sentenza 20 dicembre 2001

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

 CASO  F.L. contro ITALIA

SENTENZA del 20 dicembre 2001  Ricorso n°  25639/94

 

Violazione  dell’art. 13 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (diniego di accesso ad un tribunale), perché le regole fondanti la procedura di liquidazione coatta amministrativa, caratterizzate dalla lunghezza della verifica dell’elenco dei crediti (sedici anni e sei mesi ), hanno ostacolato in maniera ingiustificata il  diritto del ricorrente di disporre di un ricorso “effettivo” per far valere il suo credito davanti ai giudici nazionali. Lo Stato italiano deve versare lire italiane 30.000.000 (trenta milioni) per danno morale e lire 1.500.000  (un milione cinquecentomila) per  spese legali.

 

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

 

La sentenza così motiva

( traduzione non ufficiale a cura  dell’avv. Lara Lunari)

PRIMA SEZIONE

 

Sentenza del 20 dicembre 2001

sul ricorso n°  25639/94

presentato da F.L.  

contro Italia

 

Nel caso  F. L. contro Italia,

La Corte europea dei Diritti dell'Uomo, (prima sezione), riunitasi in una camera composta da  :

C.L. ROZAKIS, presidente,  F. TULKENS, B. CONFORTI,    P. LORENZEN,  N. VAJIC, E. LEVITIS, KOVLER, giudici

e da E. FRIBERGH, cancelliere  di sezione,

dopo aver deliberato in camera di consiglio il 25-11-1999 e il 29-11-2001, emette la seguente sentenza adottata  in quest’ultima data:

 

PROCEDURA

  1. All'origine del caso vi è un  ricorso (n° 25639/94) proposto contro la Repubblica italiana da parte di un cittadino italiano, il Sig. F.L.  ( “il ricorrente”), il quale  aveva adito  la Commissione europea dei Diritti dell'Uomo (« la Commissione ») l’ 8 settembre 1994   in virtù del vecchio articolo 25 della Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, ( “la Convenzione” ).

  2. Il ricorrente, che è avvocato, agisce di persona davanti gli organi della Convenzione. Il governo italiano (il “Governo”) è  rappresentato dal suo agente  Sig. U. Leanza, e dal suo coagente  Sig. V. Esposito

  3. Il ricorrente lamenta in particolare che non ha mai ottenuto il pagamento di somme di sua spettanza e che non ha potuto adire alcuna giurisdizione per tutelare il suo credito.

  4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1° novembre 1998, data di entrata in vigore del Protocollo n° 11 della Convenzione (art. 5 §  2 del Protocollo N° 11).

  5. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione  della Corte (art. 52 §  1 del regolamento). In seno a questa, la camera incaricata di esaminare il caso (articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata  costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del regolamento.

.

  6. Con decisione 25 novembre 1999 la Corte ha dichiarato la ricevibilità parziale del ricorso.

  7. Sia il ricorrente che il Governo hanno depositato osservazioni scritte in merito al ricorso (art. 59  §  1 del regolamento)

 

IN FATTO

I. Le circostanze della fattispecie

  8. Il ricorrente ha lavorato in qualità di consulente  per la Compagnia di Assicurazioni Colombo S.p.A.

  9. Con decreto ministeriale 12-7-1984 la società fu posta in  liquidazione coatta amministrativa  sotto la direzione di un commissario. In quel periodo, il ricorrente era creditore della società Colombo  per un capitale di lire italiane  89.242.987.

  10. Il 22-7-1991, il commissario depositò alla cancelleria del tribunale civile di Roma l’elenco dei crediti. Da questo documento risulta che il ricorrente è un creditore privilegiato per la somma su indicata.

  11. In data non precisata il ricorrente fu informato del deposito dell’elenco dei crediti a mezzo raccomandata.  Egli non fece opposizione.

  12. Il 1 febbraio 1994 il ricorrente inviò una lettera al ministro dell’industria segnalando il ritardo accumulato dal commissario nella procedura di liquidazione coatta amministrativa della società Colombo e chiede spiegazioni.

  13. Secondo le ultime informazioni fornite dal Governo il 29 febbraio 2001, a questa data la liquidazione era ancora in corso a causa dell’esistenza di molte procedure pendenti nelle quali era parte  la  società Colombo. Il ricorrente non ha ottenuto alcun pagamento in suo favore.

II. Il diritto interno pertinente

  14. La procedura di liquidazione coatta amministrativa  è regolamentata dal regio decreto n° 267 16-3-1942 ( di seguito indicata come “legge fallimentare”). Questo si applica alle compagnie di assicurazioni, alle banche e alle società cooperative,  imprese normalmente sottoposte al controllo dello Stato in ragione dell’interesse generale della loro attività. La messa in liquidazione è preceduta da una fase preliminare davanti al tribunale civile che dichiara che l’impresa è in uno stato di cessazione dei pagamenti. La messa in liquidazione coatta amministrativa  propriamente detta è  poi pronunciata dall’autorità amministrativa competente a controllare l’attività della impresa in questione (autorità amministrativa di vigilanza). La procedura è diretta  da uno o tre commissari liquidatori che nell’esercizio delle loro funzioni sono assimilati ai  pubblici ufficiali (articoli  198 e  199 comma 1 della  legge fallimentare ). Questi sono controllati dall’autorità amministrativa.

  15. Nel corso della procedura di liquidazione coatta amministrativa, nessun creditore può iniziare davanti alle giurisdizioni  azioni  individuali esecutive dirette ad aggredire direttamente il patrimonio della società debitrice (articoli  201 e 51 legge fallimentare). Tutti i crediti, compresi i  privilegiati, devono essere prima di tutto verificati secondo la procedura definita dagli articoli 207 e 209 legge fallimentare, qui di seguito riportati nelle loro parti pertinenti :

“Entro un mese dalla nomina, il commissario comunica a ciascun creditore (…..) le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa…(…..) Entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata, i creditori (…..) possono far pervenire al commissario  le loro osservazioni o istanze ”.

“(…..)  entro novanta giorni il commissario  forma l’elenco dei crediti ammessi  o respinti  … e lo deposita nella cancelleria del tribunale . (…..)  Col deposito in cancelleria, l’elenco diventa  esecutivo”.

  16. I(l) commissari(o) si incarica(no) poi della liquidazione dell’attivo (articoli 210 e 211 legge fallimentare)  e della ripartizione tra i creditori della somme ricavate  (articolo 212  legge fallimentare). I creditori che hanno un diritto di prelazione, detti privilegiati sono  pagati per primi. I creditori chirografari si soddisferanno sul  resto dell’attivo. Secondo il principio dell’uguaglianza dei creditori (par condicio creditorum) quest’ultimi parteciperanno alla ripartizione dell’attivo e saranno pagati proporzionalmente all’ammontare  dei loro rispettivi crediti (articoli 52 primo comma e 111, 3) legge fallimentare).

  17. Ex art. 213 legge fallimentare il bilancio finale della liquidazione e il piano di riparto tra i creditori vengono depositati nella cancelleria del tribunale. Entro venti giorni dalla comunicazione del deposito,  i creditori hanno la facoltà di contestare il bilancio e il piano di riparto davanti al tribunale civile (paragrafo 2 dell’articolo 213 precitato).

 

IN DIRITTO

 

            I. Sulla lamentata  violazione dell’articolo  1 del Protocollo N° 1

  18. Il ricorrente lamenta che l’impossibilità prolungata di recuperare il suo credito, in ragione della lentezza delle operazioni di liquidazione della società Colombo, si sostanzia in una violazione del diritto al rispetto dei suoi beni, come garantito dall’art. 1 del Protocollo N° 1.Tale norma così dispone:

“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

 

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.

 

  19. Il Governo sostiene che la procedura di liquidazione coatta amministrativa  di una compagnia di assicurazioni non può terminare in un breve lasso di tempo. Prima di procedere alla ripartizione definitiva dell’attivo il commissario deve aspettare la conclusione di tutte le numerose procedure civili pendenti di cui la compagnia assicuratrice è parte. Egli deve quindi recuperare tutti i crediti, nei confronti dei debitori della società. In effetti, a differenza della procedura di  fallimento, la liquidazione coatta amministrativa permette di intentare o di continuare i processi relativi alle assicurazioni obbligatorie sui veicoli a motore. Si tratta di  migliaia di controversie, per le quali i danni sono rimborsati dal fondo di garanzia. Questo fondo può successivamente sostituirsi alle persone danneggiate per ottenere il pagamento da parte della società di assicurazione in liquidazione coatta amministrativa. Ne consegue che prima della fine dell’ultimo processo in materia di assicurazione obbligatoria, il commissario liquidatore non può conoscere l’ammontare  da iscrivere nel passivo e non può conseguentemente chiudere la procedura di liquidazione. La durata di questa è dunque direttamente condizionata dalla lunghezza delle altre procedure giudiziarie.

  20. Il Governo fa tuttavia osservare che nella specie l’impossibilità di pagare il credito del ricorrente non è dovuta alla durata della procedura, ma all’insufficienza dell’attivo realizzato. L’ammontare totale dei debiti della società Colombo supera in effetti venti miliardi di lire italiane  A questa somma devono aggiungersi gli interessi e le somme che saranno richieste dal fondo di garanzia. L’attivo della compagnia, per contro, è costituito da una liquidità di circa  350 milioni di lire   e di alcuni immobili del valore di circa un  miliardo e cinque cento milioni  di lire  e che, malgrado i numerosi tentativi di vendita all’asta, non sono stati venduti. Tenuto conto del fatto che una parte dell’attivo dovrà essere utilizzato per pagare le spese della procedura e gli altri creditori che hanno priorità su ricorrente, il credito di quest’ultimo probabilmente non potrà essere pagato.

  21. Il ricorrente eccepisce che,  in ragione di questa durata irragionevole, l’ingerenza sul suo diritto di proprietà è sproporzionata. Egli sottolinea che l’esistenza di numerose procedure  nelle quali la società Colombo è parte non giustificherebbe la durata globale della procedura di liquidazione. In effetti, se queste procedure fossero state condotte con diligenza sarebbero potute terminare prima.

  22. Il ricorrente  osserva infine che l’insufficienza dell’attivo a soddisfare il suo credito  è principalmente dovuta al fatto che la Società Colombo è stata autorizzata a continuare la sua attività malgrado la difficile situazione finanziaria.

 

      ACirca l’esistenza di un “bene”  ai sensi dell’art. 1

  23. Secondo la giurisprudenza degli organi della Convenzione, un guadagno futuro costituisce un “bene” ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n°1 se il guadagno è stato acquisito o fatto oggetto di un credito esigibile (ricorso Ambruosi contro Italia 19-10-2000, non pubblicata, § 20; vedi anche Storksen contro Norvegia, ricorso  n° 19819/92, decisione della  Commissione 5-7-94, Decisioni e rapporti (DR) 78-B, pp. 88-89 e 94-95).

  24. Nella specie la Corte osserva che il ricorrente ha lavorato come consulente  della società Colombo e che il commissario liquidatore ha riconosciuto l’esistenza del credito del ricorrente nell’elenco dei crediti (paragrafi 8 e 10 sopra). In queste circostanze la Corte riconosce che il ricorrente è titolare di un “bene” ai sensi dell’art 1 del Protocollo n° 1.

 

      BSull’esistenza di un ingerenza

  25. La Corte giudica che vi è stata un ingerenza sul diritto di proprietà del ricorrente siccome garantito dall’art 1 del Protocollo n.1. In effetti, dopo l’adozione della procedura di liquidazione coatta amministrativa il suo “bene” è stato amministrato da un organo dello Stato e l’interessato si è trovato, per un certo periodo di tempo, nell’impossibilità di esigere il pagamento del suo credito.

 

      C. La norma applicabile

  26. L’art. 1 del Protocollo n.1, che garantisce in sostanza il diritto di proprietà, contiene tre norme distinte (sentenza  James + altri contro Regno Unito del 21 febbraio 1986 , serie A n° 98, pp. 29-30, § 37, e Immobiliare Saffi contro Italia [GC], n° 22774/93 § 44, CEDH 1999-V): la prima, che  è espressa nella prima frase del  primo comma e riveste un  carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, che figura nella seconda  frase dello stesso comma, prevede  la privazione  della proprietà e la sottopone certe condizioni; quanto alla terza, collocata nel secondo comma, essa  riconosce agli Stati contraenti il potere, tra gli altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale. La seconda e la terza norma che disciplinano   situazioni particolari di attentato al diritto di proprietà, devono interpretarsi alla luce del principio consacrato dalla prima (sentenza  Air Canada contro Regno Unito del 5 maggio 1995  serie A n° 316-A, pag. 15 § 30).

  27. La Corte rileva che non vi è stato nella specie né espropriazione  di fatto né trasferimento di proprietà, giacché il diritto del ricorrente a recuperare il suo credito non è mai stato messo in dubbio. L’applicazione della procedura di liquidazione amministrativa si riassume nella regolamentazione dell’uso dei beni. Il secondo comma dell’art. 1 del Protocollo n° 1 ha influenza dunque in questo caso. 

 

      D. Il rispetto delle condizioni del secondo comma

   I. Scopo dell’ingerenza

  28. La Corte riconosce che la procedura di liquidazione coatta amministrativa  mira ad assicurare una gestione equa dei beni dell’impresa  in liquidazione, in modo da garantire una protezione identica per tutti i creditori. Ne consegue che l’ingerenza in questione persegue uno scopo legittimo conforme all’interesse generale, cioè  una buona amministrazione della giustizia e la protezione dei diritti altrui.

   II. Proporzionalità dell’ingerenza  

  29. La Corte ricorda che un provvedimento di ingerenza, segnatamente quello di cui si rileva al secondo paragrafo dell’art. 1, deve avere riguardo ad   un “giusto equilibrio” tra gli imperativi   dell’interesse generale e quelli della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. La ricerca di un  simile  equilibrio si riflette nella struttura dell’intero articolo 1, dunque anche nel secondo paragrafo: deve esistere un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo  a cui si mira. Controllando il rispetto di questa esigenza, la Corte riconosce allo Stato un grande margine di apprezzamento tanto nello scegliere le modalità di messa in opera che nel giudicare se le conseguenze siano legittime, nell’interesse generale, nella preoccupazione di raggiungere l’obiettivo della legge in causa (sentenze  Chassagnou + altri c/ Francia [GC], n° 25088/94, 28331/95, § 75, CEDH 1999-III, e Immobiliare Saffi c/ Italia, già cit., § 49).

  30. La Corte reputa   che un sistema di sospensione temporanea del pagamento  dei crediti di un’ impresa in liquidazione coatta amministrativa  non è criticabile in sé, considerato in particolare il margine di apprezzamento autorizzato dal secondo paragrafo dell’articolo 1. Tuttavia, un tal sistema comporta il rischio di imporre ai creditori un carico eccessivo quanto alla possibilità di recuperare i loro beni e deve dunque prevedere alcune garanzie di procedura per vigilare a che la messa in opera del sistema e la sua incidenza sul diritto di proprietà dei singoli non siano né arbitrari né imprevedibili (vedere, mutatis mutandis, sentenza Immobiliare Saffi c/ Italia, già citata, § 54).

  31. Ora, la Corte fa osservare che il sistema italiano soffre di una certa rigidità: in effetti, una volta iniziata la procedura di liquidazione coatta amministrativa  nessun creditore può introdurre davanti alle giurisdizioni giudiziarie domande individuali esecutive dirette ad attaccare direttamente il patrimonio della società debitrice; tutti i crediti, anche quelli privilegiati, devono essere verificati dai commissari liquidatori (par. 15). Solo il deposito, da parte di questi ultimi, del bilancio finale della liquidazione e del piano di riparto apre ai creditori la possibilità di contestare, davanti al tribunale civile, le somme che sono state accordate (par. 17).  I creditori non dispongono di nessun mezzo effettivo per controllare l’attività dei commissari liquidatori o per sollecitare lo svolgimento dei compiti che sono a loro attribuiti.

 

  32. La Corte deve tuttavia verificare se, tenuto conto dello stato finanziario della società Colombo e delle circostanze particolari nel caso di specie, la durata della procedura di liquidazione coatta amministrativa  ha violato il diritto di proprietà del ricorrente.

  33. Il Governo ha indicato che i debiti della Società Colombo superano notevolmente l’attivo della compagnia, costituito principalmente da alcuni immobili la cui vendita è difficoltosa (paragrafo 20 sopra). Il ricorrente non contesta l’insufficienza dell’attivo a soddisfare il suo credito, si limita ad osservare che questa situazione sarebbe  dovuta al fatto che la compagnia di assicurazione è stata autorizzata a continuare la sua attività malgrado la sua difficile situazione finanziaria (paragrafo 22 sopra).

  34. Alla luce di quanto su detto, la Corte reputa  che la causa principale del ritardo nel pagamento del credito del ricorrente non è la lunghezza o la natura della procedura di liquidazione, ma piuttosto la mancanza di risorse finanziarie del debitore e la difficoltà di recuperare i suoi crediti, circostanze che non si saprebbe come addebitare  a carico dello Stato. Quest’ultimo non ha infranto , nel caso di specie,  l’equilibrio che deve esistere in materia tra la  protezione del diritto dei singoli  al rispetto dei beni e le esigenze dell’ interesse generale.

Di conseguenza, non c’è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.

 

 

II. Sulla pretesa   violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione

  35. Il ricorrente lamenta un impedimento al suo diritto di accesso ad un tribunale. Esso invoca l’art. 6 § 1 della Convenzione, qui di seguito riportato nelle sue parti essenziali:

“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata(...)  da un tribunale (...) che si pronuncerà (...)   sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile.”

  36. Il Governo sottolinea innanzitutto che la liquidazione coatta amministrativa   è una procedura alternativa al fallimento, prevista specialmente per le imprese in cui l’attività rileva una funzione di interesse generale (banche, società di assicurazioni, società cooperative). La liquidazione è gestita da un commissario nominato da un’autorità amministrativa. Contro gli atti  del commissario è ammesso ricorso davanti la giurisdizione civile.

  37. Il Governo sottolinea poi che il ricorrente non si è opposto all’elenco  dei crediti (paragrafo 11 sopra). Di conseguenza non ci sarebbe stata  “controversia”  ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione e questa disposizione non sarebbe  stata violata.

 

  38. Il ricorrente ricorda  che secondo la giurisprudenza della Corte, l’articolo 6 della Convenzione si applica alle procedure di esecuzione e sostiene che la liquidazione coatta amministrativa sarebbe  comparabile ad un processo di esecuzione. Egli egualmente sostiene che non ha potuto adire nessuna giurisdizione per recuperare il suo credito in pendenza della procedura amministrativa. Il ricorrente sottolinea infine che le azioni giudiziarie nei confronti  degli atti del commissario hanno il  fine di sottoporre tali atti ad un controllo sotto il profilo della legittimità da parte dei tribunali. Tuttavia, queste non permettono di ottenere il pagamento dei crediti o di accelerare  la procedura di liquidazione.

  39. La Corte osserva che l’essenza della doglianza del ricorrente si fonda sull’impossibilità di presentare  ad un’istanza  nazionale, prima del deposito dell’elenco  dei crediti, una domanda di pagamento delle somme dovute o di contestare gli atti del commissario liquidatore. Perciò, la Corte  reputa che sia  più indicato esaminare questa doglianza sotto il profilo  dell’obbligazione più generale,  che l’articolo 13 della Convenzione fa ricadere sugli Stati, di offrire un effettivo ricorso che permetta di lamentarsi delle violazioni della Convenzione (vedere, mutatis mutandis, sentenza Aksoy c. Turchia del 18 dicembre 1996, Recueil  1996-VI, pp. 2285-2286, §§ 92-94).

 

III. Sulla violazione dell’art. 13 della Convenzione

  40. L’articolo 13 della Convenzione così recita:

Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

 

  41. A norma della giurisprudenza della Corte, l’articolo 13 garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso che permetta di far valere i diritti e le libertà  della Convenzione così come vi si possono trovare consacrati. Questa disposizione impone di conseguenza la previsione, per i reclami che si possono stimare  “difendibili” in base alla Convenzione od ai suoi Protocolli, di un ricorso interno che abiliti l’istanza nazionale competente a conoscere il contenuto del ricorso  e ad offrire una riparazione appropriata , anche se gli Stati contraenti  godono di un certo margine di apprezzamento  circa le modalità con le quali conformarsi agli obblighi loro derivanti da questa disposizione. La portata dell’obbligo derivante dall’artico 13 varia in funzione della natura della doglianza   che il ricorrente fonda sulla Convenzione. Tuttavia il ricorso richiesto deve essere “effettivo” nella pratica come  in diritto, e il suo esercizio non deve essere mai ostacolato in modo ingiustificato dagli atti o omissioni delle autorità dello Stato convenuto (sentenze Aydin c. Turchia del 25 settembre 1997, Recueil 1997-VI, p. 1895, § 103, e Kaya c. Turchia del 19 febbraio 1998,Recueil 1998-I, pp. 329-330, § 106; quanto al carattere “difendibile” della doglianza  fondata sulla Convenzione,  vedere le sentenze Boyle e Rice c. Regno Unito del 27 aprile 1988, serie A n. 131, p. 23, § 52, e Powell e Rayner c. Regno Unito del 21 febbraio 1990, serie A n. 172, p. 14, § 31).

  42. Nella specie, il ricorrente aveva una doglianza  difendibile sotto l’aspetto dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.

  43. Egli aveva  dunque diritto di sottoporre la  sua doglianza  ad un’istanza nazionale capace di offrirgli una riparazione  appropriata. Tuttavia, in seguito all’adozione della  procedura di liquidazione coatta amministrativa ,  durante almeno sedici anni e sei mesi , il ricorrente non ha potuto adire alcuna autorità per far valere il suo diritto di recuperare il credito o per contestare gli atti  del commissario liquidatore, non disponendo allo stesso tempo di alcun mezzo  effettivo per sollecitare l’esame del suo fascicolo .

  44. Da questo fatto, la Corte stima che le regole fondanti la  liquidazione coatta amministrativa , insieme alla lunghezza della verifica dell’elenco  dei crediti, hanno ostacolato in modo ingiustificato il diritto del ricorrente di disporre di un ricorso “effettivo” ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione.

Di conseguenza c’è stata violazione di questa disposizione.

 

IV. Sull’applicazione dell’art. 41 della Convenzione

  45. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,

 “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.

A.     DANNO

  46. Il ricorrente pretende di  aver subito un danno morale in ragione della durata della procedura di liquidazione coatta amministrativa  e richiede il versamento della somma di 45.000.000 di lire italiane , cioè la metà del suo credito. Quanto al danno materiale, egli osserva che dal 1984 la svalutazione della moneta è stata molto forte in Italia. Secondo i calcoli del ricorrente il valore attuale del suo credito è di lire   179.797.670. Egli domanda, pertanto,  il riconoscimento della somma di lire  90.554.690, risultante dalla differenza tra il valore attuale del credito e il capitale originale.

  47. Il Governo non ha formulato osservazioni a questo proposito.

  48. La Corte osserva che l’ammontare  di lire italiane   90.554.690, domandato dal ricorrente a titolo di danno materiale, è oggetto della procedura nazionale di liquidazione coatta amministrativa, la quale era , alla data delle ultime informazioni, ancora pendente. La Corte non saprebbe  prevedere, in questo stadio, i risultati ai quali questa procedura potrà pervenire e sottolinea che in ogni stato della causa la violazione della Convenzione non condiziona, in sé, la formazione dell’elenco  dei crediti da parte del commissario liquidatore e che il ricorrente potrà eventualmente beneficiare di una somma per compensare la svalutazione della moneta. D’altronde, la Corte stima che il ricorrente ha subito un torto morale certo. In considerazione delle circostanze della causa e statuendo  in via equitativa come previsto dall’articolo 41 della Convenzione, essa decide di accordargli  30.000.000 di lire italiane.

B.     COSTI E SPESE LEGALI

  49. Il ricorrente sollecita il rimborso dei costi e delle spese legali per la procedura dinnanzi agli organi della Convenzione. Egli domanda  7.344.000 di lire italiane.

  50. Il Governo non ha formulato osservazioni in materia.

  51. La Corte delibera secondo equità come previsto dall’articolo 41 della Convenzione e tenuto conto del fatto che il ricorrente, che è avvocato, ha agito in proprio davanti agli organi della Convenzione, gli assegna la somma di  1.500.000 di lire italiane per costi e spese legali  (vedi  sentenza  Saccomanno c. Italia del 12 maggio 1999, ricorso N° 36719/97, § 33, non pubblicata).

C.     INTERESSI MORATORI

  52. Secondo le informazioni di cui dispone la Corte, il tasso di interesse legale applicabile in Italia alla data d’adozione della presente  sentenza  è il 3,5% annuo.

 

 

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

 

 

1.       Dichiara,  per sei voti contro uno, che non c’è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1;

2.       Dichiara, , all’unanimità, che non è necessario esaminare la doglianza  formulata dal ricorrente sul terreno dell’articolo 6 § 1 della Convenzione; 

3.       Dichiara, , all’unanimità, che c’è stata  violazione dell’articolo 13 della Convenzione;

4.       Dichiara, , all’unanimità:

a)che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro i tre mesi a  decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà  divenuta  definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le somme seguenti:  30.000.000 (trenta milioni) di lire italiane per danno morale e 1.500.000 (un milione cinquecentomila) per spese legali;

b) che questi importi saranno maggiorati di un interesse semplice del 3,5 % l’anno a partire dalla scadenza di questo termine  fino al versamento; 

 

5.Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il surplus.

 

Redatta  in francese, poi comunicata per iscritto il 20 dicembre 2001, in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento.

Erik Fribergh                                                                                                                    

Cancelliere

 Christos Rozakis

Presidente                                                                                                                        

Alla presente sentenza si trova allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione  e 74 § 2 del Regolamento, l’esposizione dell’opinione dissenziente del giudice  Rozakis. 

 

 E.F.

 C.L.R.

OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE ROZAKIS

E' con grande rammarico che non posso concordare con la conclusione raggiunta dalla maggioranza nel senso della mancata violazione dell'art.1 del Protocollo 1. La sentenza segue la riga del caso Saggio contro Italia che consiste nella teoria che, poiché il debitore non aveva attivo per onorare le sue obbligazioni nei confronti del ricorrente, la ragione principale del ritardo del pagamento  non era la lunghezza o la natura della procedura di liquidazione ma la mancanza di risorse da parte della società debitrice (vedi ricorso n 41879/98, sentenza del 25 ottobre 2001, non pubblicata).

Ritengo, come feci nel su menzionato caso, che l'argomentazione della maggioranza trascura il fondamentale problema legale che e' in discussione nel presente caso, e che e' anche più chiaro nella specie di questo caso di quanto non fosse nel caso "pilota": il ricorrente aveva un credito  che non era dipendente dall’attivo del debitore, ed il suo uso era stato controllato dall'applicazione delle leggi italiane concernenti la soddisfazione dei crediti. L'applicazione di queste leggi ha prodotto un ingiusto e eccessivo ritardo nel procedimento di soddisfazione del credito privilegiato del ricorrente, che ha portato ad una lesione del diritto del ricorrente al suo credito. Benché io sia d'accordo con la maggioranza nel ritenere che il debitore aveva problemi finanziari a soddisfare tutti i crediti  dei suoi creditori, trovo che ciò sia irrilevante nella specie: credo che l'art.1 del Protocollo 1 sia stato violato perché il controllo dell'uso del credito aveva determinato ritardi che, alla fine, hanno avuto effetti nocivi per il credito – in quanto ciò incide sulla possibilità del ricorrente di reclamare tempestivamente i suoi diritti - e che hanno leso l’essenza stessa del diritto in maniera sproporzionata allo scopo perseguito.