sentenza 5 dicembre 2002

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)
 CASO  
CRAXI contro ITALIA (n.2)

   

SENTENZA del 05 dicembre 2002. Ricorso n° 34896/97.

● NON  violazione dell’articolo 6 paragrafo  1 (diritto ad un equo processo) e paragrafo 3 lettera b) (diritto  di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie alla sua difesa) della Convenzione europea dei  Diritti dell’Uomo in ragione del carattere ravvicinato delle date delle udienze nei vari  procedimenti penali a carico del ricorrente,

● Violazione dell’articolo 6 paragrafo  1  e paragrafo 3 lettera d) (diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni) della Convenzione in ragione dell’impossibilità di interrogare o far interrogare i testimoni a suo carico deceduti o che si sono avvalsi del diritto  di non rispondere ,

● NON violazione dell’articolo 6 (diritto ad un equo processo)  della Convenzione  in ragione della campagna di stampa diretta contro il ricorrente ,

● la sola constatazione della  violazione comporta di per sé un’equa soddisfazione sufficiente, sia per il danno morale che materiale.

PRIMA SEZIONE

Sentenza del  5 DICEMBRE  2002

sul ricorso n° 34896/97.

presentato da CRAXI contro ITALIA (n.2)

(traduzione non ufficiale del comunicato stampa a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)

 

RIASSUNTO DELLA SENTENZA

1. Principali fatti

Il ricorrente, Benedetto Craxi era  un cittadino italiano nato nel 1934. Più conosciuto con il  nome di Bettino Craxi, egli  fu segretario del Partito Socialista italiano e Primo ministro della Repubblica italiana. Morto in  Tunisia nel gennaio 2000, la sua  vedova Anna Maria Moncini Craxi, come i suoi due figli, Stefania e Vittorio Craxi, hanno precisato che essi desiderano portare a termine  la presente procedura.

Alcuni procedimenti penali furono intentati contro il ricorrente a seguito della scoperta di  gravi irregolarità nelle trattative relative alla conclusione di un accordo tra il gruppoEni e Montedison che prevedeva la costituzione della società Enimont. Il ricorrente fu accusato nel 1992, insieme ad altre numerose persone, per false scritture contabili, finanziamento illecito di partiti  politici, corruzione, concussione e ricettazione, tutte infrazioni commesse in particolare in occasione della cessione della partecipazione della società Montedison alla società Enimont. Complessivanente furono emessI 26avvisi di garanzia diretti contro di lui. La stampa  diede risonanza dei procedimenti intentati contro il ricorrente e contro le altre  persone del mondo politico, economico ed istituzionale.

Il ricorrente fu rinviato a giudizio davanti al tribunale di Milano in sei diversi procedimenti penali, segnatamente i casi Eni-SaiBanco AmbrosianoEnimont,Metropolitana MilaneseCariplo ed Enel. Ad eccezione del caso  Cariplo, tutti diedero luogo a delle condanne del ricorrente con pene fino ad otto anni e sei mesi di reclusione .

Nel caso  Eni-Sai, il ricorrente era incriminato per corruzione : gli era stato addebitato di aver  influenzato e favorito  l’adozione di un progetto di joint venture tra tre società (di cui le società Eni e Sai) appartenenti al settore delle assicurazioni. Egli avrebbe, insieme ad altri coimputati, illegalmente versato ai funzionari pubblici ed ai dirigenti delle predette  società la somma di circa 8.779.767  EURO, con  la promessa di ulteriori versamenti di circa  1.549.370 e di 3.615.198 EURO.

Secondo i suoi  avvocati, il ricorrente non partecipò alla prima  udienza di questo caso  (Eni-Sai) per motivi di salute e per il pericolo alla sua incolumità. Egli non partecipò ad alcuna delle altre 55 udienze che si tennero per questo caso tra il mese di aprile ed il dicembre 1994, perché egli si stabilì definitivamente in Tunisia il 16 maggio 1994. Durante il periodo del processo, molti coimputati dichiararono di volersi avvalere del diritto di non rispondere, anche se le loro  dichiarazioni furono versate nel fascicolo di causa. Altri imputati in processi connessi furono  interrogati in udienza, ed i verbali degli interrogatori furono parimenti acquisiti nel fascicolo di causa.

Con una sentenza del 6 dicembre 1994, il ricorrente fu condannato in contumacia alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione. Invano egli interpose appello a questa sentenza, contestando in particolare l’utilizzo dei verbali delle  dichiarazioni di testimoni che egli non aveva potuto interrogare. Peraltro, la Corte di cassazione rigettò il suo gravame con una sentenza del 12 novembre 1996, dopo aver rilevato che la sua  condanna non si fondava  esclusivamente sulle dichiarazioni di un coimputato, ma che queste erano corroborate dalle  affermazioni  di testimoni.

2. Procedura e composizione della Corte

Il ricorso è stato presentato alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo il 20 dicembre 1996 ed assegnato alla prima sezione della Corte il 1° novembre 1998. E’ stato dichiarato parzialmente ricevibile l’11 ottobre 2001.

La sentenza è stata emessa da una Camera  composta da 7  giudici.

3. Riassunto della  sentenza

Doglianze

Invocando  l’articolo 6 §§ 1, 2 e 3 b) e d) della Convenzione, il ricorrente denunciava il  carattere non equo  del procedimento penale contro di lui intentato. Egli sosteneva di non aver avuto il tempo e le facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa, e di non aver potuto interrogare o fare interrogare i testimoni a suo carico. Peraltro, egli  allegava che la campagna di stampa condotta nei suoi confronti aveva influenzato i giudici chiamati a pronunciarsi sulle accuse rivoltegli.

Decisione della Corte

Articolo 6 §§ 1 e  3 b)

La Corte ricorda  che il presente ricorso è stato dichiarato ricevibile unicamente quanto alla non equità  del procedimento Eni-sai, e che di conseguenza, la Corte si pronuncerà solo sulle difficoltà incontrate dal ricorrente nell’ambito di tale caso.

La Corte rileva a far data dal 18 ottobre 1994 e fino all’emanazione della sentenza di merito del 6 dicembre 1994, le udienze erano fissate secondo un calendario accettato dagli  avvocati del ricorrente. Quest’ultimo non potrebbe pertanto lamentarsi di uno svolgimento del processo per cui i suoi avvocati hanno prestato il loro consenso. Quanto al periodo anteriore al  18 ottobre 1994, la Corte constata che trentotto udienze si sono tenute relativamente al caso Eni-Sai, contemporaneamente o quasi ad altre numerose udienze riguardanti gli altri procedimenti per cui il ricorrente era inquisito.

La Corte rileva che il ricorrente, che non si è presentato alla prima udienza, ha volontariamente abbandonato l’Italia per la Tunisia, sottraendosi così alla giurisdizione di uno Stato che si conforma al principio della preminenza del diritto, e rinunciando volontariamente di comparire all’udienza. La difesa del ricorrente è stata allora garantita dagli avvocati, che sono stati indotti a partecipare in un breve lasso di tempo a numerose  udienze. Tuttavia, non risulta dal fascicolo di causa che la difesa che questi hanno garantito sia stata deficitaria o sprovvista di efficacia. Peraltro, gli avvocati del ricorrente non hanno  fornito alla Corte una spiegazione pertinente sulle ragioni per cui essi non avevano richiamato l’attenzione delle autorità nazionali prima del 9 novembre 1994 sulle difficoltà incontrate nella preparazione della difesa. D’altra  parte, per quel  che concerne il procedimento d’appello, gli avvocati del ricorrente non hanno  segnalato  alcuna ristrettezza importante delle date d’udienza suscettibile di inficiare i  diritti della difesa. Per conseguenza, la Corte conclude per  la non-violazione dell’articolo 6 su  questo capo di doglianza.

Articolo 6 §§ 1 e  3 d)

La Corte rileva d’acchito che le dichiarazioni di Pacini Battaglia, la cui lettura era stata fatta nel processo di primo grado perché questi era irreperibile, non hanno contribuito a fondare la condanna del ricorrente. L’impossibilità di convocarlo non ha inficiato il diritto del ricorrente d’interrogare o fare interrogare i testimoni a carico. Peraltro, il ricorrente non ha  dimostrato che la convocazione di questa persona fosse  necessaria alla ricerca della verità, e che il  rifiuto di interrogarlo ha inficiato i diritti della difesa. Di conseguenza la Corte non reputa necessario esaminare la  questione se questo testimone fosse veramente irreperibile.

D’altra parte, la Corte rileva che gli articoli 238, 512 e 513 del codice di procedura penale prevedevano la possibilità d’utilizzare per la fondatezza delle accuse le dichiarazioni rese prima del dibattimento dai coimputati che si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, o da persone decedute prima di testimoniare. Tuttavia, questa circostanza non  priva l’ imputato di fare esaminare in  contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico. Nel caso di specie, la Corte constata che risulta dalla sentenza del 12 novembre 1996 emessa dalla Corte di cassazione, che il ricorrente  è stato condannato esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese prima del processo dai coimputati che si sono rifiutati di testimoniare (signori Cusani, Molino e Ligresti) e da una persona deceduta in seguito (signor Cagliari). Il ricorrente o  i suoi  avvocati non hanno  avuto  alcuna possibilità d’interrogare questi testimoni, e non hanno potuto, di  conseguenza, contestare le dichiarazioni che hanno costituito  la base legale della condanna dell’interessato.

Su questo  punto, la Corte rileva che gli avvocati del ricorrente non hanno sollevato eccezioni davanti al Tribunale di Milano tendenti a contestare la legalità o l’opportunità di acquisire al fascicolo di causa le dichiarazioni controverse. Tuttavia, l’acquisizione al fascicolo di causa di queste dichiarazioni essendo stata fatta conformemente al diritto interno pertinente, quale in vigore all’epoca dei fatti, la Corte reputa che una eventuale opposizione del ricorrente avrebbe avuto scarsa possibilità di successo, e che non si potrebbe considerare la mancanza di opposizione come una rinuncia tacita del ricorrente a fare interrogare i testimoni a suo carico, tanto più che questo punto è stato sollevato dal ricorrente in appello ed in Cassazione. Pertanto, la Corte considera che vi è stata violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) e considera che non è necessario d’esaminare la questione se i signori Cagliari e Molino hanno subito delle pressioni da parte delle autorità, non avendo questi ultimi o i loro eredi denunciato questi comportamenti davanti agli organi della Convenzione.

Articolo 6

La Corte rileva che l’interesse dei  media e  dell’opinione pubblica per  il caso Eni-Sai,derivava dalla posizione  eminente rivestita dal ricorrente, dal contesto politico in  cui i fatti incriminati sono accaduti, così come dalla loro natura e gravità. Secondo la Corte, è inevitabile in  una società democratica che la stampa  esprima dei commenti a volte severi su di un caso sensibile come questo, che mette in discussione la moralità di alti funzionari ed il  rapporto tra il mondo della politica quello degli affari. Inoltre, la Corte rileva che gli organi giudiziari   che hanno dovuto trattare  il presente caso  erano composti esclusivamente da giudici  professionali, e che la condanna del ricorrente è stata  pronunciata all’esito  d’un procedimento in contraddittorio. Certamente, la Corte ha sopra constatato  una mancanza alle esigenze di un equo processo in questo caso, ma essa deriva dall’applicazione da parte dei giudici di  disposizioni legislative di carattere  generale, applicabili a tutte le persone soggette alla loro giurisdizione. Nulla lascia pensare nella fattispecie che i giudici sono stati influenzati dalle affermazioni contenute nella stampa.

Quanto all’argomentazione secondo cui il pubblico ministero avrebbe sistematicamente e volontariamente comunicato le informazioni riservate alla stampa, la Corte rileva che il ricorrente non ha prodotto alcun elemento suscettibile di accertare queste allegazioni. Peraltro, la Corte ha parimenti avuto riguardo alle altre circostanze allegate dal  ricorrente, quali la portata falsamente  eccezionale del procedimento in questione, il tempo trascorso dai fatti e la prospettiva di incorrere in pene severe, senza tuttavia  rilevare  alcuna apparenza di violazione dei diritti della difesa. Di  conseguenza, la Corte conclude per  la non-violazione dell’articolo 6 su questo capo di doglianza.