sentenza 17 febbraio 2004

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo CASO  SOFRI ed altri  contro ITALIA 
DECISIONE del 10 GIUGNO  2003 SULLA IRRICEVIBILITA’ del Ricorso n°  37235/97.

Non ammissibilità dell’ esame nel merito delle violazioni allegate dai ricorrenti circa l’articolo 6 (diritto all’equo processo) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in un processo penale, per presunto difetto di imparzialità delle giurisdizioni nazionali; per l’iniquità della procedura relativa alla loro richieste  di  revisione del processo e l’impossibilità di ottenere l’audizione in  contraddittorio  di un testimone. Infine, sotto l’angolo dell’articolo 5 § 2 (diritto alla  libertà ed alla sicurezza), il ricorrente  Bompressi lamentava di non essere stato informato prontamente dei motivi del suo arresto.

 

(traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Corrado Quinto )

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI

QUARTA SEZIONE
DECISIONE

SULLA RICEVIBILITA

Del ricorso n° 37235/97

presentato da Adriano SOFRI e altri

contro l’Italia

La Corte Europea dei Diritti umani (quarta sezione), riunitasi il 4 marzo 2003 ed il 27 maggio 2003 in una camera composta di:

    Signor      Nicolas BRATZA, presidente,

    Signor      M. PELLONPÄÄ,

    Signora    E.  PALM,

    Signori     FISCHBACH,

                     J.CASADEVALL

                    V.ZAGREBELSKY,

                    S.PAVLOVSCHI, giudici

E dal signor M. O’BOYLE, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso sopra menzionato proposto alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo il 21 luglio 1997,

Visto l’articolo 5 § 2 del Protocollo n° 11 della Convenzione, che ha trasferito alla Corte la competenza per esaminare il ricorso,

Viste le osservazioni  sottoposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,

Viste le osservazioni esposte oralmente dalle parti all’udienza del 4 marzo 2003,

Dopo avere deliberato, pronuncia la seguente decisione:

 

FATTO

      I ricorrenti, i signori Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, sono cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1942, 1947 e 1943. Il signor Sofri è detenuto nel carcere di Pisa, il signor Bompressi beneficia di una sospensiva di esecuzione della pena per motivi di salute e il signor Pietrostefani è attualmente irreperibile. Essi sono rappresentati dinanzi alla Corte dagli avvocati B.Nascimbene e E. Menzione, del Foro di Milano. Il signor Sofri è rappresentato anche dagli avvocati A.Gamberini e M.S. Mori, avvocati rispettivamente di Bologna e Milano. Nell’udienza del 4 marzo 2003, il signor Pietrostefani era rappresentato inoltre dagli avvocati J.J.De Felice e I. Terrel avvocati di Parigi. Il Governo convenuto era rappresentato dal suo agente, U. Leanza, e dal suo coagente, F.Crisafulli.

 

A.     Le circostanze nella fattispecie

I fatti della causa, come esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.

  1. Gli eventi che hanno preceduto l’omicidio del commissario Calabresi

Il 12 dicembre 1969, a Milano, nella Banca dell’agricoltura, scoppiò una bomba. Numerose furono le vittime di questo attentato, che sembrava essere ispirato da ragioni politiche.

Le indagini furono affidate al commissario Luigi Calabresi che scartò la tesi sostenuta da certi media, secondo la quale l’estrema destra era responsabile dell’attentato, e inseguì una pista anarchica. Nel dicembre 1969, il commissario Calabresi ed i suoi collaboratori interrogarono nei locali della polizia di Milano il signor Luigi Pinelli, un impiegato della società delle ferrovie appartenente ad un gruppo anarchico. A conclusione di tale interrogatorio, il signor Pinelli precipitò dalla finestra della camera in cui si trovava e morì.

In seguito, il commissario Calabresi fu accusato, nel corso di numerose manifestazioni pubbliche organizzate dall’estrema sinistra, di essere l’assassino del signor Pinelli. Il giornale del movimento politico “Lotta continua”, diretto dai signori Sofri e Pietrostefani, pubblicò degli articoli molto duri nei riguardi del commissario Calabresi. Le azioni giudiziarie intraprese contro quest’ultimo sfociarono in un non luogo a procedere.

  1. L’assassinio del commissario Calabresi ed il processo di primo grado.

Il 17 maggio 1972, il comissario Calabresi fu assassinato a Milano da un giovane. L’assassino aveva esploso due colpi d’arma da fuoco ed era fuggito con un complice a bordo di un’auto rubata, una FIAT 125 blu. In seguito, prima di allontanarsi, avevano avuto un incidente.

Il 25 agosto 1972, l’auto utilizzata dagli assassini fu rinchiusa in un garage dalle autorità.

Cinque testimoni fornirono informazioni circa i giorni precedenti l’omicidio; diciassette testimoni fornirono elementi concernenti l’assassinio. Uno di questi testimoni, il signor G., affermò di avere visto chiaramente l’omicida e di essere in grado di  riconoscerlo. Un altro testimone asserì di aver visto due persone, un uomo e una donna, scendere da una Fiat 125 blu. Queste due persone avrebbero poi raggiunto un’altra auto dove li attendeva un altro uomo.

Furono effettuate due perizie sulla Fiat 125 e sul luogo del crimine.

Le inchieste non diedero esito alcuno.

Il 20 luglio 1988, il signor Leonardo Marino si presentò al commissariato di polizia; interrogato dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano, il 21 luglio, dichiarò di aver preso parte all’omicidio di Calabresi su ordine dei dirigenti del movimento Lotta continua, i signori Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Tale ordine sarebbe stato confermato dai due mandanti il 13 maggio 1972 dopo una riunione elettorale tenuta a Pisa. L’omicidio era stato deciso dal Comitato esecutivo dell’associazione per ragioni politiche. Il 26 luglio, il signor Marino accusò il signor Ovidio Bompressi di essere stato l’autore dell’assassinio. Precisò di averlo atteso nell’auto, una Fiat 125 blu che era stata rubata la notte precedente l’omicidio.

Su richiesta del Procuratore della Repubblica, il 28 luglio 1988, il giudice istruttore di Milano spiccò un mandato d’arresto nei confronti dei  ricorrenti, che furono arrestati lo stesso giorno. Il mandato in questione indicava il crimine per il quale erano perseguiti. Il 1°, 3, e 4 agosto 1988, i ricorrenti furono interrogati dal giudice istruttore.

Il 12 settembre 1988, i ricorrenti furono messi agli arresti domiciliari; furono rimessi in libertà il 18 ottobre 1988.

Il 9 ed il 16 settembre 1988, i ricorrenti chiesero una perizia sulla vettura utilizzata dagli assassini per rilevare eventuali tracce di impronte digitali.

Il signor Marino fu messo a confronto con il signor Sofri il 16 settembre 1988, e il 20 settembre con il signor Bompressi.

I ricorrenti negarono di aver preso parte all’omicidio e negarono l’esistenza di un Comitato Esecutivo illegale del movimento Lotta continua.

Il signor Bompressi chiese al giudice istruttore di sentire quattro persone che avrebbero potuto testimoniare che il giorno dell’assassinio egli si trovava a Massa; il giudice istruttore respinse tale richiesta.

I fascicoli del Procuratore della Repubblica contenenti gli elementi di prova raccolti a carico dei ricorrenti erano costituiti da 12.000 pagine.

Nel luglio 1989, questi fascicoli furono portati a conoscenza dei ricorrenti e dei loro avvocati, che disponevano,  secondo la legge, di dieci giorni per presentare le loro difese.

Resisi conto della rilevante mole di documenti da esaminare, i ricorrenti chiesero al giudice istruttore una proroga di tale termine; il giudice accolse questa richiesta ed il termine fu portato a 26 giorni.

Il 5 agosto 1989, i signori Marino, Sofri, Pietrostefani e Bompressi furono rinviati a giudizio per omicidio volontario premeditato dinanzi alla Corte d’Assise di Milano. I signori Marino, Bompressi e Pietrostefani, insieme ad altri imputati, furono ugualmente rinviati a giudizio per alcune rapine a mano armata.

La prima udienza si tenne il 27 novembre 1989. Nel corso di 26 udienze, furono sentiti 159 testimoni, tra i quali il signor Marino e gli altri quattro testimoni indicati da Bompressi nel corso delle indagini preliminari.

Marino dichiarò, in particolare, di essersi messo in contatto con i carabinieri almeno 19 giorni prima della data della sua deposizione ufficiale (20 luglio 1988) e precisò che il 13 maggio 1972 solo Sofri era presente alla riunione elettorale di Pisa.

Nel corso del processo di primo grado, si constatò che alcuni elementi di prova concernenti l’omicidio non erano disponibili. In particolare, i vestiti del commissario Calabresi erano stati smarriti subito dopo l’omicidio, essendo stati consegnati prima al Prefetto di Milano e subito dopo spariti. Il 31 dicembre 1988, l’autovettura Fiat 125 utilizzata dagli assassini era stata distrutta. In seguito era stata cancellata dal Pubblico Registro Automobilistico  non essendo stata pagata la tassa di circolazione per il periodo 1978-1983.

I proiettili ritrovati sul cadavere del commissario Calabresi erano spariti dopo il mese di luglio del 1988. Da un’ordinanza del tribunale di Milano  del 5 aprile 1979 risulta che tutti gli oggetti che sono stati utilizzati per commettere dei crimini (corpi di reato) e conservati da più di dieci anni dovevano essere confiscati. Gli oggetti aventi un valore commerciale dovevano essere venduti all’asta, gli altri dovevano essere distrutti. Questa ordinanza fu confermata da una nota del Presidente del tribunale del 15 febbraio 1989. Il 7 aprile 1989, il Presidente del tribunale, osservando che parecchi oggetti utilizzati per commettere crimini e conservati negli archivi del tribunale erano stati danneggiati seriamente da alcune infiltrazioni di acqua, ordinò la loro distruzione. In una nota del 12 febbraio 2001, il direttore dell’ufficio incaricato della custodia degli oggetti usati per commettere crimini, attestò che i proiettili rinvenuti nel cadavere del commissario Calabresi erano stati distrutti, insieme ad altri oggetti, in ottemperanza alle ordinanze sopra menzionate.

Il 2 aprile 1990, gli avvocati dei ricorrenti presentarono un comunicato in cui esprimevano il loro rincrescimento per la distruzione o smarrimento degli elementi di prova. Sottolinearono, in particolare, che alcune analisi sui vestiti del commissario Calabresi avrebbero potuto determinare la potenza della cartuccia e chiarire se l’arma usata fosse stata lunga o corta. Si sarebbe potuto effettuare una perizia balistica sui proiettili. Quanto all’auto, sarebbe stata utile per provare se le modalità del suo furto corrispondevano a quelle descritte dal signor Marino.

Con una sentenza del 2 maggio 1990, la Corte d’Assise di Milano condannò i ricorrenti a una pena di ventidue anni di carcere. Il signor Marino fu condannato a undici anni di carcere, gli furono riconosciute circostanze attenuanti in ragione della sua collaborazione con le autorità giudiziarie.

La Corte d’Assise giudicò che il signor Marino fosse intrinsecamente ed estrinsecamente credibile, e che le sue dichiarazioni erano state confermate da numerosi elementi, quali le perizie effettuate nel corso delle indagini e del processo, i risultati delle indagini della polizia, le dichiarazioni dei testimoni. La Corte ritenne invece che i numerosi testimoni a discarico fossero interessati o mancassero di precisione, e non fossero perciò credibili.

Quanto alla distruzione di certi elementi di prova, la Corte d’Assise osservò che questa circostanza era indubbiamente spiacevole, ma che essa non aveva avuto alcuna influenza effettiva sull’insieme del materiale acquisito a carico degli imputati nel corso dell’istruttoria e dei dibattimenti. Infatti, subito dopo l’omicidio, la polizia aveva eseguito delle analisi sull’auto utilizzata dagli assassini e i proiettili avevano costituito l’oggetto di due perizie balistiche approfondite. Certo, la distruzione impediva di  rifare le perizie e le analisi. Tuttavia, nuove perizie sarebbero state auspicabili solo se fossero state utili per stabilire i fatti. Nella fattispecie, i ricorrenti affermavano, per esempio, che un esame dell’auto avrebbe potuto stabilire se, come affermava Marino, lo specchietto retrovisore esterno fosse stato manomesso con un cacciavite (circostanza che non era menzionata nei processi verbali redatti dalla polizia). Ora, pur supponendo che le tracce in questione potessero essere rilevate diciotto anni dopo l’accaduto, la mancanza di una conferma esterna alle affermazioni di Marino, di per sé, non poteva mettere in dubbio le dichiarazioni del pentito.

Se, alla luce del materiale a disposizione, queste ultime erano ritenute precise e credibili, potevano, a giusto titolo essere utilizzate per fondare una condanna.

Il Presidente della Corte d’Assise di Milano, Manlio Minale, era stato assegnato all’ufficio del Procuratore della Repubblica di Milano il 24 gennaio 1990. Il signor Minale aveva assunto le sue nuove funzioni l’11 ottobre 1990, cioè prima di firmare il testo della sentenza della Corte d’Assise di Milano, depositata in cancelleria l’11 gennaio 1991.

  3.   La procedura d’appello

Il secondo e il terzo ricorrente proposero appello contro questa sentenza, contestando in particolare la credibilità del signor Marino e affermando che le sue dichiarazioni nascondevano numerose contraddizioni.

Il signor Bompressi chiese che fossero ritrovati i vestiti di Calabresi e che fossero prodotti i risultati delle indagini condotte da Calabresi prima della sua morte; sollecitò, inoltre, una perizia balistica per determinare il tipo d’arma da fuoco utilizzata per l’assassinio e la riapertura dell’istruttoria.

Il signor Pietrostefani eccepì la nullità dell’ordinanza di rinvio a giudizio, rilevando che gli imputati avevano avuto a disposizione solo 26 giorni per preparare la loro difesa, mentre la mole di documenti e di atti richiedeva un tempo più lungo. Chiese inoltre che fosse riaperta l’istruttoria.

Il signor Sofri non presentò appello. Tuttavia, la sua posizione fu presa in esame nel corso del processo dinanzi alla Corte d’Assise d’appello di Milano e nei successivi gradi di giurisdizione in virtù dell’articolo 587 § 1 del codice di procedura penale (di seguito, il CPP), che prevede “Estensione dell’impugnazione”, vedere di seguito, sotto “Diritto interno pertinente”):

Il 23 aprile 1991, il signor Pietrostefani chiese di trasferire il processo dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di un’altra città. Fece notare che la vittima aveva lavorato a Milano ed addusse che il clima politico in questa città era ostile agli imputati. Eccepì, inoltre, la mancanza d’indipendenza dei giudici di Milano, poiché al momento di firmare il testo della sentenza di primo grado, il  signor Minale aveva assunto le sue funzioni nella Procura della Repubblica.

Con una sentenza del 13 maggio 1991, il cui testo fu depositato in cancelleria il 31 maggio 1991, la Corte di Cassazione respinse questa domanda, osservando che, in seno alla magistratura milanese, non si sarebbe rilevato alcun segno di pregiudizio di natura politica o ideologica. Giudicò ,inoltre, che se, come pretendeva Pietrostefani, la destinazione del giudice Minale fosse stata decisa per penalizzare gli imputati, il pregiudizio contro questi ultimi avrebbe interessato parimenti  il Consiglio Superiore della Magistratura, e ciò rendeva inutile il trasferimento del processo dinanzi alla Corte d’Assise di una città diversa da Milano.

Nel corso del processo d’appello, la Corte d’Assise d’Appello ordinò di fare nuove perizie balistiche; queste furono tuttavia effettuate su fotografie, essendo stati distrutti, nel frattempo, i proiettili rinvenuti nel cadavere del commissario Calabresi.

Con una sentenza del 12 luglio 1991, il cui testo fu depositato in cancelleria l’8 gennaio 1992, la Corte d’Assise d’Appello di Milano confermò la decisione di primo grado. Considerò che il signor Marino era stato indotto a confessare il suo crimine da un sincero pentimento; le sue dichiarazioni erano d’altronde credibili e corroborate da altri elementi di prova, in particolare da alcuni documenti e dalle dichiarazioni di altri testimoni. La Corte d’Assise d’Appello giudicò inoltre che, tenuto conto del contenuto di certi articoli apparsi nel giornale di Lotta Continua, il movente dell’omicidio era stato chiaramente accertato.

  1. Il primo processo in Cassazione.

Il secondo ed il terzo ricorrente presentarono ricorso in Cassazione. Essi rilevarono, in particolare, che la motivazione della sentenza del 12 luglio 1991 era illogica e che la credibilità intrinseca ed estrinseca del signor Marino non era stata affatto dimostrata.

 Il 15 luglio 1992, il caso fu rinviato dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Con una sentenza del 21 ottobre 1992, il cui testo fu depositato in cancelleria il 22 febbraio 1993, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione annullarono, per motivazione illogica, la parte della sentenza d’appello concernente il capo d’accusa di omicidio contro i due ricorrenti che avevano proposto ricorso in Cassazione, ed indicò la Corte d’Assise d’Appello di Milano come giudice del rinvio. In virtù “dell’estensione” prevista dall’articolo 587 § 1 del CPP, si applicò questa decisione anche al signor Sofri.

La Corte di Cassazione considerò, in particolare, che il giudice d’appello aveva fondato la sua decisione sulla credibilità intrinseca del signor Marino, credibilità che non era stata dimostrata. Fece presente  che la credibilità di un ex complice deve essere stabilita in relazione ai seguenti elementi: le sue condizioni sociali, economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con gli ex complici , la genesi - lontana e recente – della decisione di confessare e di accusare  i complici. Poi, bisogna esaminare la coerenza intrinseca delle sue dichiarazioni sulla base dei criteri elaborati dalla giurisprudenza, in particolare la precisione, la coerenza, la costanza e la spontaneità.

Solo dopo averne stabilito la credibilità, il giudice deve esaminare gli elementi che confermano le dichiarazioni dell’ex complice (riscontri).

5.      Il primo processo dinanzi il giudice di rinvio

Con una sentenza del 21 dicembre 1993, il cui testo fu depositato in cancelleria il 23 marzo 1994, la seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, presieduta dal signor Gnocchi, prosciolse i due ricorrenti che avevano proposto appello, e per “estensione”, i signori Sofri e Marino.

Il testo della sentenza, redatto dal signor Pincioni e composto di 387 pagine, teneva conto degli elementi che dimostravano la sincerità del pentimento, la mancanza d’intenzione da parte sua di accusare ingiustamente i ricorrenti, la mancanza di odio nei loro confronti, l’inesistenza di un complotto contro i ricorrenti. Questo induceva a pensare che il signor Marino fosse, a priori, credibile. La sentenza procedeva quindi, come aveva indicato la Corte di Cassazione, ad esaminare la coerenza intrinseca delle dichiarazioni del signor Marino e concludeva affermando che la sua confessione non era dovuta ad alcuna costrizione o condizionamento psichico, tanto più che egli non era accusato o perseguito per nessun altro reato e che, di conseguenza, non aveva alcun interesse ad accusare i ricorrenti. Il signor Marino era stato preciso e coerente, malgrado alcune contraddizioni dovute senza dubbio al tempo trascorso dall’assassinio ed alla pressione psicologica alla quale era stato sottoposto. Bisognava, peraltro, tener conto della differenza culturale esistente tra il signor Marino ed i signori Sofri e Pietrostefani, e delle difficoltà  incontrate al momento in cui era stato chiamato a rispondere alle numerose domande poste dai ricorrenti. Quanto agli elementi a conferma delle dichiarazioni del signor Marino, l’esistenza di un Comitato Esecutivo illegale di Lotta Continua doveva essere ritenuta accertata; d’altronde parecchie asserzioni del signor Marino corrispondevano ai risultati delle indagini di polizia ed erano compatibili con le versioni di numerosi testimoni. Quanto in particolare all’assenza di impronte digitali all’interno dell’auto utilizzata dagli assassini, questa circostanza si spiegava per il fatto che le parti che avrebbero potuto essere toccate non erano lisce.

Ciononostante, nelle sue cinque pagine, la sentenza del 21 dicembre 1993 si occupò di sei circostanze di fatto, che non erano sufficientemente confermate da altri elementi, e che costituivano dei “punti oscuri” nella versione del pentito. Tali circostanze erano in particolare:

1)      il fatto che il signor Marino si era sbagliato nell’indicazione del colore dell’auto utilizzata per commettere l’omicidio;

2)      il fatto che nelle sue prime dichiarazioni non aveva precisato di conoscere un certo “Luigi”, persona che l’avrebbe aiutato nella preparazione dell’omicidio e nel furto dell’autovettura FIAT 125;

3)      il fatto che il signor Marino affermava che l’incidente stradale accaduto subito dopo l’omicidio aveva avuto luogo in un parcheggio, mentre un testimone oculare indicava un  luogo diverso;

4)       il fatto che il signor Marino affermava di aver percorso un tratto di strada a retromarcia poco prima dell’omicidio, dichiarazione smentita da testimoni oculari;

5)       il fatto che certe testimonianze indicavano che l’auto degli assassini era guidata da una donna, e non dal signor Marino (tale circostanza era confermata dal fatto che nell’auto in questione la polizia aveva trovato degli occhiali da donna);

6)       il fatto che il signor Marino non si ricordava di certi oggetti trovati nell’auto e non appartenenti

       al proprietario della stessa.

Le circostanze sopra citate impedivano di concludere che la versione del signor Marino era sufficientemente corroborata da altri elementi, in modo che la presenza del pentito a Milano il giorno dell’omicidio non poteva essere ritenuta dimostrata. Poiché non si poteva stabilire la colpevolezza del signor Marino, le sue dichiarazioni dovevano essere giudicate non credibili anche nella misura in cui esse riguardavano azioni commesse presumibilmente dai ricorrenti. Perciò non era necessario prendere in considerazione la parte della versione del pentito concernente la responsabilità dei ricorrenti.

I ricorrenti dichiarano che il signor Pincioni era un giudice contrario al verdetto di assoluzione pronunciato in loro favore dalla seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Con una lettera del 10 ottobre 2001, la cancelleria della Corte (europea n.d.t.) ha invitato il governo convenuto a indicare se questa affermazione era corretta e a motivare la sua risposta su ogni documento pertinente.

Con una nota del Ministero della Giustizia del 19 novembre 2001, il Governo ha indicato che al termine delle decisioni della Corte d’Assise di Milano, composta, fra gli altri, dal signor Pincioni, il Presidente di quest’ultima aveva depositato in cancelleria, come previsto dall’articolo 125 § 5 del CPP, una busta sigillata e firmata, contenente un processo verbale che indicava il nome del o dei giudici dissidenti e la o le questioni cui il disaccordo si riferiva. Il Governo fa rilevare che l’esistenza stessa del plico in questione dimostra che almeno uno dei membri della Corte d’Assise d’Appello di Milano era contrario al verdetto di assoluzione. Il nome o i nomi del o dei dissidenti non possono tuttavia essere svelati se non aprendo il plico sigillato. Ciononostante, il Governo italiano ritiene che quest’ultimo non può essere trasmesso alla Corte poiché:

1)      l’apertura del plico mira unicamente a proteggere il magistrato dissenziente contro un’eventuale azione giudiziaria per errore professionale;

2)      l’articolo 16 § 5 della legge n° 117 del 1998 (legge sulla responsabilità civile dei magistrati) prevede che il plico sia trasmesso al tribunale dinanzi al quale il Primo Ministro avrebbe convenuto in giudizio i magistrati che hanno pronunciato la decisione per ottenere il rimborso della somma versata a titolo di risarcimento alla parte lesa.

Secondo il Governo, le disposizioni interne che prevedono la possibilità di violare il segreto di una camera di consiglio avrebbero natura eccezionale e non potrebbero prestarsi ad una interpretazione estensiva per analogia.

I ricorrenti si oppongono alla tesi del Governo e ritengono inaccettabile il rifiuto di trasmettere il plico in oggetto alla Corte. Così facendo, le autorità italiane impedirebbero agli organi della Convenzione l’accesso al solo documento che potrebbe provare un punto essenziale delle loro affermazioni.

Il 7 aprile 1994, il signor Sofri sporse denuncia contro il signor Pincioni. Fece rilevare che il giudice aveva redatto una “sentenza suicida” che si dilungava su 382 pagine sugli elementi a sostegno della colpevolezza dei ricorrenti e solo su 5 pagine sugli elementi di dubbio che avevano indotto la Corte d’Assise d’Appello ad assolverli.

La Procura di Brescia chiese che questa querela fosse definitivamente archiviata. Rilevò, in particolare, che le rimostranze del signor Sofri concernevano l’esercizio di funzioni giurisdizionali da parte di un magistrato della Corte d’Assise d’Appello. Gli errori che quest’ultimo poteva aver commesso nella redazione della sentenza non costituivano reato penale; essi potevano, all’occorrenza, essere denunciati nel quadro di un ricorso contro la sentenza in questione. Con un’ordinanza del 12 maggio 1994, il giudice delle indagini preliminari di Brescia accolse favorevolmente la richiesta della Procura.

Con riferimento a questa decisione, il signor Sofri reagì osservando che non aveva presentato ricorso in Cassazione, né l’avrebbe presentato poiché era stato prosciolto e non condannato.

6.      Il secondo processo in Cassazione

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Milano ricorse in Cassazione contro la sentenza del 21 dicembre 1993. Addusse che la motivazione della decisione in contestazione era illogica e contraddittoria.

Con una sentenza del 27 ottobre 1994, il cui testo fu depositato in cancelleria il 20 dicembre 1994, la Corte di Cassazione annullò la sentenza del 21 dicembre 1993 per motivazione illogica, contraddittoria e insufficiente e rinviò il caso ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano.

La Corte di Cassazione rilevò che la Corte d’Assise d’Appello aveva scrupolosamente esaminato le confessioni del signor Marino, ritenendole pienamente attendibili e corroborate da altri elementi. Tuttavia, le ultime quattro pagine della controversa sentenza citavano circostanze “oscure” che avrebbero giustificato un’ assoluzione. Ora, questo procedimento era illogico e contraddittorio, tenuto conto in particolare che le suddette circostanze “oscure” erano state, in realtà, chiarite nella parte iniziale della stessa sentenza, che spiegava le ragioni per cui esse non potevano danneggiare la versione del pentito. Di talché, i dubbi avanzati riguardo l’affidabilità del signor Marino erano solo apparenti e non si fondavano su alcuna ragione solida e convincente che potesse prevalere sugli elementi di colpevolezza enunciati nella prima parte della sentenza. La Corte di Cassazione criticò anche la decisione della Corte d’Assise d’Appello di non esaminare la parte delle dichiarazioni del pentito che riguardava la responsabilità dei ricorrenti.

7.      Il secondo processo davanti a giudice di rinvio

Con una sentenza dell’11 novembre 1995, il cui testo fu depositato in cancelleria il 20 aprile 1996, la terza sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, dopo avere acquisito al fascicolo d’ufficio il libro “A viso aperto” contenente un colloquio con Renato Curcio, presunto capo delle Brigate Rosse, e sentito, come testimone, uno degli iscritti a questa organizzazione, condannò i ricorrenti a ventidue anni di detenzione. Dichiarò, inoltre che, tenuto conto delle circostanze attenuanti che nella fattispecie dovevano essere riconosciute, i fatti costitutivi del reato ascritto al signor Marino erano prescritti.

La Corte d’Assise d’Appello ritenne che il signor Marino  fosse sinceramente pentito, che non provasse affatto odio o ostilità nei confronti dei ricorrenti e che non aveva alcun interesse ad accusarli. Questo testimone, le cui dichiarazioni erano coerenti, precise e costanti, era attendibile, le imprecisioni nelle sue deposizioni erano irrilevanti e riguardavano aspetti secondari dell’atto delittuoso. Il giudice di rinvio considerò che l’esistenza di un Comitato Esecutivo illegale in seno a Lotta Continua era stata pienamente dimostrata e che le dichiarazioni del signor Marino erano compatibili con gli esiti delle indagini condotte dalla polizia.

 

8.      Il terzo processo in Cassazione e le  procedure avviate dai ricorrenti contro i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano

I ricorrenti proposero ricorso per Cassazione. Essi contestavano l’attendibilità del signor Marino, facendo notare che dopo l’omicidio questo testimone, che si dichiarava sinceramente pentito, aveva continuato a commettere delle rapine a mano armata. Rilevarono inoltre numerose contraddizioni nelle sue dichiarazioni, che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Assise d’Appello, non erano state rettificate.

In seguito, X e Y, due dei giurati che avevano fatto parte della Corte d’Assise d’Appello di Milano affermarono nel corso di alcuni colloqui privati tenuti nel 1996 con  giornalisti  ed avvocati, che al termine delle deliberazioni prese in camera di consiglio, i voti erano distribuiti parimenti tra la condanna e l’assoluzione (4-4); i ricorrenti avrebbero dovuto quindi, essere dichiarati non colpevoli in virtù del principio della “soluzione più favorevole all’imputato” (articolo 473 § 4 del CPP). Il Presidente della Corte d’Assise D’Appello, il signor Della Torre, tuttavia, avrebbe incoraggiato i giurati a cambiare il loro voto per evitare di “infirmare” la sentenza e di obbligare la Procura a ricorrere in Cassazione, assicurando nello stesso tempo, che in caso di condanna, si sarebbe potuto chiedere, in seguito, la grazia per i ricorrenti. Alcuni giurati avrebbero allora proposto di riconoscere circostanze attenuanti in favore degli imputati, e ciò avrebbe permesso loro di beneficiare di una prescrizione. Il signor Della Torre tuttavia, si sarebbe ancora una volta, opposto, affermando che ciò avrebbe significato dichiararsi non convinti della colpevolezza dei ricorrenti. Due giurati avrebbero allora cambiato la loro opinione e votato per la condanna.

Essendo venuto a conoscenza di quanto affermavano i due giurati a proposito delle delibere della Corte d’Assise d’Appello di Milano, il 7 maggio 1996 il signor Sofri sporse denuncia contro il signor Della Torre per abuso di funzioni.

Il 6 giugno 1996, il Procuratore della Repubblica di Brescia aprì un’inchiesta. Il 27 ottobre 1996, il signor Sofri chiese che fosse sentita una certa signora D. che avrebbe potuto testimoniare che molto prima della conclusione del processo il signor Della Torre aveva dichiarato, nel corso di una conversazione privata, che i ricorrenti erano, senza dubbio, colpevoli. Egli chiese, inoltre, la convocazione e l’audizione di tutti i membri della seconda e della terza sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano (le due sezioni erano state incaricate, rispettivamente, della prima e della seconda procedura di rinvio).

Il 30 settembre 1996, il signor Bompressi chiese alla Corte di Cassazione di sospendere la procedura nell’attesa della fine dell’inchiesta concernente il comportamento del signor Della Torre.

Il 27 ottobre 1996, il signor Sofri chiese alla Procura di Brescia che fossero interrogati tutti i membri titolari e supplenti, della Corte d’Assise d’Appello di Milano e la signora D. Egli si riferì in particolare alla conversazione che quest’ultima aveva avuto col signor Della Torre e precisò che la signora D. aveva,  in brevissimo tempo, comunicato le affermazioni del signor Della Torre ad uno degli imputati che, a sua volta, in seguito, aveva informato i suoi coimputati e gli avvocati difensori.

Il 30 ottobre 1996, il giornale “Il corriere della sera” pubblicò, in forma anonima, le dichiarazioni di un giurato che aveva preso parte alla procedura di rinvio; queste affermazioni confermavano sostanzialmente le asserzioni del signor Sofri.

Il 7 novembre 1996, tutti i giurati che erano  riuniti nell’ambito della seconda procedura di rinvio, furono sentiti sia dal Procuratore della Repubblica di Brescia, sia dalla Polizia. Tutti questi testimoni, secondo l’articolo 201 del CPP, invocarono il diritto al silenzio sulle circostanze riguardanti la delibera presa in camera di consiglio, atto segreto secondo la legge italiana. Il Procuratore della Repubblica li invitò, pur tuttavia, a testimoniare poiché l’obbligo di tacere doveva essere superato dal dovere, che incombe su ogni persona avente cariche pubbliche, di denunciare un’infrazione penale perseguibile d’ufficio.

X e Y confermarono le loro deposizioni, X dichiarò inoltre che in occasione di un altro processo, concluso con la condanna degli imputati, il signor Della Torre si era congratulato per i voti espressi ed aveva aggiunto:“Spero che al Calabresi siano tutti come lei, che nessuno si lasci condizionare, perché l’ultima volta hanno assolto tutti, e non dovevano”.

D’altronde, risultava dalle testimonianze di Y e Z (uno dei membri supplenti della terza sezione della Corte d'Assise d'Appello di Milano) che il signor Della Torre aveva raccomandato ai giurati di leggere in particolare la sentenza redatta dal signor Pincioni e la sentenza di primo grado, e che alcuni giurati avevano trovato difficoltà a procurarsi una memoria presentata dal signor Sofri nel corso del primo processo.

L’8 novembre 1996, la signora D. fu interrogata anche dal Procuratore della Repubblica. Precisò di essere una “carissima amica” della moglie del signor Pietrostefani, il quale godeva di tutta la sua ammirazione. Secondo la signora D., durante una conversazione privata prima del processo, il signor Della Torre avrebbe dichiarato che le accuse nei riguardi dei ricorrenti erano corroborate da ulteriori elementi, che Lotta continua era un’organizzazione terrorista e che i suoi membri erano degli “scalmanati”. Alcuni giorni più tardi, la signora D. aveva informato il signor Pietrostefani del suo colloquio con il signor Della Torre, dichiarandosi nel contempo disposta a ripetere la sua versione dinanzi le autorità.

Il 16 dicembre 1996 e il 12 febbraio 1997, il Procuratore della Repubblica di Brescia sentì il signor Della Torre e il signor De Ruggiero (quest’ultimo era l’altro giudice professionale che aveva preso parte al secondo processo di rinvio dei ricorrenti).

Con una sentenza del 22 gennaio 1997, il cui testo fu depositato in cancelleria il 25 febbraio 1997, la Corte di Cassazione, ritenendo che la Corte d’Assise d’Appello avesse motivato in modo logico e corretto tutti i punti controversi, respinse i motivi di ricorso dei ricorrenti. Respinse altresì la richiesta di sospensione del signor Bompressi, rilevando che nei termini delle disposizioni interne pertinenti (articoli 3 e 479 del CPP), un processo penale poteva essere sospeso solo quando il suo esito dipendesse dalla soluzione di una questione pregiudiziale civile o amministrativa, non essendo prevista la possibilità di sospensione per una questione pregiudiziale di natura penale. In ogni caso, le affermazioni del signor Bompressi erano palesemente prive di fondamento. Infatti, le modalità del voto al momento delle delibere a porte chiuse potevano portare alla nullità della decisione impugnata solo in casi eccezionali.

Dando seguito alle sollecitazioni del signor Bompressi, il 24 gennaio 1997 la Procura di Brescia chiese al giudice delle indagini preliminari di questa stessa città di riaprire l’inchiesta concernente il Signor Pincioni, ufficialmente archiviata il 12 maggio 1994. Secondo la procura, i fatti appresi nel quadro dell’indagine contro il signor Della Torre, esigevano ulteriori indagini anche contro il signor Pincioni.

Con un’ordinanza del 4 febbraio 1997, il giudice per le indagini preliminari di Brescia respinse la richiesta della Procura. Notò, in particolare, che la procura non aveva indicato nuovi elementi a carico del signor Pincioni e che il riferimento alle indagini relative al signor Della Torre non sembrava pertinente, non potendo essere intravista alcuna connessione nei comportamenti di questi magistrati, avendo avuto luogo in diversi momenti e contesti.

Il 25 marzo 1997, il procuratore della Repubblica di Brescia chiese che il ricorso del signor Sofri fosse definitivamente archiviato. Quanto ai dibattimenti  ed al voto in camera di consiglio, il Procuratore della Repubblica aveva raccolto “inquietanti testimonianze” da parte di alcuni giurati (X, Y e Z) che avevano riferito di certi comportamenti del signor Della Torre che potevano essere definiti abusi miranti a danneggiare i ricorrenti. Tali dichiarazioni, tuttavia, non erano state confermate né dagli altri giurati né dal signor De Ruggiero. Il Procuratore precisò che egli non riteneva che X e Y avessero mentito e ricordò che X non poteva essere spinto da motivi politici, avendo militato, nel passato, nell’estrema destra; presi dalla tensione di un processo così complicato e delicato, questi due giurati avevano, semplicemente, interpretato certe “frasi inopportune” del signor Della Torre come tentativi di influenzare i giurati. Si poteva ugualmente escludere che il signor Sofri avesse sporto denuncia col solo scopo di interferire con la procedura in Cassazione, avendo, al contrario, denunciato fatti seri che avrebbero potuto influenzare la posizione degli imputati nel processo Calabresi.

Il signor Sofri si oppose alla richiesta di archiviare la sua denuncia. Tenuto conto delle differenti versioni fornite dai giurati, sollecitò ulteriori indagini che portassero a verificare le modalità con le quali il voto in camera di consiglio si era svolto e chiese un confronto tra il signor Della Torre, X e la signora D.

Si tenne un’udienza in camera di consiglio dinanzi al giudice delle indagini preliminari.

Il 26 giugno 1997, il giudice delle indagini preliminari di Brescia archiviò la denuncia del signor  Sofri. In primo luogo rilevò che secondo una dottrina, un giudice riceve direttamente dal popolo il potere di pronunciare una sentenza, e che di conseguenza, nel compiere questo dovere, non potrebbe commettere alcun abuso di funzioni. Mancava, inoltre, ogni allegazione di “scopo egoistico” dalla parte del signor Della Torre, e non risultava dal fascicolo che quest’ultimo aveva agito allo scopo di danneggiare gli imputati o che perseguisse obiettivi illegittimi. D’altra parte, il Procuratore della Repubblica non avrebbe dovuto ordinare ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di rispondere alle sue domande. Il segreto sui voti e le opinioni espresse in camera di consiglio miravano a garantire l’indipendenza del potere giudiziario ed era conforme agli interessi di una buona amministrazione della giustizia. La discussione in una camera di consiglio poteva essere animata senza essere illegale, ed il modo in cui una giurisdizione era pervenuta  alla sua  sentenza non doveva costituire l’oggetto di un’indagine. Le testimonianze dei membri della Corte d’Assise d’Appello erano state, dunque, ottenute illegalmente e non potevano essere utilizzate. La denuncia avrebbe dovuto, dunque, essere archiviata  causa la mancanza di elementi a carico e non per assenza di fatti delittuosi. Infine, secondo una giurisprudenza concernente il reato di abuso di funzioni, il signor Sofri non avrebbe potuto pretendersi vittima dei fatti denunciati; la sua opposizione alla richiesta di archiviazione non poteva perciò essere presa in considerazione. In ogni modo, le testimonianze che il signor Sofri sollecitava erano illecite nella misura in cui esse vertevano sull’oggetto delle discussioni in camera di consiglio e non pertinenti per il resto.

Il giudice delle indagini preliminari ritenne tuttavia utile “preoccupandosi della precisione e in considerazione della natura delicata del caso” analizzare le prove raccolte dalla Procura. Considerò che le dichiarazioni di X e Y erano poco attendibili e che molto dubbia appariva la loro spontaneità. In particolare, le loro versioni divergevano a proposito del numero rilevante dei dettagli e non erano assolutamente confermate dalle dichiarazioni degli altri giurati e dal signor De Ruggiero i quali avevano escluso ogni tentativo di pressione illecita da parte del signor Della Torre. Inoltre, X e Y avevano riferito le loro esperienze prima ai giornali e ad alcuni privati e non alle autorità, essi non avevano indicato la loro opinione dissenziente come previsto dall’articolo 125 § 5 del CPP.

Il giudice delle indagini preliminari tenne ugualmente in conto le dichiarazioni della signora D., che il rappresentante della Procura aveva giudicato precise e attendibili, ma non suscettibili di comportare la responsabilità penale del signor Della Torre, trattandosi di fatti valutabili sul piano morale e deontologico. Il giudice delle indagini preliminari rilevò al contrario che pareva poco verosimile che un magistrato di grand’esperienza come il signor Della Torre avesse potuto anticipare la sua intima convinzione circa la colpevolezza degli imputati ad una persona che aveva appena incontrato e che era una "cara amica" del signor Pietrostefani. D'altra parte, pur supponendo che il signor Della Torre avesse espresso le sue opinioni, questo comportamento non costituiva affatto un reato penale, ma un motivo di ricusazione. Ora, i ricorrenti, benché informati sulle asserzioni della signora D., non avevano fatto uso di questa via di ricorso.

Il signor Sofri ricorse in Cassazione.

Con una sentenza del 16 dicembre 1997, il cui testo fu depositato in cancelleria il 12 gennaio 1998, la Corte di Cassazione dichiarò questo ricorso irricevibile. Rilevò che la decisione di archiviare le azioni penali poteva essere impugnata  in Cassazione solo se il querelante non avesse avuto la possibilità di opporsi alla richiesta di archiviazione e di ottenere un’udienza in camera di consiglio o se l’ordinanza del giudice delle indagini preliminari avesse omesso qualsiasi altra motivazione in merito alle ragioni che l’avevano spinto a dichiarare tale opposizione irricevibile. Nella fattispecie, non si sarebbe potuto individuare nessuna violazione dei diritti procedurali del querelante, e le asserzioni del signor Sofri vertevano sulla sostanza della decisione del giudice di Brescia, questione sulla quale la Corte di Cassazione non era competente a decidere.

9.      Il processo di revisione.

IL 15 dicembre 19997, i ricorrenti presentarono una richiesta di revisione dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, riferendo nuovi fatti a favore della loro scarcerazione. Si riferivano, in particolare, ai seguenti elementi:

   -  alcuni documenti, in particolare articoli di giornale, una elaborazione informatica della dinamica dell’omicidio, una ricostruzione dell’incidente d’auto con un testimone e il diario della signora Bistolfi, convivente del signor Marino, insieme a due perizie, una grafologica e l’altra psicologica;

-         una elaborazione informatica delle fotografie di un proiettile e di un frammento di proiettile ;

-         un rapporto di perizia balistica sulla suddetta elaborazione informatica;

-         le dichiarazioni di alcuni testimoni.

Secondo i ricorrenti, tali elementi provavano l’inattendibilità della testimonianza del signor Marino.

In particolare, il signor G., testimone oculare, aveva dichiarato che due giorni dopo l’omicidio, due agenti della polizia gli avevano mostrato delle fotografie e in una aveva creduto di riconoscere l’assassino. In seguito, avrebbe riferito quest’episodio alla Prefettura, ma l’indifferenza dei funzionari l’aveva profondamente turbato spingendolo a passare sotto silenzio tale circostanza.

Il signor T. dichiarò di avere visto il signor Bompressi la  mattina del giorno dell’omicidio in un bar di Massa, a parecchi chilometri da Milano.

L’avvocato A. dichiarò di avere spiegato, nel 1980-81, al signor Marino i vantaggi previsti dalla legge per i collaboratori della giustizia, e precisò che il signor Marino e la sua convivente avevano bisogno di denaro.

Infine la perizia psicologica e certi brani del diario personale della signora Bistolfi avrebbero dimostrato che quest’ultima era affetta da una forma di schizofrenia, che né lei né il suo compagno erano mai stati informati delle modalità dell’esecuzione dell’omicidio del commissario Calabresi e che, contrariamente a quanto era stato affermato, la signora Bistolfi era al corrente dell’intenzione di confessare del signor Marino. I ricorrenti produssero copie degli estratti in questione.

I ricorrenti chiesero ugualmente che le memorie presentate dalle parti civili fossero dichiarate irricevibili.

Con un’ordinanza del 18 marzo 1998, la Corte d’Appello di Milano respinse quest’ultima domanda, ritenendo che le parti civili avessero il diritto di far valere il loro punto di vista nella fase preliminare del processo di revisione.

Con un’ordinanza del 18 marzo 1998, la Corte d’Appello respinse ugualmente la richiesta di revisione essendo palesemente infondato. Rilevò che alcuni elementi indicati dai ricorrenti non erano “nuovi”, essendo già stati presi in esame nel corso delle procedure di prima e seconda istanza. Quanto agli altri elementi, non inficiavano affatto la colpevolezza degli imputati.

I ricorrenti presentarono ricorso in Cassazione contro le ordinanze del 10 e del 18 marzo 1998. Essi facevano notare che la sentenza del 21 ottobre 1992 aveva conseguentemente annullato i primi due gradi del processo, e sostenevano che, essendo state presentate solo prima della suddetta sentenza, le prove dovevano essere considerate come nuove. I ricorrenti contestavano inoltre il fatto che la Corte d’Appello aveva preso in esame la pertinenza e non solo la ricevibilità degli elementi di prova sui quali si fondava la loro richiesta.

Il 17 giugno 1998, il Procuratore Generale della Repubblica, basandosi sostanzialmente sui motivi del ricorso dei ricorrenti, chiese l’annullamento delle ordinanze del 10 e del 18 marzo 1998.

Il 18 agosto 1998, il signor Bompressi, per motivi di salute, fu messo agli arresti domiciliari. In seguito, tuttavia, fu nuovamente imprigionato.

Con una sentenza del 6 ottobre 1998, depositata in cancelleria il 28 ottobre 1998, la Corte di Cassazione annullò le ordinanze in questione e rinviò il caso ad un’altra sezione della Corte d’Appello di Milano. Giudicò anzitutto che le parti civili non potevano partecipare alla fase preliminare della procedura di revisione. La  Corte di Cassazione considerò inoltre che qualsiasi elemento presentato, ma non esaminato dovesse essere considerato come “nuovo”; nello stesso tempo sottolineò che un processo di revisione debba anche tener conto delle perizie effettuate con tecniche e metodi più aggiornati. In particolare, l’elaborazione informatica delle foto dei proiettili era significativa, tenuto conto del fatto che i proiettili originali erano stati indebitamente distrutti prima dell’apertura dei dibattimenti in primo grado e che ogni perizia balistica aveva dovuto essere effettuata sulle fotografie. D’altra parte, la Corte d’Appello di Milano, che doveva limitarsi ad un esame preliminare della ricevibilità della domanda, in realtà, aveva analizzato in modo approfondito la pertinenza di ogni elemento presentato dai ricorrenti, anticipando, così, il giudizio  sul merito.

In virtù di una nuova legge entrata in vigore nel frattempo, la Corte d’Appello di Brescia acquisì la competenza di esaminare la richiesta di revisione.

Con una ordinanza del 23 febbraio 1999, la Corte d’Appello di Brescia respinse la richiesta di revisione. Considerò in particolare che gli elementi “nuovi” presentati dai ricorrenti erano sia incoerenti e contraddittori, sia manifestamente infondati, e non potevano quindi cambiare l’esito del processo. Non potevano dunque corroborare la tesi, sostenuta dai ricorrenti, dell’esistenza di un “complotto” organizzato da certi agenti dello Stato contro Lotta continua.

I ricorrenti ricorsero in Cassazione.

Il 28 aprile 1999, il Procuratore Generale della Repubblica chiese l’annullamento dell’ordinanza del 23 febbraio 1999 adducendo che la Corte d’Appello di Brescia aveva esaminato gli elementi “nuovi”, non nel loro insieme, come avrebbe dovuto fare, ma separatamente.

Con una sentenza del 27 maggio, il cui testo fu depositato presso la cancelleria il 30 giugno 1999, la Corte di Cassazione annullò l’ordinanza in questione ed indicò la Corte d’Appello di Venezia come giudice  di rinvio. Rilevò in particolare che la Corte d’Appello di Brescia aveva esaminato gli elementi prodotti dai ricorrenti soprattutto nell’ottica di negare l’esistenza di un “complotto” contro Lotta continua, tralasciando così di valutare la loro capacità di rimettere in discussione affermazioni contenute nelle decisioni pronuncianti la condanna definitiva degli imputati. D’altra parte, alcune osservazioni critiche sui nuovi elementi erano prive di logica e anticipavano de facto il giudizio sul merito. Inoltre, questi elementi non erano stati considerati nel loro insieme. La Corte di Cassazione precisò che i ricorrenti avevano il diritto di produrre delle copie del diario personale della signora Bistolfi e la loro autenticità doveva essere stabilita dal giudice del merito.

Con un’ordinanza del 24 agosto 1999, la Corte d’appello di Venezia dichiarò la richiesta di revisione ricevibile. Ordinò quindi l’apertura del processo di revisione e sospese, a titolo provvisorio, l’esecuzione della pena inflitta ai ricorrenti. A questi, in via cautelare furono dati gli arresti domiciliari in una comunità  con il divieto di lasciare il territorio dello Stato. Tali misure cautelari furono annullate da un’ordinanza del 23 novembre 1999.

La Corte d’Appello precisò inoltre che anche il signor Marino, che non aveva presentato una richiesta di revisione, doveva essere considerato come imputato poiché l’eventuale assoluzione dei ricorrenti avrebbe consequenzialmente annullato la sua condanna.

I dibattimenti ebbero inizio il 20 ottobre 1999. Dopo tre udienze, il 2 novembre 1999, dei periti nominati prima dalla Corte d’Appello prestarono giuramento. Quindi, la Corte d’Appello esaminò il signor Marino, i ricorrenti, numerosi altri testimoni ed i periti nominati d’ufficio e dalla difesa. Questi ultimi sostenevano in particolare che un’analisi delle fotografie dei proiettili e della loro elaborazione informatica permetteva di concludere che non erano partiti dalla stessa arma, smentendo così le asserzioni del signor Marino.

Nel corso dei dibattimenti, i ricorrenti chiesero l’audizione della signora Bistolfi, che avrebbe dovuto testimoniare in merito a certi brani del suo diario intimo. Tuttavia, questa si avvalse della facoltà di tacere riconosciutale dall’articolo 199 CPP in quanto convivente more uxorio con uno degli imputati, il signor Marino. La Corte d’Appello giudicò che la facoltà in questione poteva essere esercitata anche da una persona che, come la signora Bistolfi, aveva deciso di non avvalersene durante le fasi del processo che avevano preceduto la procedura di revisione, nel corso delle quali era stata interrogata. D’altronde, nel quadro del processo di revisione la signora Bistolfi avrebbe dovuto fornire spiegazioni in merito al contenuto del diario intimo, prodotto dalla difesa solo dopo la conclusione del processo, ed avrebbe dovuto, dunque, testimoniare su fatti diversi da quelli che avevano costituito l’oggetto delle sue dichiarazioni precedenti. La Corte d’Appello precisò ugualmente che l’articolo 199 del CPP mirava a risolvere il conflitto esistente tra l’interesse generale  che ogni persona informata sui fatti del processo debba essere interrogata e l’interesse privato legato ai sentimenti familiari, che potrebbero spingere i testimoni a mentire per non pregiudicare la posizione dei loro congiunti, rendendosi così colpevoli di falsa testimonianza. Nella fattispecie, il legislatore e la Corte Costituzionale avevano ritenuto che dovesse prevalere il secondo interesse.

Il 18 gennaio 2000, la Corte d’Appello dichiarò la chiusura del dibattimento.

Con una sentenza del 24 gennaio 2000, adottata dopo sei giorni di camera di consiglio, la Corte d’Appello respinse la richiesta di revisione e revocò la sospensione dell’esecuzione della pena dei ricorrenti. Esaminò i nuovi elementi prodotti dai ricorrenti, come pure gli elementi che non erano stati presi in considerazione nel corso della procedura sul merito, e concluse che non giustificavano l’assoluzione degli interessati. Quanto alla distruzione dei proiettili, la Corte d’Appello rilevò che si trattava di una spiacevole circostanza, ma che non poteva essere imputata al giudice istruttore o al rappresentante della Procura, persone che non erano neppure state consultate a tale proposito. D’altra parte, le perizie presentate dai ricorrenti e aventi come oggetto le fotografie dei proiettili e dell’auto non erano in grado di provare le tesi dei condannati, perché prive degli elementi sufficienti a corroborare le loro asserzioni.

Secondo la Corte d’Appello, il fatto che la signora Bistolfi si era avvalsa, nella procedura di revisione, del diritto di tacere non intaccava la credibilità delle dichiarazioni fatte da questa testimone nelle precedenti fasi del processo, dichiarazioni che, comunque, costituivano dei semplici elementi corroboranti la confessione del signor Marino e senza le quali la condanna dei ricorrenti avrebbe dovuto ugualmente essere pronunciata. La Corte d’Appello ritenne, in particolare, che la scelta della signora Bistolfi non fosse “capricciosa”, ma si spiegava con il desiderio di non svelare pubblicamente dei particolari di natura strettamente privata riportati nel suo diario intimo.

Le copie di quest’ultimo prodotte dai ricorrenti dovevano essere considerate autentiche. La Corte d’Appello osservò tuttavia che il diario in oggetto conteneva delle note manoscritte, di cui era difficile (o meglio impossibile) comprendere il significato esatto. I ricorrenti avevano segnalato, in particolare, il seguente passaggio, non datato:

“ VII purificazione del bastone e dell’utero.

Sono in macchina con Marino

Si ferma davanti ad un municipio e mi dice “adesso il Commissario ha un posto nel  municipio ”.

Un uomo (Marino?) va dentro.

Si fa sentire; lo prende sottobraccio ed escono insieme.

Essi si avviano per un sentiero circondato da erbacce.

C’è una cicogna di pezza nell’erba con un bambolotto nel becco.

Penso: “ è il testimone oculare”.

Marino (?) va col Commissario verso la fine del sentiero -il lago-

Tornando indietro io prendo il bambolotto.

 

perché la cicogna di pezza  è troppo grande”

Le parti avevano ugualmente menzionato le seguenti frasi:

“ Marino se la caverà da solo?

Scriverò a Sandro PER Marino?”

“L’anno scorso, il 3 giugno (non sapevo

 né che era il tuo compleanno

né che mi stavano accadendo cose ignobili) in treno,

mi sono seduta al posto 38 e sentivo

NON MI TRASCURARE 

La Corte d’Appello rilevò che la signora Bistolfi non aveva testimoniato nel dibattimento e non aveva dunque fornito la sua interpretazione personale dei passaggi incriminati. D’altronde, un’analisi dei testi in oggetto non permetteva di affermare con certezza che la convivente del signor Marino aveva voluto riferirsi, sebbene in maniera onirica ed allusiva, all’omicidio del commissario Calabresi. A tale proposito, la Corte d’Appello rilevò in particolare che da alcune testimonianze si deduceva  che almeno una parte delle affermazioni contenute nel diario personale della signora Bistolfi fosse fantasiosa e priva di ogni legame con la realtà. Agli occhi della Corte d’Appello, né gli estratti del diario, né gli altri elementi indicati dai ricorrenti avrebbero potuto provare che la signora Bistolfi fosse informata dell’intenzione di confessare del signor Marino o che la confessione in oggetto fosse stata  premeditata dalla coppia. Anche in tal caso, inoltre, il fatto che Marino avesse potuto mentire sulle circostanze che lo avevano portato alla confessione, non intaccava automaticamente l’autenticità dei fatti riferiti, confermata da parecchi altri elementi.

La motivazione della sentenza del 24 gennaio 2000 (487 pagine) fu depositata presso la cancelleria il 31 marzo 2000.

I signori Sofri e Pietrostefani ricorsero in Cassazione.

Con una sentenza del 5 ottobre 2000, il cui testo fu depositato presso la cancelleria il 23 novembre 2000, la Corte di Cassazione, ritenendo che la Corte d’Appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, rigettò il  gravame di Sofri e di Pietrostefani.

B.  Il diritto e la prassi interni pertinenti

La Corte d’Assise e la Corte d’Assise d’Appello sono costituite da un presidente, da un altro giudice professionale (giudice o consigliere a latere) e da sei giudici popolari. Giudici popolari supplenti assistono alle udienze e sostituiscono in caso di necessità, i titolari. I voti dei due giudici professionali e dei giudici popolari su qualsiasi questione di fatto o di diritto hanno lo stesso valore.

La legge italiana non impone di scegliere il giudice che deve redigere la motivazione della sentenza fra i membri della maggioranza; quindi, anche un giudice dissenziente può essere incaricato di scrivere la motivazione di una decisione che non condivide. Nella pratica, normalmente tale incarico è affidato al giudice a latere  (giudice professionale che non presiede la Corte d’Assise).

Nei termini dell’articolo 125 § 5 del nuovo CPP,

“Nel caso di provvedimenti collegiali, se lo richiede un componente del collegio che non ha espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti”.

L’articolo 587 § 1 del nuovo CPP  (che riproduce l’articolo 203 del vecchio CPP) recita:

“Nel caso di concorso di più persone in uno stesso reato, l'impugnazione proposta da uno degli imputati, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri imputati”.

Nei termini dell’articolo 527  § 3 in fine del nuovo CPP ( che riproduce l’articolo 473 del vecchio CPP), nel caso in cui, a conclusione delle delibere, vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato.

L’articolo 199 § 1 del CPP prevede che i prossimi congiunti dell'imputato non sono obbligati a deporre. Questa disposizione è applicabile anche alle persone che vivonomore uxorio con l’imputato, ma solo in relazione ai fatti che si siano verificati o appresi nel periodo di vita in comune ( vedi paragrafo 3 a dell’articolo 199 sopra citato).

Nei termini dell’articolo 201 del CPP,

“Salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l'obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti”

L’articolo 630 del CPP indica i casi nei quali una persona condannata può chiedere la revisione del suo processo. In particolare il comma c) di questa disposizione recita :

“ La revisione può essere richiesta (…)se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto (…)”

DOGLIANZE

1§ Invocando l’articolo 6 §§ 1, 2 e 3 a), b) e d) della Convenzione, i tre ricorrenti  lamentano l’iniquità della procedura penale nei loro confronti.

2§ Sempre ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti lamentano l’assenza di imparzialità delle giurisdizioni nazionali.

3§ Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, i ricorrenti lamentano l’iniquità della procedura di revisione e l’impossibilità di esaminare la signora Bistolfi dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia.

4§ Invocando l’articolo 5 § 2 della Convenzione, il signor Bompressi lamenta di non essere stato informato in tempi più rapidi dei motivi del suo arresto.

IN DIRITTO

1§ I ricorrenti lamentano, sotto aspetti differenti, l’iniquità della procedura penale contro di loro e una completa ignoranza del principio di presunzione di innocenza. Essi invocano l’articolo 6 § § 1, 2 e 3 a),b)e d) della Convenzione.

    Nelle sue parti pertinenti, tale disposizione è così formulata :

“ 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale (…) che deciderà (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (…).

“ 2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata  legalmente accertata.

“ 3. In particolare, ogni accusato ha diritto a :

a)       essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui  comprensibile ed in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico.

b)      disporre del tempo e delle facilitazioni  necessarie a preparare la sua difesa; (..)

    d)  esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei  testimoni a discarico

nelle stesse condizioni dei testimoni  a carico.

1.      Le eccezioni del Governo

In una lettera del 27 settembre 1999, il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne spiegando che la procedura di revisione iniziata dai ricorrenti era, a quell’epoca, ancora pendente dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia. Il Governo eccepisce anche il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne nei confronti del signor Sofri, per il fatto che questi non ha mai presentato appello contro la sentenza della Corte d’Assise di Milano del 2 maggio 1990 e che la sua posizione è stata esaminata nel corso dei processi che si sono tenuti in seguito soltanto in virtù dell’estensione dell’appello dei suoi coimputati.

I ricorrenti si oppongono a queste tesi, osservando che la revisione è un mezzo di ricorso eccezionale diretto contro una sentenza che ha acquisito l’autorità della cosa giudicata.

La Corte ricorda anzitutto che secondo la giurisprudenza costante degli organi della Convenzione, le domande rivolte alla riapertura di un processo risolto con una decisione che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata non costituiscono,  come regola generale, un ricorso efficace ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione ( vedi K.S. e K. S. AG. C. Svizzera, n° 19117/91, decisione della Commissione del 12 gennaio 1994, Decisione e rapporti( DR) 76-B, pp. 70, 74). Comunque sia, la Corte rileva che la procedura di revisione iniziata dai ricorrenti è definitivamente terminata il 5 ottobre 2000 quando la Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi dei signori Sofri e Pietrostefani contro la sentenza della Corte d’Appello di Venezia del 24 gennaio 2000.

Quanto al fatto che il signor Sofri ha omesso di presentare appello contro la sentenza della Corte d’Assise di Milano del 2 maggio 1990, la Corte fa presente che l’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne si limita a quello di un uso normale di ricorsi  verosimilmente efficaci, sufficienti e accessibili (vedi Iuretagoyena c. Francia, n°32829/96, Decisione della Commissione del 12 gennaio  1998, DR 92, p. 99, 105). Questa regola intende fornire  agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di correggere le violazioni addotte contro di loro prima che tali allegazioni siano sottoposte agli organi della Convenzione ( vedi, fra molte altre, Selmouni c. France[GC], n°25803/94, § 74, CEDH 1999-V).

Ora, la Corte osserva che nel loro appello contro la sentenza incriminata, i due coimputati  del signor Sofri avevano contestato in particolare la credibilità del signor Marino, principale –testimone a carico. Questo ricorso non si fondava dunque su “ragioni esclusivamente personali” dei signori Bompressi e Pietrostefani. Il signor Sofri poteva dunque legittimamente aspettarsi di poterne approfittare e di vedere esaminata la sua posizione dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano ai sensi dell’articolo 587 § 1 del nuovo CPP. D’altronde, la Corte rileva che il signor Sofri ha fatto ricorso in Cassazione contro la decisione che ha pronunciato la sua condanna che infine è divenuta definitiva, cioè la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano  dell’11 novembre 1995.

In queste circostanze, non sarebbe possibile concludere che il signor Sofri non ha fatto un uso normale  dei ricorsi che si offrivano a lui o che non ha dato alle giurisdizioni interne l’occasione di correggere violazioni del principio dell’equo processo che denuncia dinanzi alla Corte.

Di conseguenza, le eccezioni di mancato esaurimento sollevate dal Governo non possono essere  accolte.

2.      Le diverse allegazioni dei ricorrenti

a) Quanto alla procedura di primo grado, i ricorrenti affermano anzitutto di non aver avuto il tempo necessario alla preparazione della loro difesa. Sottolineano che i loro avvocati hanno avuto accesso ai fascicoli della Procura contenenti gli elementi di prova a carico ( si trattava di 12.000 pagine) solo a luglio 1989, e che essi hanno dovuto preparare la loro difesa nello spazio di ventisei giorni. I ricorrenti denunciano altresì una mancanza di imparzialità della Corte d’Assise di Milano, poiché la motivazione della sentenza del 2 maggio 1990, depositata presso la cancelleria l’11 gennaio 1991, è stata redatta dal signor Minale, un  giudice che fin dall’11 ottobre 1990 faceva parte della Procura.

Il signor Bompressi lamenta inoltre di non essere stato informato delle accuse formulate contro di lui, come pure del fatto che gli altri quattro testimoni di cui aveva sollecitato l’audizione nel corso dell’istruttoria  sono stati esaminati solo durante i dibattimenti di primo grado.

La Corte non è chiamata a pronunciarsi sulla questione di sapere se i fatti riferiti dai ricorrenti svelano un’apparenza di violazione della Convenzione. Rileva che gli interessati hanno già ottenuto una riparazione alle loro lamentele a livello interno. Il 21 ottobre 1992, infatti, La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 12 luglio 1991 che aveva confermato la decisione di condanna emessa dalla Corte d’Assise di Milano il 2 maggio 1990.

I ricorrenti, pertanto, non possono pretendersi vittime, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, dei fatti che intendono denunciare.

Ne consegue  che questa doglianza è incompatibile ratione personae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell’articolo 35 § 3 e deve essere respinta in applicazione dell’articolo 35 §4.

b) I ricorrenti denunciano una negazione del loro diritto ad un equo processo, in particolare sotto l’angolo dell’uguaglianza delle armi. Rilevano che il signor Marino ha avuto dei contatti con i carabinieri almeno diciannove giorni prima della data della sua prima deposizione ufficiale (20 luglio 1988), e che non è stata conservata alcuna traccia delle conversazioni che, senza la presenza di un avvocato, si sono tenute in questo spazio di tempo. Perciò la difesa non ha mai avuto a disposizione i processi verbali relativi alle prime versioni della confessione del sig. Marino. D’altra parte, le dichiarazioni del pentito sono state considerate come attendibili nonostante le numerose menzogne e contraddizioni evidenziate dalla difesa.

I ricorrenti lamentano anche il fatto che tutti i testimoni a discarico sono stati considerati inattendibili, allorquando nessuno di loro è stato perseguito per falsa testimonianza. Considerano che avrebbero dovuto essere prosciolti e sostengono che le sentenze pronuncianti la loro condanna riflettono l’opinione della loro colpevolezza prima di ogni accertamento legale di questa.

Il Governo sottolinea che sono state emesse nove sentenze sul caso dei ricorrenti, e che i giudici italiani hanno accuratamente esaminato gli argomenti presentati dalla difesa, dimostrando in tal modo che i ricorrenti hanno beneficiato di un equo processo. D’altra parte non compete alla Corte di Strasburgo pronunciarsi sulla pertinenza degli elementi di prova o sull’innocenza degli imputati. Secondo il Governo, questi ultimi hanno avuto ampie possibilità di contestare ogni elemento portato contro di loro.

La Corte ricorda che non è suo compito sostituirsi alle giurisdizioni interne. Spetta innanzitutto autorità nazionali, e segnatamente alle corti ed ai tribunali, interpretare la legislazione interna e valutare i fatti ( vedi, fra gli altri, Brualla Gómez de la Torre c. Spagna, sentenza del 19 dicembre 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VIII, p. 2955, § 31, ed Edificaciones March Gallego S.A. c. Spagna, sentenza del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-1, p. 290, § 33). La Corte non è dunque chiamata a pronunciarsi sul punto di sapere se le dichiarazioni del signor Marino avrebbero dovuto essere scartate oppure erano sufficientemente precise e d attendibili, o ancora se, in ultima istanza, i ricorrenti erano colpevoli o no ( vedi P.G. e J.H. c. Regno-Unito,  n° 44787/98, § 76, 25 settembre 2001). In effetti, il compito che la Convenzione gli ha assegnato non consiste nel pronunciarsi sul punto di sapere se le deposizioni di testimoni sono state giustamente ammesse come prove, o se esse erano sufficienti per fondare una condanna, ma consiste nel ricercare se la procedura considerata nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo ( vedi, fra gli altri, Doorson c. Paesi-Bassi, sentenza del 26 marzo 1996, Raccolta 1996-II, p. 470, § 67, e Van Mechelen e altri c. Paesi-Bassi, sentenza del 23  aprile 1997,Raccolta 1997-III, p. 711, § 50).

Nella fattispecie, la Corte rileva che la condanna dei ricorrenti è sopraggiunta è stata pronunciata in seguito ad un processo in contraddittorio e sulla base di prove discusse in udienza, che i tribunali interni hanno giudicato sufficienti per stabilire la loro colpevolezza. In particolare, conviene notare che gli interessati hanno avuto l’opportunità di interrogare il signor Marino durante i dibattimenti pubblici e di porgli le domande che hanno ritenuto necessarie per invalidare la versione dei fatti data dal loro accusatore. La circostanza che quest’ultimo abbia avuto dei contatti con i carabinieri prima di fare la sua deposizione ufficiale non potrebbe per se stessa, incidere sui principi  dell’equo processo e dell’uguaglianza delle armi.

D’altra parte, nella misura in cui i ricorrenti denunciano una violazione della presunzione di innocenza garantita dal § 2 dell’articolo 6, la Corte ricorda che quest’ultima è disconosciuta se una decisione di un giudice o di un’altra autorità  pubblica concernente un imputato riflette la sensazione che egli è colpevole, allorquando la sua colpevolezza non è stata innanzitutto legalmente accertata. Pur in mancanza di constatazione formale, è sufficiente una motivazione che faccia ritenere che l’autorità in questione consideri l’interessato colpevole, (Allenet de Ribemont c. Francia, sentenza del 10 febbraio 19995, serie A n° 308, p. 16, § § 35-36 ).

Nella fattispecie, i ricorrenti non hanno indicato alcuna decisione resa prima della loro condanna che mostri una simile constatazione di colpevolezza. Il fatto che quest’ultima  fosse contenuta nelle sentenze che si pronunciavano per la loro responsabilità nell’omicidio del commissario Calabresi non potrebbe in alcun modo intaccare il principio della presunzione di innocenza.

Ne consegue che questa doglianza deve essere respinta perché manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

c) I ricorrenti rilevano che importanti elementi di prova, quali i vestiti del commissario Calabresi, l’auto utilizzata dagli assassini ed i proiettili rinvenuti nel cadavere o sul luogo dell’omicidio non sono mai stati messi a disposizione della difesa, essendo stati smarriti o distrutti.

I ricorrenti sostengono che se si fossero avuti a disposizione gli elementi di prova originali, le perizie effettuate sull’auto e sui proiettili avrebbero potuto chiarire la dinamica dell’incidente stradale che si è verificato dopo l’omicidio e la sequenza dei colpi d’arma da fuoco. Nessun tentativo di dedurre questi elementi dalle fotografie ha permesso di ottenere i risultati sperati , come lo mostra il fatto che la Corte d’Appello di Venezia ha giudicato che le perizie aventi per oggetto le fotografie dei proiettili e dell’auto non fornivano elementi sufficienti a favore della tesi della difesa. I ricorrenti, quindi, ritengono di essere stati privati della possibilità di smentire certe parti della versione del signor Marino e di contestarne l’attendibilità. Ciò avrebbe altresì violato il “loro diritto di difendersi provando la loro innocenza”.

Il Governo rileva che la mancanza delle prove distrutte o smarrite non ha avuto alcuna conseguenza importante per la ricostruzione dei fatti. Infatti l’auto utilizzata dagli assassini ed i proiettili rinvenuti nel corpo del commissario Calabresi erano stati descritti, esaminati e fotografati prima della loro distruzione. Grazie a questi elementi, i ricorrenti e la Corte d’Appello di Venezia hanno potuto fare eseguire delle perizie ed un’elaborazione informatica delle fotografie dei proiettili.

Il Governo nota che secondo i ricorrenti stessi, tale rielaborazione permetteva di concludere che, contrariamente a quanto affermato dal sig. Marino, i proiettili non erano partiti dalla stessa arma. Queste perizie sono state scrupolosamente esaminate dalle giurisdizioni competenti. D'altronde, i vestiti della vittima non erano in alcun modo utili alla ricostruzione delle circostanze dell’omicidio.

La Corte rileva che il fascicolo del caso non consente di stabilire le circostanze dello smarrimento dei vestiti del commissario Calabresi, che erano apparentemente spariti subito dopo l’omicidio. Al contrario, dai documenti disponibili si deduce che la distruzione dell’auto e dei proiettili avrebbe avuto luogo rispettivamente il 31 dicembre 1988 e dopo il 15 febbraio 1989, cioè dopo l’arresto dei ricorrenti (28 luglio 1988).

Secondo la Corte, e come le giurisdizioni nazionali lo hanno più volte costatato, è molto deplorevole che elementi di prova concernenti un processo per omicidio siano distrutti poco dopo l’apertura delle indagini sui presunti responsabili del crimine. La responsabilità di questa distruzione, probabilmente dovuta ad una disfunzione amministrativa giacché avvenuta nel tribunale di Milano, ricade sulle autorità italiane.

Tuttavia, non si potrebbe per questo giungere alla conclusione dell’esistenza di una violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Comunque, occorre stabilire che le conseguenze della disfunzione in questione hanno messo i ricorrenti in una situazione di svantaggio in rapporto colla procura (vedi, fra molte altre Nideröst-Huber c. Svizzera, sentenza del 18 febbraio 1997, Raccolta 1997-1, p. 107, §23, e Frette c. Francia, n° 36515/97, § 47, CEDH 2002-I).

A tale proposito, la Corte rileva che i ricorrenti non hanno indicato in quale modo i vestiti del commissario Calabresi avrebbero potuto giocare un ruolo in favore delle tesi della difesa. Al contrario, delle perizie effettuate sull’auto ed i proiettili avrebbero potuto chiarire la dinamica dell’incidente d’auto che era accaduto dopo l’omicidio e la sequenza dei colpi d’arma da fuoco. Nell’ipotesi in cui gli esiti delle perizie avessero contraddetto in parte o completamente la versione del signor Marino, la credibilità di quest’ultimo avrebbe potuto essere intaccata parzialmente.

La Corte osserva tuttavia che la Procura si è trovata in una situazione simile a quella dei ricorrenti, giacché l’impossibilità di effettuare le perizie in questione ha ugualmente privato il pubblico ministero dell’occasione di servirsi degli elementi di prova smarriti o distrutti. In questo contesto, pertanto,le parti del processo si sono trovate su un piano di uguaglianza.

Inoltre, conviene rilevare che l’auto ed i proiettili erano stati descritti, esaminati e fotografati prima della loro distruzione, e ciò ha consentito ai ricorrenti di esercitare i diritti della difesa riguardo a questi elementi di prova. In particolare, hanno potuto benissimo fare eseguire delle  perizie e una elaborazione informatica delle fotografie, ciò che, d’altra parte, ha contribuito alla ricevibilità della loro richiesta  di revisione. Infine, i ricorrenti hanno avuto la possibilità di contestare, nelle diverse fasi di una procedura giudiziaria in  contraddittorio, numerosi altri aspetti della versione del loro accusatore.

In queste circostanze, la Corte non potrebbe concludere che la distruzione o lo smarrimento degli elementi sopra indicati abbia inciso sull’equità del processo (vedi,mutatis mutandis, Sangiorgi c. Italia ( decisione), n° 70981/01, 5 settembre 2002, non pubblicata, e Carlotto c. Italia, n° 22420/93, decisione della Commissione del 20 maggio 1997, DR 89, pp. 17, 29).

Ne consegue che questa doglianza è manifestamente infondata e deve essere respinta in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

2. Invocando l’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti sostengono che il loro diritto di essere giudicati da un tribunale indipendente e imparziale è stato disatteso, avendo la magistratura italiana un’idea preconcetta riguardo alla loro colpevolezza. Ciò li avrebbe privati del “ loro diritto a un tribunale”, tenuto conto in particolare del fatto che essi non avrebbero avuto alcuna possibilità reale di ottenere dinanzi alle giurisdizioni nazionali, una riparazione delle loro doglianze .

a ) I ricorrenti sottolineano in primo luogo che la sentenza del 21 dicembre 1993 è stata redatta dal signor Pincioni, un giudice ritenuto da loro dissenziente e che avrebbe motivato la  loro assoluzione in modo apertamente illogico e contraddittorio allo scopo di ottenerne l’annullamento da parte della Corte di Cassazione.

Il Governo rileva che l’affermazione dei ricorrenti, secondo la quale il signor Pincioni era un “giudice dissenziente” che avrebbe scritto una “sentenza suicida” non è stata debitamente provata. A questo proposito, osserva che all’esito delle deliberazioni  della Corte d’Assise di Milano, composta, fra gli altri, dal signor Pincioni, il presidente della medesima aveva depositato presso la cancelleria la busta sigillata e firmata prevista dall’articolo 125 § 5 del CPP. Ora, l’esistenza stessa di questa busta dimostra che almeno uno dei membri della corte d’Assise d’Appello di Milano era dissenziente a riguardo del verdetto di assoluzione. Il nome o i nomi del o dei dissidenti non può (possono) tuttavia essere conosciuto(i) se non aprendo la busta sigillata. Tuttavia, il Governo ha ritenuto che quest’ultima non potesse essere trasmessa alla Corte poiché la sua apertura ha lo scopo di proteggere il giudice dissenziente contro un’eventuale azione giudiziaria per errore professionale. Infatti, l’articolo 16 § 5 della legge n°117 del 1988 ( legge sulla responsabilità civile dei magistrati) prevede che la busta sia trasmessa al tribunale dinanzi al quale il Primo ministro avrebbe convenuto in giudizio i giudici che hanno pronunciato la decisione al fine di ottenere il rimborso della somma versata a titolo di risarcimento della parte lesa. Secondo il Governo, le disposizioni interne che prevedono la possibilità di violare il segreto di una camera di consiglio avrebbero una natura eccezionale e non potrebbero prestarsi ad una interpretazione estensiva per analogia.

In ogni caso, il Governo ricorda che ogni decisione  giudiziaria può essere impugnata in appello o in Cassazione e osserva che nella fattispecie, gli elementi di prova esistenti a carico degli imputati non consentivano di motivare in altro modo. Il giudice incaricato di scrivere la motivazione della sentenza, infatti, deve esporre le ragioni che hanno condotto la maggioranza dei membri della Corte d’Assise ad esprimere un determinato verdetto, anche se tali ragioni possono sembrare contraddittorie e non adatte a giustificare la decisione adottata.

I ricorrenti auspicano che la busta contenente la o le opinioni dissenzienti sia aperta e trasmessa alla Corte, trattandosi di un mezzo per stabilire se il signor Pincioni fosse dissenziente. D’altra parte, se questa questione dovesse essere risolta affermativamente, si potrebbero avanzare ugualmente dei dubbi riguardo all’imparzialità del signor Gnocchi, presidente della seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, responsabile di aver affidato la redazione della motivazione della sentenza ad un giudice che aveva espresso il suo dissenso riguardo al verdetto di assoluzione espresso dai suoi colleghi.

D’altra parte, il riferimento fatto dal Governo alle disposizioni concernenti la responsabilità civile dei magistrati non sarebbe pertinente, poiché la Corte costituzionale ha precisato che il segreto di una camera di consiglio non costituisce un valore di livello costituzionale.

La Corte fa presente che ai fini dell’articolo 6 § 1, l’imparzialità deve essere valutata attraverso un modo di procedere soggettivo, cercando di definire la convinzione ed il comportamento personale di un determinato giudice in una determinata occasione , e anche attraverso un modo di procedere oggettivo che conduca ad essere sicuri  che egli offriva delle garanzie sufficienti per escludere ogni legittimo dubbio a riguardo (vedi, fra gli altri, Hauschild c. Danimarca,sentenza del 24 maggio 1989, serie A n° 154, p. 21, § 46, e Thomann c. Svizzera, sentenza del 10 giugno 1996, Raccolta 1996-III, p. 815, § 30).

Quanto al primo  (modo di procedere n.d.t.), l’imparzialità personale dei magistrati si presume fino a prova contraria ( Padovani  c. Italia  (decisione), n° 48799/99, 5 aprile 2001, non pubblicata).

Ora, la Corte ha esaminato gli elementi indicati dai ricorrenti, in particolare l’ampiezza della parte della  motivazione della sentenza del 21 dicembre 1993 dedicata a stabilire la sincerità, la spontaneità e la credibilità della testimonianza del signor Marino, e l’esposizione relativamente sintetica dei “ punti oscuri” invalidanti la versione del pentito. La Corte non ha, tuttavia, individuato alcun indizio di parzialità.

A tale proposito, conviene ricordare che se l’articolo 6 § 1 della Convenzione obbliga i tribunali a motivare le loro decisioni, la Corte non è, per questo, chiamata a ricercare se gli argomenti siano stati adeguatamente trattati (Van de Hurk c. Paesi-Bassi, sentenza del 19 aprile 1994, serie A n° 288, p. 20, § 61; Société anonyme Immeuble Groupe Kosser c. Francia (decisione), n° 38748/97, 9 marzo 1999). Spetta alle giurisdizioni rispondere alle allegazioni essenziali, sapendo che la portata di tale compito può variare secondo la natura della decisione e deve, dunque, essere analizzata alla luce delle circostanze della fattispecie ( Hiro Balani c. Spagna, sentenza del 9 dicembre 1994, serie A n° 303-B, p. 29, § 27, e Burg c. Francia (decisione), n° 34763/02, 28 gennaio 2003).

Nella fattispecie, la sentenza del 21 dicembre 1993 ha esposto in modo dettagliato gli elementi prodotti nel corso di un processo lungo e complesso, e che erano stati discussi durante i dibattimenti. Per di più, ha esaminato la pertinenza e la forza probatoria di ognuno di essi. A tale proposito, la Corte non potrebbe speculare sull’ampiezza che un giudice nazionale deve accordare agli argomenti a favore o a danno degli imputati adempiendo l’obbligo di motivare imposto dall’articolo 6 § 1 della Convenzione. Inoltre, i semplici fatti che una giurisdizione interna abbia commesso degli errori di fatto o di diritto e che la sua decisione sia stata annullata da un’istanza superiore non potrebbero, da soli, sollevare dei dubbi oggettivamente giustificati concernenti la sua imparzialità.

La Corte non ha dunque rilevato alcun elemento suscettibile di mettere in dubbio l’imparzialità personale del giudice Pincioni ( vedi mutatis mutandis, M.D.U. c. Italia  (decisione), n° 58540/00, 28 gennaio 2003, non pubblicata, in cui la Corte ha escluso l’esistenza di una parvenza di parzialità per il fatto, fra l’altro, dell’ampiezza della motivazione di una sentenza della Corte di Cassazione).

Quanto al secondo modo di procedere, esso invece, induce a domandarsi se, indipendentemente dalla condotta del giudice, certi fatti verificabili autorizzano a sospettare dell’imparzialità di quest’ultimo. In materia anche le apparenze possono essere importanti. Ci va di mezzo la  fiducia che i tribunali di una società democratica hanno il dovere di ispirare alla persona che deve essere giudicata. Ne consegue che per pronunciarsi sull’esistenza, in un determinato caso, di una legittima ragione di temere una mancanza d’imparzialità di un giudice, l’ottica dell’ imputato viene presa in considerazione , senza avere, però, un ruolo decisivo. L’elemento determinante consiste nel sapere se le apprensioni dell’interessato possono essere ritenute  oggettivamente giustificate ( vedi Ferrantelli e Santangelo c. Italia, sentenza del 7 agosto 1996, Raccolta  1996-III, pp.951-952, § 58, e Priebke c. Italia, decisione precitata).

La Corte nota che in questo caso il timore di una mancanza d’imparzialità deriva dal fatto che  la stesura della motivazione sarebbe stata affidata, secondo la versione inizialmente sostenuta dai ricorrenti, ad un giudice dissenziente.

Tuttavia, agli occhi della Corte, il fatto che il giudice Pincioni fosse d’accordo o in disaccordo con il verdetto di assoluzione non potrebbe, di per se stesso, sollevare un problema  come previsto nell’articolo 6 della Convenzione. Inoltre, nella fattispecie niente prova che il signor Pincioni fosse dissenziente. Quanto alla tesi dei ricorrenti, secondo la quale la busta prevista nell’articolo 125 § 5 del CPP dovrebbe essere aperta e trasmessa a Strasburgo, la Corte fa presente che il principio dell’inviolabilità delle decisioni in camera di consiglio di una giuria o di un tribunale nazionale non è stato considerato contrario alla Convenzione (vedimutatis mutandis, Pullar c. Regno- Unito, sentenza del 10 giugno 1996, Raccolta 1996-III, pp. 792-793, §§ 32-31, e SimseK c. Regno-Unito (decisione), n° 43471/98, 9 luglio 2002).

Alla luce di quanto precede, la Corte è del parere che la situazione denunciata dai ricorrenti non può di per sé giustificare delle preoccupazioni in merito all’imparzialità del signor Pincioni.

Ne consegue che questa doglianza è manifestamente infondata e deve essere respinta in applicazione dell l’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

      b) I ricorrenti denunciano che il comportamento del signor Della Torre, presidente della Corte d’Assise d’Appello di Milano, al momento delle decisioni relative alla sentenza dell’11 novembre 1995 sarebbe tale da mettere in dubbio l’imparzialità di questo magistrato. Si riferiscono, su questo punto, alle dichiarazioni fatte dopo il dispositivo della sentenza dai giurati X, Y, e Z.

 I ricorrenti sottolineano che la Corte non è chiamata a pronunciarsi sul punto di sapere se il signor Della Torre perseguisse uno scopo “ egoista” o se potesse essere ritenuto responsabile di un reato penale, ma solo se il comportamento era compatibile con il principio secondo il quale ogni accusato ha il diritto di essere giudicato da un “tribunale imparziale”.

Il Governo osserva che le autorità competenti hanno archiviato i ricorsi del signor Sofri, ritenendo che l’attore non aveva apportato alcun elemento che potesse dimostrare che il magistrato in questione avesse commesso un abuso di funzioni o che volesse arrecare pregiudizio  agli imputati. D’altronde, nel corso di una discussione in camera di consiglio, ogni membro di una Corte d’Assise ha il diritto e il dovere di esprimere le ragioni su cui fonda la sua intima convinzione  e divergere dalle opinioni espresse dagli altri magistrati e giurati. Ciò non impedisce a questi ultimi di votare secondo la loro volontà.

La Corte rileva che il giudice delle indagini preliminari di Brescia ha  giudicato che le affermazioni di X e Y fossero poco attendibili e che la loro spontaneità avrebbe sollevato dei dubbi. Per giungere a tale conclusione, si è basato su argomenti logici e puntuali, quali la divergenza delle versioni fornite da  questi due testimoni, il fatto che queste ultime fossero smentite dalle deposizioni degli altri giurati e del signor De Ruggiero, la circostanza che X e Y non avessero dimostrato il loro disaccordo con il verdetto ed avessero riferito le loro esperienze prima alla stampa. Niente nel fascicolo induce a pensare che questa valutazione fosse stata arbitraria.

Di conseguenza, la Corte non potrebbe considerare come dimostrato il fatto che il signor Della Torre abbia esercitato pressioni illegittime sui giurati, o abbia tenuto comportamenti che potessero far nascere dei dubbi oggettivamente giustificati sulla sua imparzialità.

Ne consegue che questa doglianza è manifestamente infondata e deve essere respinta  in applicazione dell l’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

c)  Nelle formule del loro ricorso, i ricorrenti contestano l’imparzialità del signor Della Torre solo in rapporto ai comportamenti di questo magistrato riferiti dai giurati X, Y e Z. Tuttavia, nella memoria del 19 febbraio 2002, essi si sono riferiti anche alle affermazioni della signora D, che ritengono attendibili e che proverebbero che il signor Della Torre non ha rispettato il dovere di mantenere la massima discrezione in merito ai fatti della causa che era chiamato a giudicare, dando così adito a dubbi oggettivamente giustificati circa la sua imparzialità. A tale riguardo, i ricorrenti  sostengono che i processi verbali delle dichiarazioni della signora D. non costituiscono una nuova prova, ma un elemento relativo ad una doglianza già sollevata, in particolare quella concernente la citata mancanza d’imparzialità del signor Della Torre.

In un fax del 21 giugno 2001, il rappresentante dei ricorrenti ha precisato che i signori Sofri e Bompressi sono stati messi al corrente delle affermazioni fatte dalla signora D., solo dopo il dispositivo della sentenza dell’11 novembre 1995.

La Corte non ritiene necessario occuparsi della questione di sapere se gli attori hanno rispettato, in relazione a questa doglianza, il termine di sei mesi previsto dall’articolo 35 § 1 della Convenzione. Infatti, anche supponendo che questa parte del ricorso non sia tardiva, essa è comunque irricevibile per le seguenti ragioni.

La Corte ricorda che secondo l’articolo 35 §1 della Convenzione, essa non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Questa regola impone di sollevare davanti all’organo interno adeguato, almeno in sostanza e nelle forme e termini prescritti dal diritto interno, le doglianze che si intende formulare in seguito dinanzi alla Corte; essa impone inoltre l’impiego dei mezzi di procedura propri ad impedire una violazione della Convenzione ( Cardot c. Francia, sentenza del 19 marzo 1991, serie A n° 200, p. 18, § 34, e Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, p. 1210, § 66).

Ora, la Corte rileva che la signora D. aveva, immediatamente, comunicato le affermazioni del signor Della Torre al signor Pietrostefani che, come il signor Sofri stesso ha dichiarato nella sua domanda alla Procura di Brescia del 27 ottobre 1996, aveva in seguito informato i suoi coimputati e gli avvocati difensori. I ricorrenti avevano dunque la possibilità di presentare una dichiarazione di ricusazione contro il signor Della Torre, possibilità di cui non si sono avvalsi.  Una tale richiesta avrebbe potuto offrire allo Stato la possibilità di prevenire la violazione della Convenzione di cui gli interessati si lamentano a Strasburgo ( vedere, mutatis mutandis, Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, sentenza del 6 dicembre 1988, serie A n° 146, pp. 28-29, § 59; vedere anche Sicuranza c. Italia(decisione), n° 52129/99, 14 marzo 2002, non pubblicata).

Ne consegue che questa doglianza deve essere respinta per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell'articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

.d ) Sempre nella loro memoria del 19 febbraio 2002, i ricorrenti  sollevano per la prima volta un’altra doglianza concernente il secondo processo di rinvio. Essi rilevano, in particolare, che uno dei giurati era la figlia di un agente di polizia, una persona, cioè, che secondo le loro affermazioni, avrebbe avuto degli “interessi contrari a quelli di una delle parti” del processo, cosa che costituirebbe, di per sé, una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

La Corte ricorda che secondo l’articolo 35 § 1 della Convenzione, essa non può essere adita se non entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva. Ora, i ricorrenti hanno sollevato  questa doglianza solo il 19 febbraio 2002, cioè più di sei mesi dopo la data del deposito presso la Cancelleria delle sentenze che mettevano fine ai processi concernenti la loro persona ( rispettivamente, il 12 gennaio 1998 per il processo sulla fondatezza delle accuse ed il 23 novembre 2000 per il processo di revisione).

    Ne consegue che questa doglianza è tardiva e deve essere  respinta in applicazione dell’articolo 35 §§ 1    e  4 della Convenzione.

3. Nelle loro osservazioni in risposta del 20 dicembre 2000,  i ricorrenti sollevano delle doglianze  a proposito della non equità del processo di revisione.

1        . Le eccezioni del Governo

Il Governo eccepisce anzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in relazione al signor Bompresi, in quanto questi non ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Venezia del 24 gennaio 2000 che respingeva la sua richiesta di revisione.

La Corte rileva che il ricorso in Cassazione dei signori Sofri e Pietrosanti mirava ad ottenere l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Venezia e la riapertura del processo penale concernente l’omicidio del commissario Calabresi. Dato che questo ricorso non si fondava su “ragioni esclusivamente personali” dei due imputati che l’avevano presentato, il signor Bompressi poteva legittimamente aspettarsi di poter approfittarne secondo l’articolo 587 §1 del nuovo CPP.

Pertanto, l’eccezione del mancato esaurimento del Governo deve essere respinta.

Il Governo afferma inoltre che le doglianze concernenti il processo di revisione, che non hanno costituito l’oggetto di questioni specifiche rivolte dalla Corte alle autorità italiane, non dovevano essere prese in considerazione nella decisione sulla ricevibilità del ricorso.

La Corte rileva che con una lettera del 10 ottobre 2001, il Governo è stato invitato a presentare per iscritto le sue osservazioni sulla ricevibilità e sul merito delle doglianze fondate sulla  non equità  del processo di revisione e a rispondere ad una questione specifica concernente il diritto dei ricorrenti di interrogare o far interrogare i testimoni a carico. Il Governo ha inviato le sue osservazioni il 21 dicembre 2001. Queste sono state trasmesse ai ricorrenti, che in seguito hanno presentato, in risposta, le loro osservazioni.

In tali circostanze, la Corte ritiene che nessun ostacolo si oppone a che la doglianza fondata sulla  non equità del processo di revisione sia presa in considerazione nella decisione sulla ricevibilità  del ricorso.

2        . Il merito delle doglianze dei ricorrenti

I ricorrenti affermano che la Corte d’Appello di Venezia ha sempre giudicato inattendibili i testimoni a discarico, considerandoli  sia politicamente legati agli imputati,  sia  poco precisi.

I ricorrenti contestano, inoltre, il fatto che la signora Bistolfi ha potuto beneficiare della facoltà di tacere e affermano che la Corte d’Appello di Venezia ha indebitamente privilegiato il diritto al rispetto della vita privata di questo testimone a discapito dei diritti della difesa. A tale riguardo, essi sottolineano che nella sentenza dell’11 novembre 1995, la Corte d’Assise d’Appello di Milano aveva ritenuto che le dichiarazioni della signora Bistolfi fossero il principale riscontro per confermare l’attendibilità del signor Marino. In particolare, il fatto che quest’ultimo non aveva informato la sua compagna dell’assassinio e della sua intenzione di confessare, avrebbe dimostrato la spontaneità della confessione. Secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello, se Marino avesse avuto l’intenzione di calunniare i ricorrenti, sarebbe stato più facile per lui elaborare una versione comune con la signora Bistolfi; quest’ultima avrebbe, in particolare, potuto affermare di avere saputo già nel 1972 i nomi dei responsabili dell’omicidio del commissario Calabresi. Ora, secondo i ricorrenti, i brani del diario  sopra citati nella parte “ in fatto” potevano provare esattamente il contrario, cioè che la signora Bistolfi aveva mentito quando affermava di non essere stata al corrente dell’intenzione del signor Marino di confessare. Tuttavia, riconoscendo alla signora Bistolfi il diritto di non parlare, la Corte d’Appello di Venezia avrebbe impedito agli imputati di chiedere spiegazioni all’autrice del diario, spiegazioni che concernendo un elemento nuovo, non erano state mai date nel corso del processo.

I ricorrenti affermano anche che la decisione della Corte d’Appello si fonda su errori di diritto. Infatti, il signor Marino, che nella sentenza dell’11 novembre 1995 aveva beneficiato di una prescrizione, non avrebbe dovuto essere considerato come “imputato” nel processo di revisione, e la signora Bistolfi, avendo accettato di rispondere alle domande in momenti precedenti il processo , non avrebbe dovuto esercitare il suo diritto di non parlare.

Il Governo giudica che non si ravvisa alcuna violazione del principio dell’equo processo dato che l’impossibilità di interrogare o di fare interrogare la signora Bistolfi era dovuta al fatto che questa si era legittimamente avvalsa del diritto di tacere riconosciuto dall’articolo 199 CPP.

La Corte ricorda che l’ammissibilità delle prove rientra innanzitutto nelle regole del diritto interno (Garcia Ruiz c. Spagna [GC], n° 30544/96, CEDH 1999-1, § 28). La Corte non è dunque chiamata  a pronunciarsi sul punto di sapere se la facoltà di non parlare riconosciuta alla signora Bistolfi fosse conforme alle disposizioni pertinenti del diritto italiano, ma a ricercare se l’impossibilità di interrogarla nel corso del processo di revisione avesse recato pregiudizio alla equità del processo.

Gli elementi di prova devono in linea di principio essere prodotti dinanzi all’imputato nell’udienza pubblica, in vista di un dibattito in contraddittorio. Questo principio non è privo di eccezioni, ma esse si potrebbero accettare solo con riserva dei diritti della difesa; come regola generale, i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 impongono di accordare all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore al momento della deposizione o più tardi( Van Mechelen ed altri c. Paesi- Bassi, sentenza succitata,  p.711, § 51, e Lüdi c. Svizzera, sentenza del 15 giugno 1992, serie A n° 238, p. 21, § 49). In particolare, i diritti della difesa sono limitati in maniera incompatibile con le garanzie dell’articolo 6 quando una condanna si fonda , unicamente o in una misura determinante, sulle deposizioni di un teste che l’imputato non ha avuto la possibilità di interrogare né durante l’istruttoria né durante i dibattimenti (A.M. c. Italia, n° 37019/97, CEDH 1999-IX, § 25, e Säidi c. Francia, sentenza del 20 settembre 1993, serie A n° 261-C, pagine  56-57, §§ 43-44).

Ora, la Corte rileva che i ricorrenti  hanno avuto la possibilità di interrogare la signora Bistolfi e di rivolgerle le domande che hanno ritenute necessarie per la loro difesa durante le fasi del processo precedenti la revisione.

È vero che a quell’epoca, il contenuto del diario non era conosciuto e solo durante il processo di revisione si sarebbe potuto chiedere spiegazioni circa il significato esatto di certi passaggi. Tuttavia, la Corte non potrebbe considerare che l’impossibilità di ottenere tali spiegazioni dall’autore stesso del diario abbia violato il diritto ad un equo processo de  i ricorrenti.

A tale proposito, essa rileva che gli interessati hanno avuto la possibilità di  presentare alla Corte d’Appello di Venezia la loro interpretazione dei passaggi controversi, cercando di sostenere che questi ultimi dimostrerebbero che, contrariamente a ciò che aveva precedentemente affermato, la signora Bistolfi era al corrente dell’intenzione del signor Marino di confessare molto prima della data della sua confessione ufficiale. Il fatto che in seguito ad un’analisi del testo in questione le giurisdizioni interne abbiano scartato questa tesi non potrebbe costituire, in sé, una violazione dell’articolo 6 della Convenzione. D’altronde, il diritto invocato dal convivente di un imputato per sottrarsi all’interrogatorio non potrebbe portare a paralizzare dei procedimenti penali la cui opportunità, tutto sommato, sfugge al controllo della Corte (vedere, mutatis mutandis,Asch c. Austria, sentenza del 26 aprile 1991, serie A n° 203, pp. 10, § 28).

Per di più, è necessario notare che le dichiarazioni della signora Bistolfi non costituivano affatto il solo elemento di prova sul quale i giudici del merito hanno fondato la condanna degli attori. Al contrario, si trattava solo di uno degli elementi che sono stati utili a corroborare la principale prova a carico, cioè la confessione del signor Marino, teste che gli attori hanno avuto la possibilità d’interrogare a più riprese.

In tali condizioni, la Corte non potrebbe concludere che l’impossibilità di interrogare la signora Bistolfi durante il processo di revisione ha leso i diritti della difesa al punto di violare i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 (P.M. c.Italia (decisione), n° 43625/98, 8 marzo 2001, non pubblicata;

Raniolo c. Italia (decisione), n° 62676/00, 21 marzo 2002, non pubblicata; Calabrò c. Italia (decisione), n° 59895/00, 21 marzo 2002, non pubblicata; vedere anche, mutatis mutandisArtner c. Austria, sentenza del 28 agosto 1992, serie A   n° 242-A, pp. 10-11, §§ 22-24).

Infine, quanto al fatto che la Corte d’Appello di Venezia ha giudicato non attendibili i testimoni a discarico, la Corte ricorda che, come è stato precedentemente affermato, essa non è competente per sostituire la propria valutazione delle prove a quella  delle giurisdizioni interne.

    Ne consegue che questa doglianza è manifestamente infondata e deve essere respinta in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

4.  Il signor Bompressi lamenta di non essere stato informato immediatamente dei motivi del suo arresto. Invoca l’articolo 5 § 2 della Convenzione che così recita:

      “ Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi del suo arresto e di ogni accusa formulata a suo carico.”

    La Corte ricorda che conformemente all’articolo 35 § 1 della Convenzione, essa non può essere adita se non nel termine di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva. Quando un ricorrente lamenta una situazione continua, come uno stato di detenzione, questo termine decorre a partire dalla fine di questa ( vedereUzeyir c. Italia (decisione), n° 60268/00, 16 novembre 2000, non pubblicata

     Nella fattispecie, la detenzione seguita all’arresto del signor Bompressi è terminata il 18 ottobre 1988, cioè più di sei mesi prima della data di presentazione del ricorso (21 luglio 1997).

     Ne consegue che questa doglianza è tardiva e deve essere respinta in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,

Dichiara il ricorso irricevibile.

 Michael O’BOYLE                                                                     Nicolas BRATZA

       Cancelliere                                                                                   Presidente