Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
|
Violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli di aver prestato un giuramento di obbedienza al vecchio partito comunista italiano. La constatazione della violazione costituisce di per sé un’ equa soddisfazione del danno morale subito. Spese legali liquidate in lire novemilioni (un terzo dell’intero).Non violazione dell'articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) quanto alla condanna penale e civile del ricorrente, un giornalista che aveva diffamato un alto magistrato della Procura della Repubblica italiana attribuendogli, senza un riscontro nei fatti, di aver partecipato alla strategia di conquista delle Procure in molte città d’Italia e di aver fatto un uso strumentale di un “pentito” contro un uomo politico.Non violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione (equo processo) quanto alla mancata ammissione di mezzi di prova a sostegno delle asserzioni ritenute diffamatorie per non aver il ricorrente dimostrato l’utilità di tali mezzi.La sentenza così motiva(traduzione non ufficiale a cura della Dott.ssa Silvia Scarpa) SECONDA SEZIONE Sentenza del 25 luglio 2001sul ricorso n° 48898/99 Nel Caso Perna c. Italia, La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi in una camera composta da : C.L. Rozakis, Presidente, B. Conforti, G. Bonello, V. Stráznická, M. Fischbach, M. Tsatsa-Nikolovska, E. Levits,giudici, e da E. Fribergh, cancelliere di sezione, Dopo averla deliberata in camera di consiglio il 14 dicembre ed il 10 luglio 2001, Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:
1. All’origine del caso vi è un ricorso (n° 48898/99) proposto contro l’Italia da un suo cittadino, il signor Giancarlo Perna («il ricorrente»), che ha adito la Corte il 22 marzo 1999 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). 2. Il ricorrente è rappresentato dall’avv. G.D. Caiazza, avvocato presso il foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo Agente, il signor U. Leanza, Capo del Contenzioso Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, assistito dal signor V. Esposito, Coagente. 3. Il ricorrente ha addotto una violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, a causa del rifiuto degli organi giurisdizionali italiani di ammettere le prove che egli aveva presentato ed una violazione del suo diritto alla libertà di espressione, contraria secondo lui all’articolo 10 della Convenzione. 4. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione della Corte (articolo 52 § 1 del Regolamento). Al suo interno, la Camera incaricata di esaminare il caso (articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del Regolamento. 5. Con decisione del 14 dicembre 2000, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile. IN FATTO 6. Il 21 novembre 1993, il ricorrente, giornalista professionista, pubblicò sul quotidiano italiano Il Giornale, nella rubrica «La bocca del leone», un articolo riguardante un magistrato, il sig. G. Caselli, a quel tempo Capo della Procura (Pubblico Ministero n.d.r.) a Palermo. L' articolo pretendeva di essere “un ritratto” di questo magistrato. Esso era intitolato «Caselli, il ciuffo bianco della giustizia » e portava il sottotitolo «Scuola dai preti, militanza comunista come l’amico Violante…». 7. Nell'articolo, il ricorrente, dopo aver fatto riferimento al procedimento promosso dal sig. Caselli contro il sig. G. Andreotti, un uomo di Stato italiano molto conosciuto accusato di appoggio esterno alla mafia che, nel frattempo, era stato assolto in primo grado, si esprimeva come segue: «(...) All'università, [Caselli] si agganciò al PCI [Partito Comunista italiano], il partito che esalta i frustrati. Quando fu ammesso in magistratura, fece un triplo giuramento di obbedienza: a Dio, alla legge ed a Botteghe Oscure [ sede del vecchio Partito Comunista Italiano, poi del PDS, il Partito Democratico della Sinistra]. E [Caselli] divenne il giudice che è da trenta anni: pio, severo e partigiano. Ma non lo capireste a fondo, se non introducessi a questo punto il suo alter ego; è Violante, il fratello gemello: Torinesi tutti e due, stessa età, cinquantadue anni; stesse scuole dei preti; stessa militanza comunista magistrati entrambi; un accordo profondo: Violante che è la testa, chiama, Caselli, il braccio, risponde. Luciano [Violante] è sempre stato un passo più avanti di Giancarlo [Caselli]. A metà degli anni settanta, incriminò per golpismo Edgardo Sogno, un ex partigiano, ma anticomunista. Fu un tipico processo politico e finì nel nulla. Violante, invece di andare sotto inchiesta, ci imbastì una carriera. Nel 1979, divenne deputato del PCI. E da allora è sempre stato il ministro ombra della Giustizia di Botteghe Oscure (…) … [Caselli] è un giudice in vista. Combatte il terrorismo in prima fila. E’ lui che ottiene la confessione di Patrizio Peci, il cui pentimento devasterà BR [le Brigate rosse]. Intanto il PCI ha messo in moto la sua strategia di conquista di tutte le procure d’Italia. La battaglia, ripresa dal PDS, è ancora in corso. (…) La prima è che se i comunisti non riescono a conquistare il potere coi voti , possono farlo col grimaldello giudiziario. Il materiale non manca. Democristiani e socialisti sono ladri autentici e sarà facile inchiodarli. La seconda idea è più geniale della prima: basta l’avviso di garanzia per stroncare le carriere, non serve il processo; è sufficiente la gogna. E per fare questo, è necessario controllare la rete completa delle procure. Così nasce Tangentopoli. I Craxi, i De Lorenzo e gli altri sono subito presi con le mani nel sacco e abbattuti. Ma per completare l’opera, manca all’appello Andreotti (…) Proprio allora, Giancarlo [Caselli] si prepara a lasciare la pioggia di Torino per il sole di Palermo. (…). Giunto a Palermo, i destini del giudice e di Andreotti, rimasti distanti per anni, si incrociano. Meno di due mesi dopo, piomba sul senatore a vita l’accusa di mafiosità. Il dossier che lo contiene è un guazzabuglio . (…) In aprile, Caselli corre negli Stati Uniti e incontra Buscetta. Gli offre undici milioni di lire al mese per continuare a fare il pentito. [Buscetta] Potrà servirgli ancora nell’istruttoria, anche se l’esito non ha più importanza. Il risultato è raggiunto. Si fa già una previsione. Tra sei, otto mesi, l’inchiesta sarà archiviata. Ma Andreotti non potrà certo risorgere. E questa è una fortuna. Di Caselli, si dirà invece che è un giudice obiettivo. (…) » 8. Il 10 marzo 1994, agendo su denuncia del sig. Caselli, il giudice delle indagini preliminari rinviava a giudizio presso il Tribunale di Monza il ricorrente, così come il direttore de Il Giornale. Il ricorrente era accusato di diffamazione a mezzo stampa, aggravata dal fatto che l'offesa era stata compiuta nei confronti di un funzionario pubblico ed a causa dell’esercizio delle sue funzioni. 9. Durante il procedimento di primo grado, la difesa ha chiesto di interrogare il sig. Caselli come querelante e parte civile. Egualmente, ha chiesto che due articoli comparsi sulla stampa e riguardanti i rapporti professionali fra Caselli ed il <<pentito>> Buscetta fossero acquisiti al fascicolo. Il tribunale ha rigettato entrambe le richieste sulla base del fatto che, a suo avviso, l’interrogatorio di Caselli era superfluo dato il contenuto dell'articolo scritto dal ricorrente, e che i documenti in questione non avrebbero avuto alcuna influenza sulla decisione. 10. Il 10 gennaio 1996, il tribunale ha dichiarato gli imputati colpevoli del delitto di diffamazione, in base agli articoli 595 commi 1 e 2, e 61 n. 10, del Codice Penale, così come dell’articolo 13 della Legge sulla Stampa (legge n. 47 dell’8 febbraio 1948). Ha condannato il ricorrente ad una multa di 1.500.000 di lire italiane (ITL), al risarcimento dei danni e delle spese della procedura fino a 60.000.000 ITL , così come alla pubblicazione della sentenza sul quotidiano Il Giornale. Secondo il tribunale, la natura diffamatoria dell'articolo era provata dal fatto che esso negasse che Caselli svolgesse le sue funzioni in maniera coscienziosa, attribuendogli una mancanza di imparzialità, di indipendenza e di obiettività che lo avrebbe condotto ad usare la sua attività giudiziaria per fini politici. Il ricorrente non avrebbe potuto invocare il <<diritto di cronaca>> ed il <<diritto di critica>> poiché non aveva addotto alcuna prova che avvalorasse accuse così gravi. 11. Il ricorrente propose appello. Invocando la libertà di stampa ed in particolare il <<diritto di cronaca>> e di critica, egli ha sostenuto, tra gli altri argomenti, che il riferimento alle tendenze politiche di Caselli rifletteva la realtà e che il tribunale avrebbe potuto esaminare se ciò fosse vero accettando la testimonianza del querelante stesso, che l’amicizia tra Caselli e Violante era effettiva e che era anche vero che, nel procedimento contro Andreotti, Caselli aveva usato l’aiuto del <<pentito>> Buscetta e che gli aveva pagato somme di denaro come rappresentante dello Stato, dato che tutti i <<pentiti>> ricevevano denaro dallo Stato italiano. Inoltre il ricorrente si qualificava come un opinionista: la sua intenzione non era quella di presentare una biografia di Caselli ma di esprimere le sue opinioni critiche, in modo figurato ed efficace, in base a fatti veri ed incontestabili. Infine ha insistito perché fossero interrogati il querelante, insieme a giornalisti e ad altre personalità del mondo politico italiano che, come Caselli, erano stati militanti comunisti. Il ricorrente in particolare ha chiesto l’audizione del sig. S. Vertone e del sig. G. Ferrara, entrambi compagni politici del querelante durante gli anni settanta a Torino e l’acquisizione al fascicolo degli articoli di stampa contenenti interviste in cui essi avevano confermato l’attiva militanza politica del querelante. In particolare, in un’intervista pubblicata dal quotidiano Il Corriere della sera l’11 dicembre 1994, di cui alcuni estratti erano stati citati nell’atto d’appello del ricorrente, il sig. Vertone aveva dichiarato, tra le altre cose, che il querelante era un uomo coraggioso di grande integrità ma che tuttavia era influenzato da quel modello politico e culturale, che i suoi legami con il vecchio Partito Comunista erano molto stretti e che, successivamente, Caselli era diventato null’altro che un suo membro. Da parte sua, in un’intervista pubblicata da un altro quotidiano, La Stampa, il 9 dicembre 1994, di cui erano anche stati citati degli estratti nell’atto d’appello del ricorrente, il sig. Ferrara aveva affermato che negli anni ’70 aveva partecipato a dozzine di riunioni politiche insieme in particolare a Caselli e Violante, tenute dalla federazione di Torino del vecchio Partito Comunista. Aveva poi continuato dicendo che, nonostante Caselli, persona integra, avesse fatto quale magistrato un buon lavoro nella lotta al terrorismo, egli era tuttavia altamente politicizzato ed avrebbe quindi dovuto evitare di fare discorsi come un tribuno. 12. Con una sentenza del 28 ottobre 1997, la Corte d'Appello di Milano ha condannato il ricorrente. Essa ha sostenuto che egli aveva attribuito a Caselli dei fatti e dei comportamenti in un modo chiaramente diffamatorio. 13. La Corte d'Appello si pronunciò separatamente sulle varie parti cruciali di cui si componeva l'articolo controverso. 14. In primo luogo ha esaminato la frase riguardante il “giuramento di obbedienza”: Quando fu ammesso in magistratura, fece un triplo giuramento di obbedienza: a Dio, alla legge ed a Botteghe Oscure [sede del vecchio Partito Comunista Italiano, poi del PDS, il Partito Democratico della Sinistra]. E [Caselli] divenne il giudice che è da trenta anni: pio, severo e partigiano. 15. La Corte d'Appello ha sostenuto che questa frase era diffamatoria perché, pur avendo valore simbolico, indicava una dipendenza dalle direttive di un partito politico, che era inconcepibile per quelle persone che, nel momento in cui sono ammesse a svolgere funzioni giudiziarie, devono prestare un giuramento di obbedienza (non simbolico ma reale) alla legge ed a nient’altro che alla legge. 16. La Corte d'Appello ha poi esaminato il resto dell’articolo, in particolare le affermazioni che seguono, secondo cui: - Caselli, con il sostegno di Violante, anch’egli magistrato (i rapporti fra i due essendo stati descritti come quelli fra “il braccio e la testa”), avrebbe contribuito al disegno del vecchio Partito Comunista italiano di conquistare gli uffici del Pubblico Ministero di varie città italiane, in modo tale da annientare gli avversari politici; - Caselli ha accusato Andreotti ed usato il “pentito” Buscetta essendo perfettamente a conoscenza del fatto che alla fine avrebbe dovuto interrompere l’azione legale per mancanza di prove, cosa che confermava che l’unico scopo delle sue azioni era quello di distruggere la carriera politica di Andreotti. 17. Secondo la Corte d’Appello queste affermazioni erano molto gravi e altamente diffamatorie, poiché non erano corroborate da alcun elemento di prova. 18. Quanto all’interrogatorio in contraddittorio del querelante e di altre personalità del mondo politico italiano ed all’acquisizione di alcuni articoli al fascicolo, la Corte d’Appello non li ritenne necessari: in effetti, i commenti del ricorrente circa l’orientamento politico di Caselli, l’amicizia tra Caselli e Violante e l’uso di Buscetta, un “pentito” pagato dallo Stato, nel procedimento contro Andreotti, non avevano un carattere diffamatorio e, quindi, non vi era bisogno che fossero provati. 19. Con sentenza del 9 ottobre 1998, depositata in cancelleria il 3 dicembre 1998, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello. A suo parere quest’ultima era assolutamente corretta, sia nei termini procedurali che per quanto riguarda il merito. Per ciò che riguardava il merito, il carattere offensivo dell’articolo, offensivo per un individuo ed anche per un magistrato, non poteva essere messo in dubbio, poiché il ricorrente aveva attribuito a Caselli fatti implicanti una mancanza di personalità, di dignità, di autonomia di pensiero, di coerenza e di integrità morale. IN DIRITTO I. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 PARAGRAFI 1 e 3 d) DELLA CONVENZIONE 20. Il ricorrente denuncia innanzitutto una violazione del suo diritto alla difesa, poiché le Corti italiane avevano rifiutato per tutta la durata del procedimento di ammettere le prove che egli aveva proposto, compreso l’interrogatorio in contraddittorio del querelante. A tal proposito egli invoca l’articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione. 21. Ai sensi dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione: «1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (…). 3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico». A. Argomenti delle parti 1. Il ricorrente 22. Il ricorrente contesta l'affermazione del Governo in base alla quale le Corti che lo avevano giudicato si erano basate sulle prove esaminate nell’udienza. Infatti, si evince dalle decisioni in questione che quest’ultime sono fondate solamente sull'articolo incriminato, quindi sulla querela dell’interessato, poiché tutte le sue richieste di presentazione delle prove erano state rigettate. 23. Secondo il ricorrente, i giudici avevano rifiutato di ammettere la prova cruciale in ogni processo per diffamazione, vale a dire la testimonianza del querelante. In tal modo, l’imputato si è visto negare il diritto di difesa più elementare: vale a dire il diritto di chiedere al querelante, sotto giuramento, se i fatti alla base delle critiche che egli gli aveva mosso fossero veri o meno. In altre parole, fondando la sua colpevolezza soltanto in base all'articolo incriminato, le Corti interne competenti hanno, in sostanza, considerato il processo in sé come superfluo. 24. Il ricorrente deduce che un giornalista accusato di diffamazione potrebbe difendersi soltanto dimostrando la sua credibilità, ciò che a lui era stato negato. Inoltre, nel caso in specie, egli non ha avuto la possibilità di presentare alcuna prova, e ciò è, a suo avviso, sintomatico della natura anormale del processo nei suoi confronti. In particolare, il ricorrente non capisce come si possano qualificare non pertinenti le testimonianze circa la militanza politica del querelante nel periodo in cui questo era già un magistrato - che costituiva la base delle critiche che egli (il ricorrente n.d.t.) aveva mosso riguardo all'indipendenza del magistrato in questione. 2. Il Governo 25. Il Governo convenuto ha dato risalto innanzitutto al fatto che l'ammissibilità delle prove rientra nella competenza delle Corti nazionali e che la responsabilità penale del ricorrente è stata confermata da tre gradi di giudizio che hanno esaminato in contraddittorio le prove presentate in udienza. I giudici hanno così valutato che le prove di cui il ricorrente aveva chiesto l’esame non erano pertinenti, e nessuna circostanza indica che il rifiuto di ammetterle costituisca una violazione dell'articolo 6. Inoltre, secondo la giurisprudenza costante degli organi della Convenzione, l’accusato non dispone di un diritto illimitato di ottenere la convocazione di testimoni. Ed ancora bisogna che egli dimostri che quella testimonianza sia necessaria per accertare i fatti ed il ricorrente, secondo il Governo, non lo avrebbe fatto. In realtà secondo lui (il Governo n.d.t.), nessuna delle testimonianze richieste dal ricorrente era pertinente in rapporto alle dichiarazioni ritenute diffamatorie. B. La valutazione della Corte26. La Corte ricorda che la ammissibilità delle prove è materia primariamente rimessa alle regole del diritto interno e che in via di principio compete alle giurisdizioni nazionali di valutare gli elementi raccolti da esse. Il ruolo attribuito alla Corte dalla Convenzione non consiste nel pronunciarsi sul quesito se le deposizioni dei testimoni sono state a buon diritto ammesse come prove, ma nel ricercare se la procedura considerata nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo (vedere, tra molte altre, la sentenza Van Mechelen ed altri contro Paesi-Bassi del 23 aprile 1997, Raccolta delle Sentenze e delle Decisioni 1997-III, § 50). In particolare, “in linea di principio, spetta alle giurisdizioni nazionali di valutare gli elementi di prova da esse stesse raccolti, e la pertinenza di quelli che gli accusati desiderano poter presentare. In particolare, l'articolo 6 paragrafo 3 d) lascia loro, sempre in linea di principio, la facoltà di valutare l’utilità di un’offerta di prova testimoniale (si veda la sentenza Vidal contro Belgio, del 22 aprile 1992, Serie A no. 235-B, § 33). Di conseguenza, non è sufficiente per l’accusato protestare che non gli è stato consentito di far interrogare alcuni testimoni. Egli deve anche supportare la sua richiesta di audizione dei testimoni precisandone l'importanza e che queste audizioni siano necessarie per la dimostrazione della verità giudiziaria (sentenze Engel ed altri contro i Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, Serie A no. 22, § 91 e Bricmont contro Belgio, del 7 luglio 1989, Serie A no. 158, § 89, così come Commissione Europea dei diritti dell’uomo, n° 29420/95, Decisione del 13.1.1997, DR 88-A, pag. 148, 158 e seguente). Questo principio riguarda parimenti il querelante in una causa di diffamazione qualora, come nella fattispecie, si chiede che egli venga ascoltato come testimone dei fatti asseriti nelle presunte dichiarazioni diffamatorie. 27. Nella fattispecie il ricorrente si è lamentato del fatto che i giudici nazionali non avevano ammesso di interrogare i testimoni di cui egli aveva chiesto l’audizione né del querelante e che neppure avevano autorizzato l’acquisizione nel fascicolo di causa di determinati articoli di stampa. 28. La Corte nota che il ricorrente ha chiesto, in particolare, che fossero ascoltati il sig. Vertone ed il sig. Ferrara, entrambi compagni politici del querelante durante gli anni Settanta a Torino, riguardo alla militanza politica di quest’ultimo. Dunque questa circostanza è stata sempre considerata per ammessa dalle giurisdizioni italiane durante tutto il processo e lo stesso vale per l'amicizia fra Caselli e Violante, per la collaborazione di Buscetta con le autorità giudiziarie ed il fatto che quest’ultimo, come “pentito”, veniva pagato dallo Stato. A tal proposito, la Corte attribuisce particolare importanza al fatto che, nel suo appello, il ricorrente ha menzionato soprattutto la militanza politica del querelante come circostanza che poteva essere confermata dalle testimonianze in questione, mentre egli non ha menzionato nessun altro testimone che potesse fornire elementi relativi alle circostanze di fatto cruciali menzionate nel suo articolo, vale a dire la partecipazione alla strategia di conquista delle Procure nelle varie città e l’utilizzazione di Buscetta per distruggere la carriera politica di Andreotti. La Corte considera, quindi, che il ricorrente non abbia spiegato in che cosa le testimonianze richieste avrebbero potuto fornire qualsivoglia cosa di nuovo al processo. Lo stesso vale per gli articoli di stampa che il ricorrente aveva chiesto che fossero acquisiti al fascicolo, e che, anch’essi, facevano essenzialmente riferimento alla militanza politica del querelante. 29. Per quanto riguarda l’audizione del querelante, richiesta ripetutamente dal ricorrente, la Corte non sottovaluta l’interesse che tale audizione avrebbe potuto avere nel contesto di un processo per diffamazione. Tuttavia, questo interesse di principio, deve essere verificato alla luce delle circostanze concrete del caso in questione. Ora l'articolo del ricorrente ha sollevato in sostanza due diverse questioni: da una parte, metteva in discussione l'indipendenza e l'imparzialità in generale del querelante a causa della sua militanza politica, e dall’altra lo accusava dei comportamenti concreti menzionati precedentemente: la partecipazione alla strategia di conquista delle Procure e l'uso del “pentito” Buscetta contro Andreotti. La militanza politica del querelante ed i suoi rapporti con il sig. Buscetta, in tanto che “pentito” pagato dallo Stato, sono stati considerati per ammessi dalle giurisdizioni italiane. La testimonianza del querelante avrebbe, quindi, riguardato principalmente l’accusa di aver partecipato alla strategia di conquista delle Procure in varie città e di aver avuto un motivo recondito per usare il predetto “pentito”. Queste ultime accuse, tuttavia, erano state contestate dal querelante nella sua querela per diffamazione. Di conseguenza, è difficile vedere quale elemento utile alla dimostrazione della verità giudiziaria avrebbe potuto apportare l’interrogatorio del querelante, tranne una ripetizione del suo rifiuto il blocco delle asserzioni formulate contro di lui. 30. Sarebbe stato diverso se il ricorrente avesse addotto testimonianze o altri mezzi di prova a sostegno di queste asserzioni contestate, poiché il querelante sarebbe stato, in questo caso, obbligato a rispondere, non - o non soltanto - alle asserzioni del ricorrente in quanto tali, ma anche e, soprattutto, ai mezzi di prova che le supportavano. 31. In conclusione, la Corte considera che il ricorrente non ha dimostrato l’utilità delle audizioni del sig. Vertone del sig. Ferrara e del querelante né dell’acquisizione di determinati articoli di stampa al fascicolo. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell'articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione.
32. Invocando l'articolo 10 della Convenzione, il ricorrente si è ulteriormente lamentato di una violazione del suo diritto alla libertà di espressione, risultante sia dalla decisione nel merito delle Corti italiane che dalle loro decisioni sugli aspetti procedurali, queste ultime avendogli impedito di dimostrare che l'articolo incriminato era una manifestazione del <<diritto di cronaca>> e di critica nel contesto della libertà di stampa. 33. L’articolo 10 della Convenzione sancisce che: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione. 2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario”. A. La doglianza in base all'articolo 10 in ragione del rifiuto delle Corti italiane di ammettere le prove richieste dal ricorrente 34. La Corte osserva di primo acchito che, nella misura in cui riguarda il rifiuto delle Corti italiane di ammettere le prove richieste dal ricorrente, la doglianza in base all'articolo 10 non solleva in sostanza alcuna questione distinta da quella che è stata già decisa nel quadro dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 d) della Convenzione. Di conseguenza, la Corte esaminerà questa parte del ricorso puramente dal punto di vista delle garanzie sostanziali previste dall'articolo 10 per quanto riguarda come tale la condanna del ricorrente.
1. Il ricorrente 35. Il ricorrente ha asserito che l'esperienza politica di un magistrato influenza inevitabilmente quest’ultimo nell’esercizio delle sue funzioni. Si può non essere d'accordo con questa opinione, ma non si potrebbe qualificarla come un’accusa molto grave tanto da essere sanzionata penalmente. 2. Il Governo 36. Il Governo sostiene che le decisioni di cui si lamenta il ricorrente avevano lo scopo di tutelare la reputazione di altri e, specificamente, quella del Procuratore della Repubblica di Palermo e di proteggere l'autorità del potere giudiziario; quindi, hanno perseguito degli obiettivi legittimi in base a quanto previsto dal secondo paragrafo dell'articolo 10. Le dichiarazioni del ricorrente, lontane dall'interessare un dibattito di interesse generale, contenevano, in effetti, insulti personali contro il magistrato in questione. Riferendosi alla giurisprudenza della Corte in materia, il Governo ha dato risalto al fatto che, tenendo conto della posizione specifica ricoperta dal potere giudiziario all'interno della società, potrebbe essere necessario proteggerlo dagli attacchi privi di qualsiasi fondamento, in particolare, nei casi in cui il dovere di discrezione impedisca ai magistrati implicati di reagire. 37. Nell'accusare il magistrato interessato di aver infranto la legge o, almeno, i suoi doveri professionali, il ricorrente non ha soltanto danneggiato la reputazione dell’interessato ma egualmente la fiducia dei cittadini nella Magistratura. Come precisato dalla Corte d'Appello, il ricorrente non ha espresso delle opinioni ma ha attribuito dei fatti al magistrato accusato, senza procedere ad alcuna verifica e senza aver prodotto alcun elemento concreto a sostegno. C. La valutazione della Corte38. La Corte richiama i principi fondamentali che emergono dalla sua giurisprudenza relativa all'articolo 10: (i) La libertà dell'espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica ed una delle condizioni primordiali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni individuo. Salva la riserva del paragrafo 2, essa vale non soltanto per le “informazioni” o le “idee” accolte con favore o considerate come inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, sconvolgono o inquietano. Così esigono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura della mente senza i quali non vi è una <<società democratica>>. Come precisato nell’articolo 10, questa libertà è soggetta a delle eccezioni, che devono, tuttavia, interpretarsi in maniera restrittiva e l'esigenza di qualsiasi restrizione deve essere stabilita in modo convincente (si vedano, tra le altre, le seguenti sentenze: Jersild contro Danimarca, del 23 settembre 1994, Serie A n°. 298, § 31; Janowski contro Polonia [GC], n°. 25716/94, § 30, ECHR 1999-I; Nilsen e Johnsen contro Norvegia, n°. 23118/93, § 43, che deve essere ancora pubblicata nellaRaccolta delle sentenze e delle decisioni della Corte). (ii) L’aggettivo “necessario”, in base al significato del § 2 dell'articolo 10, implica l'esistenza di un “bisogno sociale imperioso”. Gli Stati contraenti godono di un certo margine di discrezionalità per giudicare la sussistenza di un tale bisogno, ma questo margine va di pari passo con un controllo europeo, abbracciando sia la legge che le decisioni che applicano quest’ultima, persino quelle derivanti da una giurisdizione indipendente. Compete, dunque, alla Corte in ultima istanza di decidere se una “restrizione” è conciliabile con la libertà di espressione come protetta dall'articolo 10 (Janowski contro Polonia, sopra citata, § 30). (iii) Nell'esercitare il suo potere di controllo, la Corte deve esaminare l’ingerenza alla luce del caso nel suo insieme, ivi compreso il tenore delle accuse rivolte contro il ricorrente ed il contesto in cui egli le ha fatte. In particolare, essa deve determinare se l’ingerenza in questione sia stata “proporzionata ai fini legittimi perseguiti” e se i motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificarla appaiano “pertinenti e sufficienti” (Janowski contro Polonia, sopra citata, § 30 e la sentenza Barfod contro Danimarca del 22 febbraio 1989, Serie A n°. 149, § 28). In tal modo, la Corte deve convincersi che le autorità nazionali hanno applicato delle regole conformi ai principi sanciti dall’articolo 10 ed, inoltre, che si sono basate su una valutazione accettabile dei fatti pertinenti (si veda la citata sentenza Jersild contro Danimarca, § 31). (iv) Un'opinione, per definizione, non si presta ad una dimostrazione di veridicità. Essa può, tuttavia, dimostrarsi eccessiva, in particolare, in assenza di qualsiasi base dei fatti (si veda la sentenza De Haes e Gijsels contro Belgio, del 24 febbraio 1997, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1997-I, § 47). (v) Le questioni di interesse pubblico su cui la stampa ha il diritto di comunicare informazioni ed idee, nel rispetto delle sue funzioni e delle sue responsabilità, includono quelle riguardanti il funzionamento del potere giudiziario. Tuttavia, il lavoro dei tribunali, che sono garanti della giustizia e che hanno un ruolo fondamentale in uno Stato di diritto, necessita di godere della fiducia della collettività. Esso dovrebbe, quindi, essere protetto dagli attacchi non fondati, in particolare, in considerazione del fatto che i magistrati sono soggetti ad un dovere di discrezione che gli preclude la possibilità di reagire (si veda la sentenza Oberschlick e Prager contro Austria, del 26 aprile 1995, Serie A n°. 313, § 34). 2. Applicazione dei suddetti principi nel caso in questione 39. La Corte rileva, innanzitutto, che nella condanna del ricorrente la Corte d'Appello si è pronunciata separatamente su ciascuna delle parti cruciali dell'articolo incriminato. Seguendo questo metodo la Corte d'Appello si è pronunciata, in primo luogo, sulla frase “Quando fu ammesso in magistratura, fece un triplo giuramento di obbedienza” (si vedano sopra i paragrafi 14 e 15) e, in seguito, sul contenuto della parte rimanente dell’articolo, riguardante, fra l’altro, la presunta strategia di conquista delle Procure in varie città, a cui il querelante avrebbe contribuito e la natura abusiva e manipolativa dell’inchiesta aperta nei confronti del sig. Andreotti (si vedano sopra i paragrafi 16 e 17). Di conseguenza, la Corte esaminerà separatamente, alla luce dei requisiti previsti dall'articolo 10 della Convenzione, queste due parti della condanna inflitta al ricorrente. (a) La frase riguardante il “giuramento di obbedienza” 40. La Corte ricorda che bisogna distinguere con cura i fatti ed i giudizi di valore. Se la materialità dei primi può essere dimostrata, i secondi non si prestano ad una dimostrazione della loro esattezza (si veda la sentenza Lingens contro Austria, dell’8 luglio 1986, Serie A n°. 103, § 46). La Corte considera che la frase in questione aveva una portata essenzialmente simbolica ed esprimeva un’opinione critica circa la militanza politica di Caselli nel vecchio Partito Comunista. Inoltre, la stessa Corte d'Appello ha riconosciuto, nella sua sentenza del 28 ottobre 1997, che si trattava di una espressione avente un valore simbolico. Per ripetere i termini usati dalla Corte d'Appello, è vero che una tale espressione indicava la dipendenza dalle direttive di un partito politico. Tuttavia, questo era precisamente il tenore della critica diretta al querelante. Di conseguenza, la Corte deve verificare se tale critica, espressa in una forma piuttosto forte e simbolica, si conciliasse con il rispetto delle regole della professione di giornalista, a cui è sottoposto l'esercizio della libertà di espressione, garantita dall'articolo 10. 41. La Corte nota che la critica diretta al querelante aveva una base dei fatti che non era contestata, vale a dire la militanza politica di Caselli nel Partito Comunista. Gli stessi Tribunali italiani hanno ritenuto costantemente che tale fatto fosse stato accertato (si veda sopra il paragrafo 28). Se è vero dunque che i magistrati devono essere protetti contro attacchi non fondati, in particolare considerando che hanno un dovere di discrezione che gli preclude la possibilità di reagire (si veda la sentenza Oberschlick e Prager contro Austria, citata, § 34), tuttavia, la stampa è uno dei mezzi attraverso i quali i responsabili politici e l'opinione pubblica possono verificare che i giudici assolvano alle loro elevate responsabilità in un modo conforme allo scopo che è alla base del compito loro affidato (ibidem). Militando in un partito politico, di qualsiasi orientamento, un magistrato mette in pericolo l'immagine di imparzialità e di indipendenza che la giustizia deve sempre ed invariabilmente mostrare (si vedano,mutatis mutandis, Buscemi contro Italia, n°. 29569/95, § 67, che deve essere ancora pubblicata nella Raccolta delle sentenze e delle decisioni della Corte). Laddove un magistrato è un militante politico attivo, la sua protezione incondizionata contro gli attacchi nella stampa è scarsamente giustificata dalla necessità di mantenere la fiducia dei cittadini di cui il potere giudiziario ha bisogno per poter funzionare correttamente, considerando che è precisamente tale militanza politica che è suscettibile di insidiare quella fiducia. Con un tale comportamento, un magistrato si espone inevitabilmente alla critica della stampa, per la quale l'indipendenza e l'imparzialità della Magistratura costituiscono legittimamente un’importante preoccupazione di interesse generale. 42. Quanto ai termini usati dal ricorrente, l'uso dell'immagine simbolica del “giuramento di obbedienza” era certamente forte, ma è d’uopo ricordare, a tal proposito, che la libertà giornalistica egualmente copre anche il possibile ricorso ad una certa dose di esagerazione, o persino di provocazione (si veda la sentenza Oberschlick e Prager contro Austria, sopra citata, § 38). Inoltre, se la Corte non deve approvare il tono polemico e, persino, aggressivo dei giornalisti, bisogna ricordare che l'articolo 10 protegge non soltanto la sostanza delle idee e le informazioni espresse, ma anche la forma in cui sono comunicate (si veda la sentenza Jersild contro Danimarca, sopra citata, § 31). Bisogna poi egualmente tenere conto dell'aperta e, persino, ostentata natura della militanza politica del querelante (si vedano sopra i paragrafi 11 e 18 e, mutatis mutandis, Lopes Gomes da Silva contro Portogallo, n°. 37698/97, § 35, che deve essere ancora pubblicata nella Raccolta delle sentenze e delle decisioni della Corte). 43. Date queste condizioni, l’espressione critica del ricorrente sulla militanza politica del sig. Caselli, fondata su di una base dei fatti solida e non contestata, non potrebbe essere considerata eccessiva (si veda la sentenza De Haes e Gijsels contro Belgio, precitata, § 47). (b) Sulle affermazioni di fatto rivolte contro il querelante 44. La Corte considera che le affermazioni del ricorrente circa la partecipazione di Caselli ad una presunta strategia di controllo delle Procure in un certo numero di città e l'uso del “pentito” Buscetta per perseguire il sig. Andreotti esprimevano con tutta evidenza l’attribuzione di atti specifici al querelante. Esse quindi, non potrebbero beneficiare della protezione dell'articolo 10, a meno che non abbiano una base di fatto, tenendo conto, in particolare, della gravità di tali accuse. In effetti, qui si trattava di affermazioni di fatto suscettibili di essere provate (si veda Nilsen e Johnsen contro Norvegia, precitata, § 49). 45. Ora l'articolo in questione non ha accennato ad alcun elemento o citato alcuna fonte di informazioni capace di confermare queste affermazioni. Ancora, durante il processo, il ricorrente non ha addotto alcun elemento di prova preciso a sostegno di queste affermazioni di fatto e, come la Corte lo ha constatato, le testimonianze che egli ha richiesto e gli articoli di stampa che voleva fossero acquisiti al fascicolo riguardavano soltanto l’attivismo politico del querelante (si veda sopra il paragrafo 28). Dovendo tenere conto del contesto, quelle affermazioni, che hanno portato accuse estremamente gravi contro un magistrato, hanno superato i limiti della critica ammissibile, in quanto erano sprovviste di una base dei fatti. 3. Conclusioni 46. La Corte ha sempre dato risalto all'importanza primordiale che la libertà di espressione riveste in una società democratica, di cui essa costituisce uno dei fondamenti essenziali. Di conseguenza, nel suo controllo sulle decisioni date dalle Corti nazionali in virtù del loro potere di valutazione, essa deve vigilare che le sanzioni adottate contro la stampa siano state rigorosamente proporzionali ed incentrate sulle affermazioni che, effettivamente, superavano i limiti della critica ammissibile, salvaguardando le affermazioni che possono e, quindi, devono godere della protezione dell'articolo 10. In effetti, l'esercizio della libertà di espressione è complesso e delicato ed una sanzione applicata ad un giornalista è giustificata soltanto finché penalizza quelle parti del suo discorso che hanno superato i limiti citati qui sopra. A tal proposito, è opportuno ricordare che le eccezioni alla libertà di espressione devono essere interpretate in maniera restrittiva (si veda in particolare la sentenza Oberschlick contro Austria (n°. 2), del 1 luglio 1997, Raccolta delle sentenze e delle decisioni, 1997-IV, pp. 1274-1275, § 29 e, da ultimo, Lopes Gomes da Silva contro Portogallo, sopra citata, § 30 (ii)). 47. Di conseguenza, la condanna del ricorrente sembra essere fondata su motivi rilevanti e sufficienti per quanto riguarda le affermazioni rispettivamente sulla partecipazione del querelante ad una strategia di controllo delle Procure di parecchie città e sui reali motivi per cui è stato usato il “pentito” Buscetta, dato che queste erano affermazioni di fatto che non erano state supportate e che non potrebbero essere fondate soltanto sulla militanza politica del querelante (si veda, mutatis mutandis,Nilsen e Johnsen contro Norvegia, sopra citata, § 49). Per contro, essa non sembra essere giustificata per quanto riguarda la frase concernente il “giuramento di obbedienza”, perché questa costituiva un'opinione critica che, pur essendo stata formulata in modo forte e con un linguaggio provocatorio, era, tuttavia, basata su una base dei fatti solida, rivestiva incontestabilmente un interesse generale, a causa della preoccupazione che può suscitare la militanza politica attiva di un magistrato e doveva, quindi, godere della protezione dell'articolo 10, anche con riguardo al modo in cui è stata formulata. 48. Pertanto, c’è stata una violazione dell'articolo 10 nella misura in cui il ricorrente è stato condannato anche a causa del fatto della frase concernente il “giuramento di obbedienza”. III. L'APPLICAZIONE DELL' ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE 49. L’articolo 41 della Convenzione prevede che: « Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno della Alta Parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. ». A. Danni50. Rispetto a danni materiali, il ricorrente ha fatto riferimento a parte delle somme che era stato costretto a pagare al querelante: 60.000.000 di lire italiane (ITL) come risarcimento per i danni morali ed ITL 11.000.000 per rimborso delle spese giudiziarie sostenute dal querelante. Tuttavia, egli ha riconosciuto che non aveva pagato queste somme personalmente, poiché la società che possedeva il giornale aveva sopportato tutti i costi. 51. Perciò, la Corte considera che il ricorrente non ha sostenuto alcun danno che abbia interessato il suo patrimonio e, di conseguenza, che nessuna somma debba essergli accordata a tal riguardo. 52. Quanto al danno morale, il ricorrente si rimette, sostanzialmente, alla saggezza della Corte, pur sottolineando quanto segue. La condanna ha causato seri danni alla sua reputazione professionale, considerando che, a quel tempo, egli era già un giornalista molto famoso, i cui articoli venivano pubblicati sulle prime e terze pagine, che corrispondono alle posizioni più prestigiose in un quotidiano. Il danno sarebbe stato aggravato dalla celebrità del querelante e dalla natura delicata delle questioni trattate nell'articolo. Inoltre il ricorrente precisa che la sua condanna aveva limitato considerevolmente la sua successiva attività a causa del suo timore di essere nuovamente perseguito per il contenuto dei suoi articoli. 53. Il Governo convenuto è del parere che la constatazione di una violazione costituirebbe una riparazione sufficiente. 54. La Corte considera, come il Governo, che la constatazione di una violazione costituisce in sé una sufficiente ed equa soddisfazione per tutti i danni morali eventualmente subiti dall’interessato (si veda Nilsen e Johnsen contro Norvegia, citata, § 56), tanto più che la Corte ha ritenuto che la condanna del ricorrente per le sue affermazioni relative alla presunta strategia di controllo delle Procure ed i reali fini dell’uso del “pentito” Buscetta era fondata su motivi pertinenti e sufficienti. B. Spese legali55. Il ricorrente riconosce che anche i costi affrontati nei procedimenti nazionali sono stati sopportati dall'azienda che possiede il giornale. La Corte considera, quindi, che nessuna somma di denaro debba essergli concessa a tale titolo. 56. Quanto alle spese sostenute davanti alla Corte, il ricorrente ha richiesto la somma globale di ITL 27.754.689, comprendenti anche le somme dovute in base all'imposta sul valore aggiunto ed alla CAP, la Cassa di previdenza degli avvocati. A tal proposito, egli ha prodotto una dettagliata notula degli onorari e delle spese. 57. Il Governo si rimette alla saggezza della Corte, dando risalto alla semplicità del caso. 58. La Corte considera che il caso abbia presentato difficoltà innegabili, ma che dovrebbe anche essere tenuto conto del fatto che la constatazione della violazione interessa solo l'articolo 10 e unicamente nella misura in cui la condanna del ricorrente sia stata anche basata sulle sue affermazioni circa il “giuramento di obbedienza”. Di conseguenza, la Corte considera giusto assegnare un terzo (arrotondato per difetto) della somma richiesta, vale a dire ITL 9.000.000, più la somma relativa all’imposta sul valore aggiunto ed alla CAP che possano essere dovute. C. Interessi moratori 59. Secondo le informazioni di cui dispone la Corte, il tasso d’interesse legale applicabile in Italia alla data di adozione della presente sentenza è del 3,5% all'anno. PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL'UNANIMITÀ 1. Dichiara che non vi è stata violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione; 2. Dichiara che vi è stata una violazione dell’articolo 10 della Convenzione quanto alla condanna del ricorrente per aver attribuito, sotto forma di espressione simbolica, al querelante di aver prestato “giuramento di obbedienza” al vecchio Partito Comunista italiano e che, peraltro, non vi è stata alcuna violazione di tale disposizione quanto alla condanna del ricorrente a causa delle sue affermazioni riguardo rispettivamente alla partecipazione del querelante ad una presunta strategia di controllo delle Procure di molte città ed ai reali fini dell’uso del “pentito” Buscetta; 3. Dichiara che la constatazione di una violazione costituisce in sé una equa soddisfazione sufficiente per il danno morale sostenuto dal ricorrente; 4. Dichiara (a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro i tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, 9.000.000 (nove milioni) di lire italiane per spese legali, in aggiunta qualsiasi somma che possa essere dovuta per l’imposta sul valore aggiunto ed il contributo alla Cassa di previdenza degli avvocati (CAP). (b) che questo importo sarà maggiorato dell’interesse semplice del 3,5 % annuo dalla data di scadenza di questo termine fino al versamento; 5. Rigetta per il surplus la domanda di equa soddisfazione. Redatta in francese, poi comunicata per iscritto il 25 luglio 2001, conformemente all’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento della Corte. Christos Rozakis - Presidente Erik Fribergh - Cancelliere In conformità con l’articolo 45 § 2 della Convenzione e con l’articolo 74 § 2 del Regolamento della Corte, l'opinione concordante del sig. Conforti, a cui aderisce il sig. Levits, è allegata a questa sentenza. C.L.R. OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE CONFORTI, (Traduzione) Sono d'accordo con l'individuazione di una violazione dell'articolo 10 della Convenzione, ma per motivi differenti da quelli indicati nella sentenza. La maggioranza ha chiaramente separato la doglianza del ricorrente riguardante la procedura davanti alle Corti italiane, che essa ha considerato esclusivamente sotto l’angolo dell'articolo 6, dalla doglianza concernente le garanzie sostanziali della libertà di espressione, che essa ha esaminato dal punto di vista dell'articolo 10. Io credo, proprio al contrario, che le questioni sollevate in casi di questo tipo rientrino ancora nell'articolo 10 persino nel caso in cui si guardi allo svolgimento della procedura seguita; e ciò che può essere normalmente tollerato dal punto di vista dei diritti della difesa secondo le regole dell’equo processo stabilite nell’articolo 6, non può essere accettato quando bisogna verificare se un’ingerenza con la libertà di espressione è “necessaria in una società democratica”. Nel caso in questione le Corti si sono rifiutate di far testimoniare il querelante, che avrebbe potuto essere interrogato dall’avvocato del ricorrente ed hanno rifiutato tutte le richieste di addurre delle prove. In un processo per diffamazione da parte di un giornalista nei confronti di un magistrato della procura, tale comportamento, che fosse intenzionale o meno, dà la chiara impressione di intimidazione, che non può essere tollerata alla luce della giurisprudenza della Corte sulle limitazioni della libertà di stampa. In effetti, le Corti italiane hanno dato prova di una grande rapidità giudicando il ricorrente in meno di quattro anni per tre livelli di giudizio. Tuttavia, anche questa circostanza, pur essendo encomiabile dal punto di vista del principio della durata ragionevole del processo, non può non rinforzare - provenendo da un Paese condannato molte volte per la lunghezza dei suoi processi - l'impressione menzionata precedentemente. Questo è il motivo per cui accetto gli argomenti del ricorrente, che ha molto insistito sulla necessità di valutare la procedura dal punto di vista dell'articolo 10 e considero che vi è stata una violazione di tale disposizione. |