sentenza 27 marzo 2003

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo CASO  SCORDINO ed altri  contro ITALIA 
DECISIONE del 
27 marzo 2003 SULLA RICEVIBILITA’ del Ricorso n°  36813/97

   

Ammissibilità dell’ esame nel merito, della violazione allegata dal ricorrente circa il termine non ragionevole di durata di un processo civile (articolo 6 della Convenzione),    a seguito della legge italiana del 24 marzo 2001 n. 89, "legge Pinto", ancorché il ricorrente dopo aver ottenuto il relativo decreto dalla Corte d’appello italiana non lo abbia impugnato in Cassazione, ma  abbia adito direttamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Non è giustificato  il divario tra la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo e l’applicazione della Legge Pinto fatta dalla Cassazione italiana. I giudici italiani sono tenuti a conformarsi alla  giurisprudenza della Corte anche con riferimento all’ammontare dell’equa riparazione concessa.

La decisione così motiva

(traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Alessandra Mari)

PRIMA  SEZIONE

DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ

Del ricorso n° 36813/97
presentato da  
Giovanni Maria SCORDINO ed altri
contro l’Italia

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (prima sezione), riunitasi il 27 marzo 2003 dopo averla deliberata, ha reso la seguente decisione

ESTRATTO

OMISSIS……….

La Corte deve innanzitutto accertare se i ricorrenti abbiano esaurito, in conformità all’art.35 §1) della Convenzione, le vie interne di ricorso disponibili in base al diritto italiano. Si tratta in particolare di accertare se essi erano tenuti a ricorrere in cassazione contro la decisione resa dalla Corte d’Appello in materia di Legge Pinto.

La Corte ricorda che, per quanto riguarda i ricorsi davanti alle Corti d’Appello, in recenti decisioni (Brusco c. Italia, no 69789/01, 6.9.2001, in corso di pubblicazione in CEDH 2001; Di Cola c. Italia, no 44897/98, 11.10.2001), ha ritenuto che il rimedio introdotto dalla Legge Pinto deve essere considerato accessibile e che nulla permette di dubitare della sua efficacia. Inoltre, la Corte ha ritenuto che in considerazione della natura della Legge Pinto e del contesto nel quale è intervenuta, era giustificato derogare al principio generale secondo il quale la sussistenza del requisito dell’esaurimento deve essere accertata al momento della proposizione del ricorso.

La Corte ricorda che la regola dell’esaurimento delle vie interne di ricorso enunciata dall’art.35 della Convenzione impone a coloro che intendono proporre un ricorso contro uno Stato davanti ad un organo giudiziario o arbitrale internazionale l’obbligo di esperire preventivamente i ricorsi offerti dal sistema giuridico di tale Stato. Questa regola si basa sull’assunto - che costituisce l’oggetto dell’art.13 della Convenzione, con il quale presenta una stretta affinità - che il sistema interno offra un ricorso effettivo per la violazione dedotta, indipendentemente dalla incorporazione o meno delle disposizioni della Convenzione nel sistema giuridico nazionale. In particolare, essa costituisce un aspetto importante del principio in base al quale il meccanismo di salvaguardia istituito dalla Convenzione riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti dell’uomo (sentenza Akdivar ed altri c. Turchia,Recueil 1996-IV, p. 1210, 65).

Anche se gli Stati contraenti non hanno l’obbligazione formale di incorporare la Convenzione nel sistema giuridico interno (sentenza James ed altri c. Regno Unito del 21 febbraio 1986, serie A no 98, p. 48, § 86; Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], no28957/95, CEDH 2002, § 113), dal suddetto principio di sussidiarietà discende che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione. Infatti, se è vero che spetta innanzitutto alle autorità nazionali interpretare ed applicare il diritto interno, la Corte è comunque chiamata a verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione (Carbonara e Ventura c. Italia, no24638/94, CEDH 2000-VI, § 68; Streletz, Kessler e Krenz c. Germania, [GC], no34044/96, 35532/97, 44801/98, § 49, CEDH 2001-II), della quale la giurisprudenza della Corte costituisce parte integrante.

A questo riguardo, la Corte ricorda infine che, nel sostituire la parola “riconoscono” (“reconnaissant”) alle parole “si impegnano a riconoscere” (“s’engagent à reconnaître”) nel testo dell’art.1, i redattori della Convenzione hanno inoltre voluto evidenziare che i diritti e le libertà del Titolo I sono direttamente riconosciuti a chiunque dipendesse dalla giurisdizione degli Stati contraenti (documento H (61) 4, pp. 664-703, 733 e 927). Tale loro intenzione si riflette con particolare fedeltà là dove la Convenzione è stata incorporata nell’ordine giuridico interno (sentenza De Wilde, Ooms e Versyp del 18 giugno 1971, serie A no 12, p. 43, § 82; sentenza Sindacato svedese dei macchinisti di locomotive del 6 febbraio 1976, serie A, no 20, p. 18, § 50; sentenza Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978 serie A, no 25, § 239). Nondimeno la Convenzione, che vive attraverso la giurisprudenza della Corte, ha ormai applicabilità diretta praticamente in tutti gli Stati contraenti.

Nel quadro dell’art.35, un  ricorrente deve avvalersi dei ricorsi che sono normalmente disponibili e sufficienti per permettergli di ottenere la riparazione delle violazioni che deduce. Questi ricorsi debbono esistere con un grado sufficienza di certezza, sia in pratica che in teoria, ed essere dotati della effettività ed accessibilità richieste. Tuttavia, nulla obbliga a fare uso di ricorsi che non siano né adeguati né effettivi. Inoltre, secondo i “principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”, alcune circostanze particolari possono esonerare il ricorrente dall’obbligazione di esaurire i rimedi interni disponibili. Questa regola neanch'essa trova applicazione quando è provata una prassi amministrativa consistente nella ripetizione di atti vietati dalla Convenzione e nella tolleranza ufficiale dello Stato, di modo che tutte le procedure risultino inutili o inefficaci (sentenza già citata Akdivar ed altri, p. 1210, §§ 66 e 67).

La Corte sottolinea che essa deve applicare questa regola tenendo in debito conto il contesto: il meccanismo di salvaguardia dei diritti dell’uomo che le Parti contraenti hanno convenuto di istituire. La Corte ha anche riconosciuto che l’art.35 deve applicarsi con una certa elasticità e senza formalismi eccessivi. Ha altresì ammesso che la regola dell’esaurimento dei rimedi interni non si presta ad una applicazione automatica e non ha un carattere assoluto; e che al fine di accertarne il rispetto, la Corte deve avere riguardo alle circostanze del caso. Questo significa, in particolare, che la Corte deve tenere conto in modo realistico non soltanto dei ricorsi previsti in teoria dal sistema giuridico della Parte contraente interessata, ma anche del contesto giuridico e politico nel quale essi vanno ad operare e della situazione personale del ricorrente (sentenza già citata Akdivar ed altri, p. 1211, par. 69).

La Corte ha effettuato un esame comparativo delle cento sentenze della Corte di Cassazione ad oggi disponibili. Ha potuto constatare che i principi stabiliti nelle due sentenze citate dai ricorrenti (vedere nella parte relativa al diritto interno rilevante) sono stati costantemente applicati, precisamente: mancato riconoscimento, al diritto ad un processo in tempi ragionevoli, dello status di diritto fondamentale (dell’uomo n.d.t.); negazione della applicabilità diretta della Convenzione e della giurisprudenza di Strasburgo in materia di equa soddisfazione.

La Corte non ha rinvenuto alcun caso in cui la Corte di Cassazione abbia preso in considerazione una doglianza relativa all’insufficienza delle somme accordate dalla Corte d’Appello rispetto al pregiudizio allegato o alla loro inadeguatezza rispetto alla giurisprudenza di Strasburgo. Si tratta effettivamente di censure che vengono rigettate dalla Corte di Cassazione perché considerate o come questioni di fatto, non rientranti nella sua competenza, o come questioni sollevate alla luce di disposizioni non applicabili direttamente.

La Corte ricorda che l’art.6 §1) garantisce a chiunque il diritto a che un giudice conosca di tutte le contestazioni relative ai suoi diritti ed obbligazioni di carattere civile (Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975, serie A, no 18, p. 18, § 36 e Waite e Kennedy c. Germania [GC], no 6083/94, CEDH 1999-I, § 50). Esso consacra, quindi, il diritto di chiunque “a che la sua causa sia esaminata … entro un termine ragionevole”.

Il diritto ad un «termine ragionevole», riconosciuto dall’art.6 §1) della Convenzione, è un diritto fondamentale ed un imperativo per tutte le procedure contemplate dall’art.6: la Convenzione sottolinea con ciò l’importanza che attribuisce al principio secondo cui la giustizia non deve essere resa con ritardi atti a comprometterne l’efficacia e la credibilità (Pelissier e Sassi c. Francia, [GC], no 25444/94, CEDH 1999-II, § 74).

Tenuto conto di questi elementi, la Corte conclude che i ricorrenti non avevano alcun interesse a ricorrere in cassazione, atteso che la doglianza relativa all’ammontare dell’equa soddisfazione ricade nei casi sopra menzionati. Inoltre, i ricorrenti correvano il rischio di essere condannati alle spese di giudizio.

In conclusione, la Corte ritiene che, nella fattispecie, i ricorrenti non erano obbligati, al fine di esaurire i rimedi interni, a ricorrere in cassazione. Di conseguenza, la prima eccezione del Governo deve essere rigettata.

Questa conclusione, tuttavia, non rimette affatto in discussione l’obbligo di proporre la domanda di equa riparazione ai sensi della Legge Pinto davanti alle Corti d’Appello e alla Corte di Cassazione, nel caso in cui i giudici nazionali dimostrino, attraverso la loro giurisprudenza, di applicare la suddetta Legge in conformità allo spirito della Convenzione, e, di conseguenza, che il rimedio è efficace.

La Corte deve quindi esaminare la seconda eccezione del Governo, che è basata sull’art.34 della Convenzione. L’accertamento se una persona può tuttora considerarsi vittima di una violazione della Convenzione implica necessariamente che la Corte esamini ex post facto la situazione della persona interessata. A questo riguardo, riveste importanza accertare se tale persona abbia ottenuto, a titolo di risarcimento del danno, una riparazione comparabile all’equa soddisfazione di cui parla l’art.41 della Convenzione. Dalla giurisprudenza costante della Corte deriva che qualora le autorità nazionali abbiano accertato una violazione e la loro decisione costituisca una riparazione appropriata e sufficiente di tale violazione, la parte interessata non può più considerarsi vittima nei termini di cui all’art.34 della Convenzione.

La Corte considera inoltre che lo status di vittima del ricorrente può dipendere sia dal risarcimento che gli sia stato accordato a livello nazionale per la situazione della quale si lamenta davanti alla Corte (Andersen c. Danimarca, ricorso no 12860/87 e Frederiksen ed altri c. Danimarca, ricorso no 12719/87, decisioni della Commissione del 3 maggio 1988; Normann c. Danimarca, ricorso no 44704/98, decisione 14.06.2001; Jensen e Rasmussen c. Danimarca, ricorso no 52620/99, decisione 20.03.2003) sia dal fatto che le autorità nazionali abbiano riconosciuto, esplicitamente o nella sostanza, la violazione della Convenzione. Quindi, solo nel caso in cui queste due condizioni siano soddisfatte, la natura sussidiaria del meccanismo di protezione della Convenzione impedisce l’esame da parte della Corte (Eckle c. Germania, sentenza del 15 luglio 1982, serie A no 51, p. 32, §§ 69 ss.; Jensen c. Danimarca (decisione), no48470/99, 20 settembre 2001).

Inoltre, la Corte ricorda che l’art.34 della Convenzione esige che il ricorrente sia personalmente inciso dalla misura di cui si lamenta e che tale disposizione non può essere utilizzata per introdurre una sorta di actio popularis davanti alla Corte. Peraltro, le condizioni per presentare un ricorso ai sensi dell’art.34 non sono necessariamente le stesse che regolano il locus standi a livello nazionale (Scozzari e Giunta c. Italia [GC], no 39221/98 e no 41963/98, § 138, CEDH 2000-VIII).

Nella specie, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha riconosciuto, con la sua decisione dell’1 luglio 2002, che la procedura instaurata dai ricorrenti aveva avuto una durata eccessiva ed ha loro accordato, complessivamente, la somma di Euro 2.450 a titolo di danno morale, e pertanto circa Euro 600 ciascuno.

Ad avviso della Corte, il riconoscimento, da parte della Corte d’Appello, dalla eccessiva durata della procedura soddisfa, in sostanza, la prima delle condizioni enunciate dalla giurisprudenza della Corte: il riconoscimento, da parte delle autorità, della lesione di un diritto tutelato dalla Convenzione.

Per quanto concerne la seconda condizione, cioè, la riparazione appropriata da parte delle autorità della violazione subita dai ricorrenti, la Corte rileva che essi hanno lamentato, davanti alla Corte medesima, che la somma accordata dalla Corte d’Appello non può essere considerata adeguata per riparare il pregiudizio e la violazione dagli stessi dedotta.

La Corte ricorda che, in relazione ai casi italiani di eccessiva durata dei giudizi, un’ampia giurisprudenza ritiene che la riparazione appropriata per questo genere di casi consista sempre nella compensazione pecuniaria. In questo contesto, in casi simili a quello in esame – ad esempio De Pilla c. Italia, no 49372/99, sentenza del 25 ottobre 2001; Tartaglia c. Italia, no 48402/99, sentenza del 23 ottobre 2001 – la Corte ha riconosciuto somme nettamente più elevate. Nei due casi succitati, infatti, la Corte ha riconosciuto, rispettivamente, Lit.10.000.000 (circa Euro 5.000) e Lit.14.000.000 (circa Euro 7.000).

E’ incontestabile che l’apprezzamento circa la durata della procedura e le sue ripercussioni, in particolare per quanto riguarda il danno morale, non si presta ad una quantificazione esatta e che esso, per sua natura, è un apprezzamento equitativo. Di conseguenza, la Corte riconosce che le autorità giudiziarie o di altro tipo possano calcolare il risarcimento, in un caso di eccessiva durata della procedura, in modo tale da distaccarsi da una applicazione stretta e formalistica dei criteri adottati dalla Corte. Tuttavia, nel presente caso, la somma accordata ai ricorrenti dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria non presenta un rapporto ragionevole con la somma accordata dalla Corte negli analoghi casi sopra citati – somma che è dieci volte superiore a quella accordata ai ricorrenti dalla Corte d’Appello.

Pur nel rispetto del margine di discrezionalità di cui dispongono i giudici nazionali, essi si debbono conformare alla giurisprudenza della Corte anche concedendo un risarcimento consequenziale.

Tenuto conto degli elementi che emergono dal fascicolo, la Corte ritiene che un tale divario tra la giurisprudenza di Strasburgo da una parte e l’applicazione nel caso di specie della Legge Pinto dall’altra non sia giustificato. Pertanto, ritiene che la somma accordata ai ricorrenti non possa considerarsi adeguata e idonea a riparare la violazione dedotta.

Ne consegue che i ricorrenti possono considerarsi vittime ai sensi dell’art.34 della Convenzione e che la seconda eccezione del Governo deve essere rigettata.

OMISSIS……….

TESTO INTEGRALE

DELLA DECISIONE DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITI DELL’UOMO

PREMIÈRE SECTION

DÉCISION

SUR LA RECEVABILITÉ

de la requête no 36813/97
présentée par Giovanni Maria SCORDINO et autres
contre l’Italie

La Cour européenne des Droits de l’Homme (première section), siégeant le 27 mars 2003 en une chambre composée de :

          MM.  C.L. Rozakisprésident,
                   G. 
Bonello,
                   P. 
Lorenzen,
          Mmes  N. 
Vajić,
                   S. 
Botoucharova,
                   E. 
Steinerjuges,
                   M. 
del Tufo, juge ad hoc,
et de M. 
S. Nielsen,
 greffier adjoint de section,

Vu la requête susmentionnée introduite devant la Commission européenne des Droits de l’Homme le 21 juillet 1993,

Vu l’article 5 § 2 du Protocole no 11 à la Convention, qui a transféré à la Cour la compétence pour examiner la requête,

Vu les observations soumises par le gouvernement défendeur et celles présentées en réponse par les requérants,

Vu les observations présentées oralement par les parties à l’audience du 27 mars 2003,

Après en avoir délibéré, rend la décision suivante :


 

EN FAIT

Les requérants sont quatre ressortissants italiens, Giovanni, Elena, Maria et Giuliana Scordino, nés en 1959, 1949, 1951 et 1953 respectivement et résidant à Reggio de Calabre. D’abord désignés par les initiales G.S. et autres, les intéressés ont ensuite consenti à la divulgation de leur identité. Ils sont représentés devant la Cour par Me N. Paoletti, avocat à Rome.

A l’audience du 27 mars 2003, les requérants étaient en outre représentés par Me A. Mari, conseil. Le gouvernement défendeur était représenté par M. F. Crisafulli, co-agent adjoint.

A.  Les circonstances de l’espèce

Les faits de la cause, tels qu’ils ont été exposés par les parties, peuvent se résumer comme suit.

 

a) L’expropriation du terrain

 

En 1992, les requérants ont hérité de A. Scordino des terrains situés à Reggio de Calabre, enregistrés au cadastre, feuille 111, parcelles 105, 107, 109 et 662.

Le 25 mars 1970, la municipalité de Reggio de Calabre adopta un plan général d’urbanisme qui fut approuvé  par la Région Calabre en date du 17 mars 1975.

Le terrain objet de la présente requête, de 1 784 mètres carrés et figurant à la parcelle 109, était classé comme terrain constructible et soumis par le plan d’urbanisme à un permis d’exproprier en vue de construire des habitations.

En 1980, la municipalité de Reggio de Calabre décida que la société coopérative Edilizia Aquila procéderait aux travaux de construction sur ledit terrain. Par un arrêté du 13 mars 1981, l’administration autorisa la coopérative à occuper le terrain.

Le 30 mars 1982, en application de la loi no 385 de 1980, la municipalité de Reggio de Calabre procéda à une offre d’acompte sur l’indemnité d’expropriation déterminée au sens de la loi no 865 de 1971. La somme offerte, à savoir 606 560 lires italiennes (ITL) était calculée comme s’il s’agissait d’un terrain agricole, valant 340 ITL/m², sous réserve de fixer l’indemnisation définitive une fois adoptée une loi établissant de nouveaux critères d’indemnisation pour les terrains constructibles.

L’offre ne fut pas acceptée par A. Scordino.

Le 21 mars 1983, la Région décréta l’expropriation du terrain.

Le 13 juin 1983, la municipalité procéda à une deuxième offre d’acompte pour une somme de 785 000 ITL. Cette offre ne fut pas acceptée.

Par l’arrêt no 223 de 1983, la Cour constitutionnelle déclara inconstitutionnelle la loi no 385 de 1980, au motif que celle-ci soumettait l’indemnisation à l’adoption d’une loi future.

Par effet de cet arrêt, la loi no 2359 de 1865, prévoyant que l’indemnité d’expropriation d’un terrain correspondait à la valeur marchande de celui-ci, fut à nouveau en vigueur.

Le 10 août 1984, A. Scordino intima à la municipalité de fixer l’indemnité définitive au sens de la loi no 2359 de 1865. Le 16 novembre 1989, il apprit que, par un décret du 6 octobre 1989, la municipalité de Reggio de Calabre avait fixé l’indemnité définitive à 88 414 940 ITL (50 000 ITL/m²).

 

b) La procédure engagée afin d’obtenir l’indemnité d’expropriation

 

Contestant cette indemnité, l’exproprié assigna, le 25 mai 1990, la municipalité et la société coopérative devant la cour d’appel de Reggio de Calabre.

Il alléguait que l’indemnité fixée par la municipalité était ridicule par rapport à la valeur vénale du terrain et demandait notamment que l’indemnité soit calculée au sens de la loi no 2359 de 1865. En outre, il réclamait une indemnité pour la période d’occupation du terrain précédant le décret d’expropriation et une indemnité pour le terrain (1500 mètres carrés) devenu inutilisable à la suite des travaux de construction.

La mise en état de l’affaire commença le 7 janvier 1991.

La coopérative se constitua et excipa de l’absence de locus standi.

Le 4 février 1991, la municipalité ne s’étant toujours pas constituée, la cour d’appel de Reggio de Calabre déclara celle-ci contumace et ordonna une expertise du terrain. Par une ordonnance du 13 février 1991, un expert fut nommé et un délai de trois mois lui fut fixé pour le dépôt de l’expertise.

Le 6 mai 1991, la municipalité se constitua dans la procédure et excipa de l’absence delocus standi. L’expert accepta son mandat et prêta serment.

Le 4 décembre 1991, un rapport d’expertise fut déposé.

Le 8 août 1992 entra en vigueur la loi no 359 de 1992, prévoyant à son article 5bis de nouveaux critères pour calculer l’indemnité d’expropriation des terrains constructibles. Cette loi était expressément applicable aux procédures en cours.

A la suite du décès de A. Scordino, survenu le 30 novembre 1992, les requérants se constituèrent dans la procédure le 18 septembre 1993.

Le 4 octobre 1993, la cour d’appel de Reggio de Calabre nomma un nouvel expert et lui demanda de déterminer l’indemnité d’expropriation selon les critères introduits par l’article 5bis de la loi no 359 de 1992.

L’expertise fut déposée en date du 24 mars 1994. Selon l’expert, la valeur vénale du terrain à la date de l’expropriation était de 165 755 ITL par mètre carré. Conformément aux critères introduits par l’article 5bis de la loi no 359 de 1992, l’indemnité à verser était de 82 890 ITL au mètre carré.

A l’audience du 11 avril 1994, les parties demandèrent un délai pour présenter des commentaires sur l’expertise. L’avocat des requérants déposa une expertise et fit remarquer que l’expert désigné par la cour avait omis de calculer l’indemnité pour les 1 500 mètres carrés non couverts par le décret d’expropriation mais qui étaient devenus inutilisables à la suite des travaux effectués.

L’audience pour la présentation des observations en réponse eut lieu le 6 juin 1994. L’audience suivante, fixée au 4 juillet 1994, fut reportée d’office au 3 octobre 1994, puis au 10 novembre 1994.

Par une ordonnance du 29 décembre 1994, la cour ordonna un complément d’expertise et ajourna l’affaire au 6 mars 1995. Toutefois, l’audience fut reportée d’office à plusieurs reprises, pour indisponibilité du juge d’instruction. A la demande des requérants, ce dernier fut remplacé le 29 février 1996 et l’audience de présentation des conclusions eut lieu le 20 mars 1996.

Par un jugement du 17 juillet 1996, la cour d’appel de Reggio de Calabre déclara que les requérants avaient droit à une indemnité d’expropriation au sens de l’article 5bis de la loi no 359 de 1992, tant pour le terrain formellement exproprié que pour celui devenu inutilisable à la suite des travaux de construction. La cour estima ensuite que, sur l’indemnité ainsi déterminée, il n’y avait pas lieu d’appliquer l’abattement ultérieur de 40% prévu par la loi pour les cas où l’exproprié n’aurait pas conclu un accord de cession du terrain («cessione volontaria »), étant donné qu’en l’espèce, au moment de l’entrée en vigueur de la loi, l’expropriation avait déjà eu lieu.

En conclusion, la cour d’appel ordonna à la municipalité et à la coopérative de verser aux requérants :

-  une indemnité d’expropriation de 148 041 540 ITL (82 890 lires/m² pour 1 786 m²) ;

-  une indemnité de 91 774 043 ITL (75 012,50 lires/m² pour 1223,45 m²) pour la partie de terrain devenue inutilisable et qui était à considérer de facto expropriée ;

-  une indemnité pour la période d’occupation du terrain ayant précédé l’expropriation.

Ces sommes devaient être indexées et assorties d’intérêts jusqu’au jour du paiement.

Le 20 décembre 1996, la coopérative se pourvut en cassation, faisant valoir qu’elle n’avait pas de locus standi. Les 20 et 31 janvier 1997, les requérants et la municipalité déposèrent leurs recours.

Le 30 juin 1997, la coopérative demanda la suspension de l’exécution du jugement de la cour d’appel. Cette demande fut rejetée le 8 août 1997.

Par un arrêt du 3 août 1998, déposé au greffe le 7 décembre 1998, la Cour de cassation accueillit le recours de la coopérative et reconnut qu’elle n’avait pas de locus standi, puisqu’elle n’était pas formellement partie à l’expropriation bien qu’elle en bénéficiât. Pour le reste, elle confirma l’arrêt de la cour d’appel de Reggio de Calabre.

La date à laquelle les requérants ont effectivement perçu l’indemnité accordée n’est pas connue.

Conformément à la loi no 413 de 1991, l’indemnité litigieuse a été payée après déduction d’un impôt à la source de 20 %.

 

c) Le recours Pinto

 

Le 18 avril 2001, les requérants déposèrent près la cour d’appel de Reggio de Calabre une demande en réparation pour la durée de la procédure, au sens de la loi Pinto.

Les requérants sollicitaient la réparation du dommage moral et du dommage matériel.

Par une décision du 1er juillet 2001, la cour d’appel de Reggio de Calabre accorda aux requérants une somme globale de 2 450 euros au titre du dommage moral uniquement et déclara les frais de procédure compensés.

Par une lettre du 4 décembre 2002, les requérants ont fait savoir qu’ils n’entendaient pas se pourvoir en cassation, étant donné la jurisprudence de la Cour de cassation en la matière. En annexe à leur lettre, les requérants ont fait parvenir les deux arrêts de la Cour de cassation résumés dans la partie « droit interne pertinent ».

B.  Le droit et la pratique internes pertinents

I. Quant au grief tiré de la durée de la procédure

 

L’article 111 de la Constitution italienne, dans ses parties pertinentes, se lit ainsi :

«1.  La juridiction est exercée par le biais d’un procès équitable, régi par la loi.

2.  Chaque procès se déroule dans le respect des principes du contradictoire et de l’égalité des armes devant un juge tiers et impartial. La loi en garantit la durée raisonnable. »

La loi Pinto (loi no 89 de 2001), dans ses parties pertinentes, se lit comme suit.

Article 2 (Droit à une satisfaction équitable)

« Toute personne ayant subi un préjudice patrimonial ou non patrimonial suite à la violation de la Convention de sauvegarde des Droits de l’Homme et des Libertés fondamentales, ratifiée par la loi 4 août 1955, no 848, en matière de «délai raisonnable » conformément à l’article 6 § 1 de la Convention, a droit à une satisfaction équitable.

En constatant la violation, le juge prend en compte la complexité de l’affaire et, eu égard à celle-ci, le comportement des parties et du juge chargé de la procédure, ainsi que le comportement de toute autorité appelée à participer ou à contribuer à son règlement.

Le juge détermine le montant du préjudice conformément à l’article 2056 du code civil, en respectant les dispositions suivantes :

seul le préjudice qui peut se rapporter à la période excédant le délai raisonnable indiqué à l’alinéa 1 peut être pris en compte ;

le préjudice non patrimonial est réparé non seulement par le paiement d’une somme d’argent, mais aussi par le biais de formes adéquates de publicité du constat de violation. »

Article 3 (Procédure)

(...o)

La demande est introduite par un recours déposé au greffe de la cour d’appel, par un avocat ayant un mandat spécifique et contenant tous les éléments prévus par l’article 125 du code de procédure civile.

La cour prononce, dans les quatre mois suivant le dépôt du recours, une décision contre laquelle il est possible de se pourvoir en cassation. La décision est immédiatement exécutoire... »

La Cour de cassation italienne est une juridiction compétente uniquement pour les questions de droit. En matière civile, l’article 360 du code de procédure civile prévoit les cas où un pourvoi est possible.

En matière de loi Pinto, la Cour de cassation a prononcé et publié à ce jour une centaine d’arrêts, dont copie a été remise au Greffe de la Cour.

Dans l’affaire «Adamo et autres c. Ministère de la Justice » (arrêt du 10 juin 2002), les requérants avaient demandé à la cour d’appel de Rome une réparation au sens de la loi Pinto pour la durée excessive d’une procédure (contentieux du travail). La cour d’appel de Rome avait rejeté la demande au motif que les requérants n’avaient pas prouvé avoir subi de préjudice. Devant la Cour de cassation, les requérants ont fait valoir qu’ils avaient droit à la réparation du préjudice moral, à la lumière de la jurisprudence de Strasbourg.

La Cour de cassation a affirmé que le constat de violation du droit au respect du délai raisonnable du procès n’entraîne pas la reconnaissance automatique de l’existence d’un préjudice subi par le requérant, c’est-à-dire que le préjudice n’est pas in re ipsa. A cet égard, la Cour de cassation a affirmé que le droit au «délai raisonnable » n’est pas un droit fondamental de la personne garanti par une disposition constitutionnelle immédiatement applicable ; il s’agit au contraire d’un droit uniquement prévu dans une loi ordinaire (la loi Pinto). Ce droit ne peut même pas être rattaché au «droit à un procès équitable » qui, lui, est garanti par la Constitution mais qui ne donne pas lieu à des garanties individuelles étant donné qu’il s’agit d’une disposition de programme. Par conséquent, lorsque le juge constate la durée excessive d’une procédure, il pourra indemniser un préjudice uniquement si l’existence de celui-ci est prouvée. Par conséquent, la Cour de cassation a rejeté le recours puisqu’il n’y avait pas la preuve du préjudice moral subi.

Dans l’affaire «ministère de la Justice c. Maccarone » (arrêt du 10 juin 2002), le requérant avait obtenu huit millions de lires (4132 euros) de la cour d’appel de Perugia. Le Ministère avait attaqué la décision, faisant valoir notamment que, le préjudice moral n’étant pas in re ipsa, lorsque le juge a constaté la durée excessive d’une procédure, il doit ensuite évaluer les preuves du préjudice allégué.

La Cour de cassation a accueilli le recours et annulé la décision attaquée avec renvoi à la cour d’appel. Ce faisant, la Cour a réaffirmé que la violation du droit au respect du délai raisonnable ne constitue pas en soi une source de préjudice et qu’il faut donc rechercher si ce dernier a été subi par le requérant. En effet, selon la Cour de cassation, le droit au délai raisonnable n’est pas un droit fondamental étant donné qu’il est prévu uniquement par la loi ordinaire. Partant les préjudices, y inclus le préjudice moral, doivent être prouvés par l’intéressé. Cette preuve peut en pratique être recherchée par le biais d’un raisonnement par induction et par présomption, s’appuyant sur la connaissance des répercussions qu’une durée de procédure a sur l’individu.

Un examen comparatif des arrêts de la Cour de cassation disponibles à ce jour permet de voir que les principes établis dans les deux affaires précitées ont été constamment appliqués.

Dans aucun des cas la Cour de cassation n’a pris en considération un grief tiré de ce que le montant accordé par la cour d’appel était insuffisant par rapport au préjudice allégué ou inadéquat par rapport à la jurisprudence de Strasbourg. En effet, il s’agit de griefs considérés par la Cour de cassation soit comme des questions de fait, échappant à sa compétence, soit de questions soulevées à la lumière de dispositions non applicables directement.

 

II. Quant à l’expropriation

 

La loi no 2359 de 1865, à son article 39, prévoyait qu’en cas d’expropriation d’un terrain, l’indemnité à verser devait correspondre à la valeur marchande du terrain au moment de l’expropriation.

L’article 42 de la Constitution, tel qu’interprété par la Cour constitutionnelle (voir parmi d’autres l’arrêt no 138 du 6 décembre 1977), garantit, en cas d’expropriation, une indemnisation qui n’atteint pas la valeur marchande du terrain.

La loi no 865 de 1971 a introduit de nouveaux critères : tout type de terrain, agricole ou constructible, devait être indemnisé comme s’il s’agissait d’un terrain agricole.

Par l’arrêt no 5 de 1980, la Cour constitutionnelle a déclaré inconstitutionnelle la loi no865 de 1971, au motif que celle-ci traitait de manière identique deux situations très différentes, à savoir qu’elle prévoyait le même type d’indemnisation pour terrains constructibles et terrains agricoles.

Pour pallier cette situation, le Parlement a adopté la loi no 385 du 29 juillet 1980, qui réintroduisait les critères à peine déclarés inconstitutionnels mais cette fois à titre provisoire : la loi disposait en effet que la somme versée était un acompte devant être complété par une indemnité, qui serait calculée sur la base d’une loi à adopter et prévoyant des critères d’indemnisation spécifiques pour les terrains constructibles.

Par l’arrêt no 223 de 1983, la Cour constitutionnelle a déclaré inconstitutionnelle la loi no 385 de 1980, au motif que celle-ci soumettait l’indemnisation en cas d’expropriation d’un terrain constructible à l’adoption d’une loi future.

Par l’effet de l’arrêt no 223 de 1983, la loi no 2359 de 1865 a été à nouveau en vigueur ; par conséquent, un terrain constructible devait être indemnisé à concurrence de sa valeur marchande (voir par ex. Cour de cassation, sec I, arrêt no 13479 du 13 décembre 1991 ; sec. I, arrêt no 2180 du 22 février 1992).

Le décret-loi no 333 du 11 juillet 1992, converti en loi no 359 du 8 août 1992, a introduit, à son article 5bis, une mesure «provisoire, exceptionnelle et urgente», tendant au redressement des finances publiques, valable jusqu’à ce que des mesures structurelles soient adoptées.

L’article 5bis dispose que l’indemnité à verser en cas d’expropriation d’un terrain constructible correspond à environ 50 % de la valeur marchande, qui est calculée selon la formule suivante :

Valeur marchande du terrain + (rente foncière annuelle x 10 dernières années) : 2 –  abattement de 40%.

Dans ce cas, l’indemnité correspond à 30% de la valeur marchande. Sur ce montant, un impôt de 20% à la source est appliqué (impôt prévu par l’article 11 de la loi no 413 de 1991)

L’abattement de 40% est évitable si, au lieu d’un décret d ‘expropriation, l’expropriation a lieu par acte de « cession volontaire » du terrain, ou bien, comme en l’espèce, lorsque l’expropriation a eu lieu avant l’entrée en vigueur de l’article 5bis (voir l’arrêt de la Cour constitutionnelle no 283 du 16 juin 1993 ).

Dans ce cas, l’indemnité qui en résulte correspond à 50% de la valeur vénale. De ce montant il faudra encore déduire à 20% à titre d’impôt (voir supra).

La Cour constitutionnelle a estimé que l’article 5bis de la loi no 359 de 1992 et son application rétroactive est compatible avec la Constitution (arrêt no 283 du 16 juin 1993 ; arrêt no 442 du 16 décembre 1993), dans la mesure où cette loi a un caractère urgent et provisoire.

GRIEFS

1. Invoquant l’article 6 § 1 de la Convention, les requérants se plaignent de la durée de la procédure.

2. Les requérants se plaignent d’une atteinte à leur droit au respect de leurs biens au motif que l’indemnité leur a été versée longtemps après la privation du terrain et qu’elle n’est pas adéquate, étant donné qu’elle a été calculée sur la base de l’article 5bis de la loi no 359 de 1992. Ils allèguent la violation de l’article 1 du Protocole no 1.

3. Invoquant l’article 6 § 1 de la Convention, les requérants se plaignent que l’adoption et l’application à leur cas de l’article 5bis de la loi no 359 de 1992 constitue une interférence législative incompatible avec leur droit à un procès équitable.

EN DROIT

1. Les requérant se plaignent de la durée de la procédure. Ils invoquent l’article 6 § 1 de la Convention, qui, en ses parties pertinentes, se lit ainsi :

« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue (...) dans un délai raisonnable, par un tribunal (...), qui décidera (...) des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil (...) »

Les exceptions du Gouvernement

 

Le Gouvernement soulève deux exceptions.

En premier lieu, le Gouvernement soutient que les voies de recours internes n’ont pas été épuisées au motif que les requérants ne se sont pas pourvus en cassation contre la décision de la cour d’appel de Reggio de Calabre.

Le Gouvernement plaide en faveur de l’efficacité du recours en cassation et ceci pour plusieurs raisons. Tout d’abord, le Gouvernement fait observer que la compétence de la Cour de cassation en matière de recours Pinto est la même que dans tous les autres cas de recours ordinaires introduits devant elle, au sens de l’article 360 du code de procédure civile. S’il est donc vrai que le montant d’une indemnité en tant que tel ne peut pas faire l’objet d’un recours en cassation, les requérants auraient néanmoins pu alléguer devant la Cour de cassation que la décision de la cour d’appel n’était pas logique ou motivée de façon cohérente ou ils auraient pu contester le montant de la réparation accordée en première instance sous l’angle de la conformité à la loi des critères utilisés. Le Gouvernement indique ensuite que la Cour de cassation a le pouvoir d’annuler une décision et de remettre l’affaire à un nouveau juge de fond.

Le Gouvernement soutient que les requérants ont contesté l’efficacité du remède sans fournir de démonstration et qu’ils basent leurs allégations seulement sur deux arrêts de la Cour de cassation.

A ce propos, le Gouvernement fait observer que la jurisprudence de la Cour de cassation en la matière est assez vaste mais pas encore définitivement fixée, à défaut d’un arrêt en chambres réunies.

Quant à l’application par la Cour de cassation des critères de la jurisprudence de Strasbourg, le Gouvernement considère qu’il s’agit là d’un faux problème puisqu’il s’agit de « prétendus critères ». A ce propos, le Gouvernement indique que la jurisprudence de Strasbourg n’indique pas de « critères » pour le calcul de la satisfaction équitable, étant donné que l’on peut parler de « critère » seulement en présence d’une base de calcul pouvant se traduire en une formule mathématique et qui soit exprimée et clairement identifiable. En outre, le Gouvernement observe que la satisfaction équitable accordée par la Cour a un caractère facultatif, puisque celle-ci peut ne pas être accordée lorsque le constat de violation est considéré comme suffisant, et que la décision concernant la satisfaction équitable est prise « en équité » et n’a pas de motivation approfondie.

En conclusion, le Gouvernement soutient qu’il n’y a pas lieu de se plaindre du non-respect des «critères » qui, d’une part, n’existent pas, et, d’autre part, ne sauraient exister car la nature même de l’appréciation à laquelle ils devraient servir de base ne se prête point à leur établissement.

En outre, le Gouvernement soutient que la question de savoir quelle place est reconnue à la Convention dans l’ordre juridique italien n’est pas pertinente. A ce propos, le Gouvernement observe qu’une voie de recours interne est efficace si en substance les violations alléguées par l’intéressé peuvent être redressées. Il n’est pas nécessaire qu’il soit formellement fait application des normes de la Convention et de la jurisprudence de Strasbourg.

Quant à la question du quantum, le Gouvernement soutient que la Cour de cassation aurait pu juger si le montant de la réparation obtenue par les requérants était ou non adéquat. Sur ce point, le Gouvernement fait observer que les deux arrêts de la Cour de cassation cités par les requérants sont conformes à l’orientation jurisprudentielle désormais consolidée, selon laquelle l’existence d’un préjudice moral n’est pas automatiquement reconnue à la suite du constat de dépassement du délai raisonnable. Le Gouvernement admet que la possibilité d’obtenir réparation est soumise à la condition que l’intéressé fournisse la preuve du préjudice, ou au moins des éléments de preuve qui permettent au juge un raisonnement par présomption. A ce propos, le Gouvernement souligne que, dans certains arrêts, la Cour de cassation a rejeté des griefs tirés notamment de l’insuffisance de la réparation parce-que trop vagues et basés sur de simples allégations.

En conclusion, le Gouvernement considère que les requérants auraient dû se pourvoir en cassation et demande à la Cour de rejeter ce grief pour non‑épuisement des voies de recours internes.

Le Gouvernement soulève une deuxième exception tirée de l’absence de la qualité de victimes des requérants.

A cet égard, il fait observer qu’en accordant une somme aux requérants, la cour d’appel de Reggio de Calabre a non seulement reconnu la violation du droit au délai raisonnable mais a aussi réparé le préjudice subi. Selon le Gouvernement, le montant accordé au titre de la réparation ne peut pas être remis en cause par la Cour, puisque le juge national a décidé en équité et dans le cadre de la marge d’appréciation qui relève d’une décision en matière de satisfaction équitable.

Le Gouvernement fait observer que l’article 41 de la Convention n’oblige pas la Cour à accorder une satisfaction équitable. Selon lui, la Cour serait donc libre de ne pas accorder de satisfaction équitable et sans obligation de motivation, puisque la décision est prise en équité ; en outre, le requérant insatisfait du montant accordé ne pourrait pas saisir la Grande Chambre.

 

Arguments des requérants

 

Les requérants soutiennent que le recours en cassation n’est pas un recours à épuiser compte tenu de la jurisprudence de la Cour de cassation en la matière, dont ils ont cité deux exemples (voir droit interne pertinent).

Selon eux, il ne leur était pas loisible de soulever des griefs concernant le montant de l’indemnisation et l’étendue du préjudice allégué.

Les requérants soutiennent avoir encore le statut de « victimes » au sens de l’article 34 de la Convention, malgré la décision de la cour d’appel de Reggio de Calabre, puisque par cette décision la cour d’appel n’aurait pas réparé la violation de la Convention qu’elle a constatée. La cour d’appel aurait accordé aux requérants une somme non adéquate, et ceci serait dû au fait que les juridictions nationales ne reconnaissent pas le statut de droit fondamental au droit au délai raisonnable et au fait que la Convention n’est pas considérée comme étant applicable.


 

Appréciation de la Cour

 

La Cour doit d’abord déterminer si les requérants ont épuisé, conformément à l’article 35 § 1 de la Convention, les voies de recours qui leur étaient ouvertes en droit italien. Il s’agit en l’espèce de savoir s’ils étaient tenus de se pourvoir en cassation contre la décision rendue par la cour d’appel en matière de  loi Pinto.

La Cour rappelle que, s’agissant du recours devant les cours d’appel, dans des affaires récentes (Brusco c. Italie (déc.), no 69789/01, 6.9.2001, à paraître dans CEDH 2001 ; Di Cola c. Italie (déc.), no 44897/98, 11.10.2001), elle a estimé que le remède introduit par la loi Pinto est accessible et que rien ne permettait de douter de son efficacité. De plus, la Cour a considéré qu’au vu de la nature de la loi Pinto et du contexte dans lequel elle est intervenue, il était justifié de faire une exception au principe général selon lequel la condition de l’épuisement doit être appréciée au moment de l’introduction de la requête.

La Cour rappelle que la règle de l’épuisement des voies de recours internes énoncée à l’article 35 de la Convention impose aux personnes désireuses d’intenter contre l’Etat une action devant un organe judiciaire ou arbitral international l’obligation d’utiliser auparavant les recours qu’offre le système juridique de leur pays.  Les Etats n’ont donc pas à répondre de leurs actes devant un organisme international avant d’avoir eu la possibilité de redresser la situation dans leur ordre juridique interne. Cette règle se fonde sur l’hypothèse, objet de l’article 13 de la Convention - avec lequel elle présente d’étroites affinités -, que l’ordre interne offre un recours effectif pour la violation alléguée, indépendamment de l’incorporation ou non dans l’ordre interne des dispositions de la Convention. De la sorte, elle constitue un aspect important du principe voulant que le mécanisme de sauvegarde instauré par la Convention revête un caractère subsidiaire par rapport aux systèmes nationaux de garantie des droits de l’homme (arrêt Akdivar et autres c. Turquie, Recueil 1996-IV, p. 1210, 65).

Même si les Etats contractants n’ont pas d’obligation formelle d’incorporer la Convention dans l’ordre interne (arrêt James et autres c. Royaume-Uni du 21 février 1986, série A no 98, p. 48, § 86 ; Christine Goodwin c. Royaume-Uni [GC], no28957/95, CEDH 2002, § 113), il découle du principe de subsidiarité ci-dessus que les juridictions nationales doivent, dans la mesure du possible, interpréter et appliquer le droit interne conformément à la Convention. En effet, s’il est vrai qu’il incombe au premier chef aux autorités nationales d’interpréter et appliquer le droit interne, la Cour est appelée en tout état de cause à vérifier si la manière dont le droit interne est interprété et appliqué produit des effets conformes aux principes de la Convention (Carbonara et Ventura c. Italie, no 24638/94, CEDH 2000-VI, § 68 ; Streletz, Kessler et Krenz c. Allemagne [GC], nos 34044/96, 35532/97, 44801/98, § 49, CEDH 2001-II) dont la jurisprudence de la Cour fait partie intégrante.

A cet égard, la Cour rappelle enfin que, en substituant le mot « reconnaissant » au mot « s’engagent à reconnaître » dans le libellé de l’article 1, les rédacteurs de la Convention ont voulu indiquer de surcroît que les droits et les libertés du Titre I seraient directement reconnus à quiconque relèverait de la juridiction des Etats contractants (document H (61) 4, pp. 664-703, 733 et 927). Leur intention se reflète avec une fidélité particulière là où la Convention a été incorporée à l’ordre juridique interne (arrêt De Wilde,Ooms et Versyp du 18 juin 1971, série A no 12, p. 43, § 82 ; arrêt Syndicat suédois des conducteurs de locomotives du 6 février 1976, série A, no20, p. 18, § 50 ;  arrêt Irlande c. RU du 18 janvier 1978 série A, no 25, § 239). Néanmoins la Convention, qui vit dans la jurisprudence de la Cour, a désormais applicabilité directe pratiquement dans tous les Etats Parties. 

Dans le cadre de l’article 35, un requérant doit se prévaloir des recours normalement disponibles et suffisants pour lui permettre d’obtenir réparation des violations qu’il allègue. Ces recours doivent exister à un degré suffisant de certitude, en pratique comme en théorie, sans quoi leur manquent l’effectivité et l’accessibilité voulues. Cependant, rien n’impose d’user de recours qui ne sont ni adéquats ni effectifs. De plus, selon les « principes de droit international généralement reconnus », certaines circonstances particulières peuvent dispenser le requérant de l’obligation d’épuiser les voies de recours internes qui s’offrent à lui. Cette règle ne s’applique pas non plus lorsqu’est prouvée une pratique administrative consistant dans la répétition d’actes interdits par la Convention et la tolérance officielle de l’Etat, de sorte que toute procédure serait vaine ou ineffective (arrêt Akdivar et autres précité, p. 1210, §§ 66 et 67).

La Cour souligne qu’elle doit appliquer cette règle en tenant dûment compte du contexte : le mécanisme de sauvegarde des droits de l’homme que les Parties contractantes sont convenues d’instaurer. Elle a ainsi reconnu que l’article 35 doit s’appliquer avec une certaine souplesse et sans formalisme excessif. Elle a de plus admis que la règle de l’épuisement des voies de recours internes ne s’accommode pas d’une application automatique et ne revêt pas un caractère absolu; et en contrôlant le respect, il faut avoir égard aux circonstances de la cause. Cela signifie notamment que la Cour doit tenir compte de manière réaliste non seulement des recours prévus en théorie dans le système juridique de la Partie contractante concernée, mais également du contexte juridique et politique dans lequel ils se situent ainsi que de la situation personnelle du requérant (arrêt Akdivar et autres précité, p. 1211, par. 69).

La Cour a procédé à un examen comparatif des cent arrêts de la Cour de cassation disponibles à ce jour. Elle a pu constater que les principes fixés dans les deux affaires citées par les requérants (voir droit interne pertinent) ont été constamment appliqués, à savoir : non - reconnaissance du statut de droit fondamental au droit au délai raisonnable ; non - applicabilité directe de la Convention et de la jurisprudence de Strasbourg en matière de satisfaction équitable.

La Cour n’a trouvé aucun cas où la Cour de cassation a pris en considération un grief tiré de ce que le montant accordé par la cour d’appel était insuffisant par rapport au préjudice allégué ou inadéquat par rapport à la jurisprudence de Strasbourg. En effet, il s’agit de griefs rejetés par la Cour de cassation puisque considérés ou bien comme des questions de fait, échappant à sa compétence, ou bien comme des questions soulevées à la lumière de dispositions non applicables directement.

La Cour rappelle que l’article 6 § 1 garantit à toute personne le droit à ce qu’un tribunal connaisse de toute contestation relative à ses droits et obligations de caractère civil (Golder c. Royaume Uni du 21 février 1975, série A, no 18, p. 18, § 36 et Waite et Kennedy c. Allemagne [GC], no 6083/94, CEDH 1999-I, § 50). Il consacre de la sorte le droit de toute personne « à ce que sa cause soit entendue ... dans un délai raisonnable ».

Le droit au « délai raisonnable », reconnu par l’art. 6 § 1 de la Convention, est un droit fondamental et un impératif pour toutes les procédures visées par l’article 6 : la Convention souligne par là l’importance qui s’attache à ce que la justice ne soit pas rendue avec des retards propres à en compromettre l’efficacité et la crédibilité (Pelissier et Sassi c. France [GC], no 25444/94, CEDH 1999-II, § 74).

Compte tenu de ces éléments, la Cour en conclut que les requérants n’avaient aucun intérêt à se pourvoir en cassation, leur grief étant lié au montant de l’indemnité perçue et tombant donc dans les cas de figure ci-dessus. En outre, les requérants encouraient le risque d’être condamnés à des frais de procédure.

En conclusion, la Cour estime qu’en l’espèce les requérants n’étaient pas obligés, aux fins de l’épuisement des voies de recours, de se pourvoir en cassation. Dès lors, la première exception du Gouvernement doit être rejetée.

Cette conclusion ne remet toutefois pas en cause l’obligation de déposer une demande en réparation au sens de la loi Pinto auprès des cours d’appel et de la Cour de cassation, dans le cas où les juridictions nationales montrent, dans leur jurisprudence, qu’elles appliquent la loi précitée conformément à l’esprit de la Convention, et par conséquent que le remède est efficace.

La Cour doit ensuite examiner la deuxième exception du Gouvernement, qui est fondée sur l’article 34 de la Convention. La question de savoir si une personne peut toujours se dire victime d’une violation de la Convention implique essentiellement pour la Cour un examen ex post facto de la situation de la personne concernée. A cet égard, la question de savoir si celle-ci a obtenu pour le dommage qui lui a été causé une réparation – comparable à la satisfaction équitable dont parle l’article 41 de la Convention – revêt de l’importance. Il ressort de la jurisprudence constante de la Cour que lorsque les autorités nationales ont constaté une violation et que leur décision constitue un redressement approprié et suffisant de cette violation, la partie concernée ne peut plus se prétendre victime au sens de l’article 34 de la Convention.

La Cour considère par conséquent que le statut de victime d’un requérant peut dépendre de l’indemnisation qui lui a été accordée au niveau national pour la situation dont celui-ci se plaint devant la Cour (Andersen c. Danemark, requête no 12860/87 et Frederiksen et autres c. Danemark, requête no 12719/87, décisions de la Commision du 3 mai 1988 ; Normann c. Danemark, requête no 44704/98, déc. 14.06.2001 ; Jensen et Rasmussen c. Danemark, requête no 52620/99, déc. 20.03.2003) ainsi que du fait que les autorités nationales ont reconnu, explicitement ou en substance, la violation de la Convention. Ce n’est que lorsque ces deux conditions sont remplies que la nature subsidiaire du mécanisme de protection de la Convention empêche un examen de la part de la Cour (Eckle c. Allemagne, arrêt du 15 juillet 1982, série A no51, p. 32, §§ 69 ss. ; Jensen c. Danemark (déc.), no 48470/99, 20 septembre 2001).

En outre, la Cour rappelle que l’article 34 de la Convention exige qu’un requérant soit personnellement affecté par la mesure qu’il critique et que cette disposition ne peut être utilisée pour introduire une actio popularis devant la Cour. Par ailleurs, les conditions pour présenter une requête au sens de l’article 34 ne sont pas forcément les mêmes que celles régissant le locus standi au niveau national (Scozzari et Giunta c. Italie [GC], no 39221/98 et no 41963/98, § 138, CEDH 2000-VIII).

En l’espèce, la cour d’appel de Reggio de Calabre a reconnu, par sa décision du 1erjuillet 2001, que la procédure engagée par les requérants avait eu une durée excessive et leur a accordé globalement une somme de 2 450 EUR au titre du préjudice moral, soit environ 600 EUR chacun.

De l’avis de la Cour, la reconnaissance par la cour d’appel de la durée excessive de la procédure remplit, en substance, la première condition énoncée par la jurisprudence de la Cour : l’acceptation, de la part des autorités, d’une transgression d’un droit protégé par la Convention.

En ce qui concerne la deuxième condition, à savoir le redressement approprié par les autorités de l’infraction subie par les requérants, la Cour relève que ces derniers allèguent devant elle que la somme accordée par la cour d’appel ne saurait être considérée comme adéquate pour réparer le préjudice et la violation allégués.

La Cour rappelle que dans les affaires italiennes de durée de procédure, une jurisprudence extensive accepte que le redressement approprié pour ce genre d’affaires consiste toujours en une compensation pécuniaire. Dans ce contexte, dans des cas similaires à la présente affaire - par exemple De Pilla c Italie, no 49372/99, arrêt du 25 octobre 2001 ; Tartaglia c. Italie, no 48402/99, arrêt du 23 octobre 2001 - la Cour a accordé des sommes nettement plus élevées. Dans les deux cas précités, elle a accordé respectivement 10 000 000 ITL (5 000 EUR environ) et 14 000 000 ITL (7 000 EUR environ).

Il est incontestable que l’appréciation d’une durée de procédure et de ses répercussions, en particulier pour ce qui est du préjudice moral, ne se prête pas à une quantification exacte et qu’elle relève par nature d’une appréciation en équité. Par conséquent, la Cour accepte que les autorités judiciaires ou autres puissent calculer la compensation, dans une affaire de longueur de procédure, d’une manière pouvant s’écarter d’une application stricte et formaliste des critères adoptés par la Cour. Cependant, dans la présente affaire, la somme accordée aux requérants par la cour d’appel de Reggio de Calabre n’a pas de rapport raisonnable avec la somme accordée par la Cour dans les affaires similaires précitées - somme plus de dix fois plus élevées que la somme accordée aux requérants par la cour d’appel.

Tout en respectant la marge d’appréciation dont les juridictions nationales disposent, ces dernières doivent se conformer à la jurisprudence de la Cour aussi en accordant des sommes conséquentes.

Compte tenu des éléments du dossier, la Cour estime qu’un tel écart entre la jurisprudence de Strasbourg et l’application au cas d’espèce de la loi Pinto ne peut pas se justifier. Partant, elle estime que la somme accordée aux requérants ne peut être considérée comme adéquate et de ce fait apte à réparer la violation alléguée.

Il s’ensuit que les requérants peuvent se prétendre victimes au sens de l’article 34 de la Convention et qu’il convient de rejeter la deuxième exception du Gouvernement.

 

Sur le fond

 

Le Gouvernement fait observer que la durée de la procédure ne saurait être considérée comme étant excessive, compte tenu des difficultés objectives survenues pendant le procès telles que la nouvelle loi sur l’expropriation, le décès de A. Scordino, le manque de magistrats. A ce propos, le Gouvernement indique que l’affaire a été suivie par trois juges d’instruction qui se sont succédé.

Les requérants s’opposent à la thèse du Gouvernement.

La Cour estime, à la lumière de l’ensemble des arguments des parties, que ce grief pose de sérieuses questions de fait et de droit qui ne peuvent être résolues à ce stade de l’examen de la requête, mais nécessitent un examen au fond ; il s’ensuit que ce grief ne saurait être déclaré manifestement mal fondé, au sens de l’article 35 § 3 de la Convention.

 

2. Les requérants se plaignent d’une atteinte à leur droit au respect de leurs biens au motif que l’indemnité leur a été versée longtemps après la privation du terrain et n’est pas adéquate, étant donné qu’elle a été calculée sur la base de l’article 5bis de la loi no359 de 1992, appliquée rétroactivement. Ils allèguent la violation de l’article 1 du Protocole no 1, qui est ainsi libellé :

« Toute personne physique ou morale a droit au respect de ses biens. Nul ne peut être privé de sa propriété que pour cause d’utilité publique et dans les conditions prévues par la loi et les principes généraux du droit international.

Les dispositions précédentes ne portent pas atteinte au droit que possèdent les Etats de mettre en vigueur les lois qu’ils jugent nécessaires pour réglementer l’usage des biens conformément à l’intérêt général ou pour assurer le paiement des impôts ou d’autres contributions ou des amendes. »

Les requérants se plaignent en outre que l’adoption et l’application à leur cas de la loi no 359 de 1992 constituent une interférence législative prohibée par l’article 6 de la Convention, qui, dans ses parties pertinentes, prévoit :

« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement (...) par un tribunal (...), qui décidera (...) des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil (...) »

Le Gouvernement soutient que l’application de l’article 5 bis de la loi no 359 de 1992 au cas d’espèce ne soulève aucun problème au regard de l’article 1 du Protocole no 1 et de l’article 6 de la Convention.

A cet égard, le Gouvernement observe que dans le calcul d’une indemnité d’expropriation, il faut rechercher un équilibre entre l’intérêt privé et l’intérêt général. Par conséquent, l’indemnité d’expropriation adéquate peut être inférieure à la valeur marchande d’un terrain. Ceci a d’ailleurs été soutenu par la Cour constitutionnelle (arrêts no 283 du 16.6.93, no 80 du 7.3.96 et no 148 du 30.4.99).

Se référant aux arrêts de la Cour dans les affaires Les Saints Monastères c. Grèce (arrêt du 9 décembre 1994, série A no 301-A), Lithgow et autres c. Royaume-Uni (arrêt du 8 juillet 1986, série A no 102) et James et autres c. Royaume-Uni (arrêt du 21 février 1986, série A no 98), le Gouvernement soutient que le cas d’espèce doit être examiné à la lumière du principe selon lequel les objectifs d’utilité publique (tels qu’une réforme économique ou de justice sociale) peuvent militer pour un remboursement inférieur à la pleine valeur marchande.

Ceci correspond, selon le Gouvernement, à la volonté politique de mettre en œuvre un système dépassant le libéralisme classique du XIX siècle. Tout se résume à savoir si l’écart entre la valeur marchande et l’indemnité payée est raisonnable et justifié.

Le Gouvernement reconnaît que l’article 5bis litigieux a été inspiré par des raisons budgétaires ; il fait par ailleurs observer que, compte tenu de son caractère provisoire, cette disposition a été jugée par la Cour constitutionnelle comme étant conforme à la Constitution.

Le Gouvernement observe que la valeur vénale du terrain n’est pas exclue du calcul qui conduit à déterminer l’indemnité à verser ; cette valeur est tempérée par un autre critère, à savoir la rente foncière calculée sur la valeur attribuée au cadastre.

En conclusion, le Gouvernement soutient que le système de calcul de l’indemnité d’expropriation appliqué en l’espèce n’est pas déraisonnable et n’a pas enfreint le juste équilibre.

Quant à l’écoulement du temps entre l’expropriation et le versement de l’indemnité, le Gouvernement observe que l’action devant la cour d’appel de Reggio de Calabre n’a été introduite qu’en 1990, et estime que les requérants auraient pu engager l’action civile déjà en 1983. Ceci revient à dire qu’ils ont contribué eux-mêmes à retarder le versement de l’indemnité.

En outre, le Gouvernement fait observer que le préjudice provoqué par l’écoulement du temps est réparé par le versement d’intérêts.

S’agissant de l’application rétroactive de l’article 5 bis de la loi no 359/92, le Gouvernement soutient qu’elle est compatible avec la Convention. A cet égard, il fait observer que le principe de non rétroactivité n’est pas absolu, d’après la jurisprudence de la Convention et d’après le droit italien. En l’espèce, la loi litigieuse s’inscrit dans un contexte où le critère de la valeur marchande pour calculer l’indemnité d’expropriation avait déjà été modifié à deux reprises par le Parlement italien ; après que la Cour constitutionnelle eut annulé ces lois et que le critère de la valeur marchande tel que prévu par la loi de 1865 soit considéré comme étant à nouveau applicable par la jurisprudence de la Cour de cassation, la loi litigieuse comblait le vide législatif créé par les arrêts de la Cour constitutionnelle. L’adoption de la loi no 359 de 1992 s’expliquerait donc par ce besoin.

Le Gouvernement soutient enfin que, à compter de 1993, les requérants auraient pu obtenir une indemnité plus élevée de 40 % s’ils avaient accepté l’indemnité d’expropriation offerte par l’administration. Le Gouvernement en conclut que le grief des requérants est mal fondé.

Les requérants font observer que l’indemnité d’expropriation qui leur a été versée correspond à la moitié de la valeur marchande du terrain et qu’ensuite ce montant a été ultérieurement diminué de 20 % par l’effet de l’impôt à la source prévu par la loi no413 de 1991. Il en résulte que les requérants ont encaissé une somme correspondant à 40% de la valeur de leur bien. 

D’après les requérants, ceci ne saurait être considéré comme une indemnisation raisonnablement en rapport avec la valeur du bien et ils estiment qu’ils ont subi une charge disproportionnée.

Les requérants soulignent que la ville de Reggio de Calabre leur a communiqué l’offre d’indemnisation seulement en 1989, soit six ans après le décret d’expropriation, et qu’à partir de cette date seulement il leur a été possible d’introduire un recours en opposition devant la cour d’appel.

En outre, les requérants allèguent que leur terrain a été exproprié pour permettre à une société coopérative d’y construire des logements pour des particuliers et que ces derniers, conformément au droit interne (article 20 de la loi no 179 de 1992), seront libres, cinq ans plus tard, de revendre le logement au prix du marché. Ceci revient à dire que l’expropriation du terrain des requérants a avantagé des particuliers.

Les requérants font ensuite observer que l’article 5bis a été considéré par la Cour constitutionnelle comme conforme à la Constitution puisqu’il était provisoire, et répondait à une conjoncture particulière. Or, cette disposition est en vigueur depuis plus de dix ans.

Par ailleurs, les requérants observent que l’abattement ultérieur de 40% prévu par l’article 5bis pour ceux qui s’opposent à l’offre d’indemnisation n’a pas été appliqué à leur cas.

Les requérants observent ensuite que le montant accordé est l’effet de l’application rétroactive de deux lois, dont l’adoption est intervenue longtemps après l’expropriation du terrain. De ce fait, les requérants estiment que ceci constitue une raison supplémentaire de constater la violation de l’article 1 du Protocole no 1.

Les requérants font enfin observer que l’adoption et l’application de l’article 5 bis de la loi no 359 de 1992 est en même temps incompatible avec l’article 6 de la Convention puisqu’il y aurait eu une interférence législative incompatible avec le principe de légalité. A ce propos, les requérants soutiennent que la loi litigieuse ne répond pas à un intérêt public essentiel et qu’il s’agit uniquement d’une loi tendant à déterminer l’issue des procédures pendantes de manière à favoriser l’administration défenderesse.

La Cour estime, à la lumière de l’ensemble des arguments des parties, que cette partie de la requête pose de sérieuses questions de fait et de droit qui ne peuvent être résolues à ce stade de l’examen de la requête, mais nécessitent un examen au fond ; il s’ensuit que cette partie de la requête ne saurait être déclarée manifestement mal fondée, au sens de l’article 35 § 3 de la Convention. Aucun autre motif d’irrecevabilité n’a été relevé.

Par ces motifs, la Cour, à l’unanimité,

Déclare la requête recevable, tous moyens de fond réservés.

   Søren Nielsen                                                                     Christos Rozakis
   Greffier adjoint                                                                            Président