98 § 1 e 111 della Costituzione italiana che stabiliscono l’obbligo di fedeltà dei magistrati alla Repubblica.

26.  La Corte  ricorda la sua giurisprudenza costante secondo la quale le parole « prevista dalla legge » impongono non soltanto che la misura incriminata abbia una base nel diritto interno, ma mirino anche  la qualità della legge in causa : così, quest’ultima deve essere accessibile alla persona soggetta alla giurisdizione e prevedibile (vedere Rekvényi c. Ungheria [GC], CEDH 1999-III).

27.  Nella fattispecie, la Corte  constata che l’articolo 18 del decreto  del 1946 prevede la possibilità di sanzionare il magistrato che « manca ai suoi doveri ». Perciò, la Corte  può concludere che la sanzione disciplinare aveva  una base nel diritto italiano.

28.  Quanto alla accessibilità della legge, la Corte  stima che questa  esigenza si trovi assolta  dal momento che  la legge era pubblica ed accessibile al ricorrente.

29.  Con riferimento all’esigenza di prevedibilità, la Corte  ricorda che una  norma è «prevedibile» quando  è redatta con abbastanza precisione per permettere ad ogni persona, avvalendosi se del caso di pareri illuminati, di regolare la sua condotta (sentenza Hassan e Tchaouch c. Bulgaria [GC], n° 30985/96, § 84, CEDH 2000-XI).

30.  Conviene dunque ricercare in particolare se il diritto interno fissava con una precisione sufficiente le condizioni in cui  un magistrato doveva astenersi  di associarsi alla massoneria.

31.  La Corte  rileva dapprima che  l’articolo 18 del decreto  del 1946 non definisce se ed in quale  maniera un magistrato può esercitare il suo diritto d’associazione. Inoltre, la Corte  costituzionale ha constatato che questa  disposizione ha un carattere generale. Tuttavia, la direttiva del 1990 del Consiglio Superiore della Magistratura aveva fatto sembrare che l’iscrizione dei magistrati a delle associazioni legali che, come la massoneria, erano sorrette da certe regole di condotta, poteva porre dei problemi per un magistrato (vedere paragrafo 18 supra ). La Corte  deve dunque ricercare se l’articolo 18, combinato con la direttiva del 22 marzo 1990 del Consiglio Superiore della Magistratura (vedere paragrafo 15 supra ), può permettere di considerare la sanzione in questione siccome prevedibile. A tal riguardo, la Corte  nota che questa direttiva era stata adottata nel quadro dell’esame della questione specifica della partecipazione dei magistrati alla massoneria e per di più, il Consiglio Superiore della Magistratura, organo di governo dei magistrati, aveva il potere di emanare tali  disposizioni. Tuttavia, anche se l’oggetto principale della direttiva era l’appartenenza alla massoneria, i termini impiegati a proposito di questa (« la partecipazione... pone dei problemi delicati ») erano ambigui e potevano dare l’impressione che non tutte le logge massoniche fossero prese in considerazione. Ciò ancor più se si consideri che questa direttiva interveniva dopo la grande disputa che si era svolta in Italia sulla illegalità della loggia segreta P2. In effetti, la direttiva indicava chiaramente soltanto che « la legge vieta naturalmente ai magistrati di partecipare alle associazioni vietate dalla legge n° 17 de 1982 ». Quanto alle  altre associazioni, era detto che « il Consiglio [Superiore della Magistratura] reputa di dover  segnalare al Ministro di Grazia e Giustizia di considerare l’opportunità di proporre che eventuali  limitazioni al diritto d’associazione per i magistrati facciano riferimento a tutte le associazioni che  - per la loro organizzazione e fini - comportino per i membri vincoli di gerarchia e solidarietà particolarmente costrittivi ».

Conseguentemente, i termini della direttiva del 22 marzo 1990 non erano sufficientemente chiari per permettere anche ad una persona accorta e adusa al diritto come il ricorrente, di  rendersi conto – anche alla luce della disputa che l’aveva preceduta - che l’adesione ad una loggia massonica ufficiale poteva comportare una  sanzione per  un magistrato.

La Corte  trova conferma della sua valutazione nel fatto che il Consiglio Superiore della Magistratura sentì esso stesso il bisogno di tornare  sulla questione il 14 luglio 1993 (vedere paragrafo 19 supra ) per affermare in termini chiari l’incompatibilità dell’esercizio delle funzioni del magistrato con l’appartenenza alla massoneria.

32.  La Corte  ne conclude dunque che la condizione di prevedibilità non è stata rispettata e che  conseguentemente, l’ingerenza non era  prevista dalla legge.

33.  Essendo giunta a questa  constatazione, la Corte  non ha bisogno di controllare se le altre esigenze (fine legittimo, necessità dell’ingerenza e limitazioni speciali per certe categorie) volute  dalla  prima e seconda frase del paragrafo 2 dell’articolo 11 siano state  rispettate. 

34.  Pertanto, vi è stata  violazione dell’articolo 11.

II.  SULLA PRETESA VIOLAZIONE  DEGLI ARTICOLI 8, 9 E 10 DELLA CONVENZIONE PRESI SINGOLARMENTE  O COMBINATI CON L’ARTICOLO 14, E  DELL’ARTICOLO 11 COMBINATO CON L’ARTICOLO 14

35.  Il ricorrente lamenta parimenti una violazione degli articoli 8, 9 e 10 presi singolarmente o combinati con l’articolo 14 della Convenzione così come la disconoscenza dell’articolo 11 combinato con l’articolo 14. Le sue doglianze riguardano lo stesso  fatto (sanzione disciplinare)  esaminato sul campo  dell’articolo 11.

36.  Per quel che riguarda l’articolo 8, il ricorrente ne invoca per di più la violazione a causa della diffusione sulla stampa  - dopo la comunicazione della lista degli affiliati da parte del Procuratore di Palmi al Consiglio Superiore della Magistratura - della sua appartenenza alla massoneria.

37.  Il ricorrente lamenta che la pubblicazione della sua appartenenza alla massoneria da parte della stampa costituisce una violazione del suo diritto alla vita privata. Secondo lui, questa disconoscenza  è indipendente dalla problematica  se la partecipazione alla massoneria fosse, come egli ritiene, lecita o meno : in effetti, ogni « condizione concernente la sfera della personalità di un individuo tende ad essere riservata al dominio dell’individuo ».

38.  Da parte sua  , il Governo indica che questa doglianza concernerebbe piuttosto i limiti alla libertà di comunicare le informazioni garantita dall’articolo 10 della Convenzione.

39.  La Corte  osserva che, secondo la sua giurisprudenza, « la sfera della vita privata, quale concepita dalla Corte , copre l’integrità fisica e morale della persona ; la garanzia offerta dall’articolo 8 della Convenzione è principalmente destinata ad assicurare lo sviluppo, senza ingerenze esterne, della personalità di ciascun individuo nelle  relazioni con i suoi simili (vedere la sentenza   Botta c. Italia del 24 febbraio 1998, Recueil 1998-I, p. 422, § 32). Nella fattispecie, il ricorrente non ha  provato che la divulgazione da parte della stampa della sua affiliazione alla massoneria gli abbia  causato un simile  pregiudizio. Per contro, egli ha riconosciuto che simile « adesione può essere conosciuta da chiunque attraverso la consultazione dell’elenco dei membri ».

Pertanto, non vi è stata  ingerenza.

40.  A proposito della prima doglianza riguardante l’articolo 8 e delle doglianze riguardanti gli altri articoli,  vista  la conclusione a cui essa  è giunta  quanto alla disconoscenza dell’articolo 11, la Corte  non ritiene necessario di  esaminarli separatamente.

III.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

41.  Ai sensi dellarticolo 41 della Convenzione,

« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno della Alta Parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di  tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione  alla parte lesa. ».

A.  Danno

42.  Il ricorrente chiede in primo luogo alla Corte  di condannare il governo convenuto a mettere fine alle violazioni accertate con l’adozione di ogni  misura prevista a livello nazionale. Egli  chiede siffatta restitutio in integrum   fondandosi sulla Raccomandazione n° R (2000) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sul  riesame o la riapertura  di certi casi a livello interno a seguito delle sentenze  della Corte  europea dei Diritti dell’Uomo (adottata dal Comitato dei Ministri il 19 gennaio 2000, nel corso della 694e riunione dei Delegati dei Ministri), egli chiede la revisione del procedimento disciplinare. Egli ricorda  che la sentenza della Corte  europea dovrebbe considerarsi come un « fatto nuovo » che , ai sensi dell’articolo 37 paragrafo 6 del decreto  del 1946, permette di richiedere la revisione del procedimento disciplinare.

Il ricorrente chiede inoltre  57.000.000 di lire italiane per danno materiale (spese mediche e perdita dello stipendio) in ragione della diffusione sulla stampa della sua appartenenza alla massoneria, 472.336.500 di  lire italiane per danno morale così giustificato : 300.000.000 di lire italiane per il torto morale dovuto al danno alla reputazione, 114.891.000 di lire italiane per danno biologico e 57.445.500 di lire italiane per ogni altro torto morale.

43.  Da parte sua, il Governo reputa che il ricorrente non ha fornito alcuna prova quanto all’esistenza del danno.

44.  Per quanto riguarda il danno materiale, la Corte  ricorda dapprima  le considerazioni fatte  al paragrafo 39 supra . Essa osserva  che il ricorrente non ha  provato l’esistenza di un nesso di causalità tra le spese  mediche e la violazione accertata né la realtà della somma indicata a titolo della perdita dello stipendio . Quanto al danno  morale, la Corte  sottolinea che la sanzione inflitta era la meno grave di quelle previste. Si può essere nondimeno d’accordo che il ricorrente ha potuto subire un certo danno morale, che non si trova  sufficientemente riparato con la constatazione della violazione alla Convenzione. Decidendo in via equitativa come lo prevede l’articolo 41, la Corte  accorda al ricorrente 20.000.000 di lire italiane per l’insieme del  pregiudizio  subito.

B.  Spese Legali

45.  Il ricorrente reclama 60.883.648 di lire italiane a titolo di rimborso delle spese della procedura  davanti la Commissione e la Corte. Egli chiede parimenti 7.372.012 di lire italiane a titolo di rimborso delle spese  del procedimento disciplinare.

46.  Il governo si rimette alla saggezza della Corte.

47.  La Corte  ricorda che ai sensi  dell’articolo 41 della Convenzione, essa rimborsa le spese per cui è stabilito che sono state realmente sostenute , che  corrispondevano ad una necessità e che siano di un ammontare  ragionevole (vedere, tra le altre, T.P. e K.M. c. Regno Unito [GC], n° 28945/95, 10.5.2001, § 120). Essa osserva che nel  presente caso, vi è stata una udienza e che molte memorie sono state depositate. Tuttavia , la Corte  giudica che le somme reclamate  sono esagerate.

Alla luce di questi  elementi, la Corte  accorda la somma de 20.000.000 di lire italiane per le spese legali  davanti la Commissione e la Corte.

A questa somma è d’uopo aggiungere il  rimborso delle spese sostenute nel corso  del procedimento disciplinare, segnatamente 7.312.012  di lire italiane.

C.  INTERESSI MORATORI

48.§ Secondo le informazioni di cui dispone la Corte, il tasso dinteresse legale applicabile in Italia alla data di adozione della presente sentenza è del 3,5 % annuo.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

1.  Dichiara, per quattro voti contro tre, che vi è stata violazione dell'articolo  11 della Convenzione ;

 

2.  Dichiara,  all’unanimità, che non vi è stata  violazione dell’articolo 8 della Convenzione  per quanto concerne la doglianza  basata sulla divulgazione dell’appartenenza del ricorrente alla massoneria ;

 

3.  Dichiara,  all’unanimità, che non vi è luogo  di esaminare se vi è stata violazione degli articoli 8 (in ragione dell’irrogazione  della sanzione disciplinare), 9 e 10 della Convenzione presi singolarmente  o combinati con l’articolo 14 della Convenzione, o dell’articolo 11 combinato con l’articolo 14 ;

 

4.  Dichiara,  per quattro voti contro tre,

a)  che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro i tre mesi a  decorrere dal giorno in cui la sentenza è divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, le somme seguenti :

i.  20.000.000 (venti milioni) di lire italiane, per danno ;

ii.  27.312.012 (venti sette milioni trecento dodici mila dodici) di lire italiane, per  spese legali;

b) che questi importi saranno maggiorati dell’interesse semplice del 3,5 % annuo dalla data di  scadenza di questo termine e fino al versamento; 

5. Rigetta,  all’unanimità, per il surplus la domanda di equa soddisfazione.

** Redatta in francese, poi comunicata per iscritto il 02 agosto 2001 in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento.

Christos Rozakis  (Presidente)
Erik 
Fribergh 
(Cancelliere)