sentenza 10 giugno 2003

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo CASO  SOFRI ed altri  contro ITALIA 
DECISIONE del 10 GIUGNO  2003 SULLA IRRICEVIBILITA’ del Ricorso n°  37235/97. 
Non ammissibilità dell’ esame nel merito, delle violazioni allegate dai ricorrenti circa l’articolo 6 (diritto all’equo processo) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in un processo penale, per presunto difetto di imparzialità delle giurisdizioni nazionali; per l’iniquità della procedura relativa alla loro domande di  revisione del processo e l’impossibilità di ottenere l’audizione in  contraddittorio  di un testimone. Infine, sotto l’angolo dell’articolo 5 § 2 (diritto alla  libertà ed alla sicurezza), il ricorrente  Bompressi lamentava di non essere stato informato prontamente dei motivi del suo arresto.

   

COMUNICATO STAMPA

(traduzione non ufficiale a cura del dott. Corrado Quinto )

Una Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso nel caso Sofri e altri c. Italia (n°37235/97). (La decisione è redatta in francese)

I ricorrenti

Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani sono cittadini italiani nati rispettivamente nel 1942, 1947 e 1943. I ricorrenti furono condannati a 22 anni di reclusione per omicidio volontario. Il signor Sofri è attualmente detenuto nella prigione di Pisa, il signor Bompressi beneficia della sospensione condizionale della pena per motivi di salute, mentre M. Pietrostefani è attualmente irreperibile.

 

In sintesi il fatto

Il 17 maggio 1972, il commissario di polizia Calabresi fu ucciso a Milano da un uomo che fuggì con un’auto rubata. Il signor Calabresi era noto da quando era stato accusato, durante le manifestazioni di estrema sinistra, di avere spinto un anarchico dalla finestra dopo un interrogatorio, nel 1969. Le indagini condotte dopo il suo assassinio non portarono alcun risultato.

Il 20 luglio 1988, il signor Leonardo Marino si presentò spontaneamente al commissariato di polizia. Dichiarò di aver preso parte all’omicidio del signor Calabresi su ordine dei signori Sofri e Pietrostefani, a capo dell’associazione politica di sinistra “Lotta continua”, seguendo la decisione del comitato esecutivo della medesima. Accusò ugualmente il signor Bompressi di essere l’autore dell’omicidio. Il 28 luglio 1988, i ricorrenti furono arrestati. Furono rimessi in libertà il 18 ottobre 1988 e rinviati a giudizio alla corte d’assise di Milano il 5 agosto 1989 per omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione. A loro richiesta, il tempo che gli era stato assegnato per preparare la loro difesa e consultare il dossier del Pubblico ministero –consistente in 12.000 pagine- fu portato da 10 a 26 giorni. Si venne a sapere  nel corso del processo che alcuni elementi (i vestiti del commissario Calabresi, l’auto utilizzata dagli assassini e i proiettili prelevati sul cadavere) non erano disponibili in quanto erano stati persi o distrutti.

 

Il 2 maggio 1990, la corte d’assise condannò i ricorrenti a 22 anni di carcere e il signor Marino a 11 anni a motivo della sua collaborazione con le autorità giudiziarie. La corte ritenne che quest’ultimo fosse un testimone credibile e che le sue dichiarazioni  fossero confermate da numerosi elementi.

 

Il 21 dicembre 1993, al termine di un nuovo giudizio su rinvio della Corte di Cassazione, la Corte  d’Assise d’Appello prosciolse i ricorrenti e il signor Marino. La sentenza redatta dal giudice Pincioni, indicava che le dichiarazioni del signor Marino erano esatte e coerenti ma esprimeva dei dubbi circa alcune circostanze di fatto che non erano sufficientemente confermate da altri elementi e che costituivano “zone d’ombra” nel racconto del signor Marino. Il signor Sofri sporse una denuncia penale contro il giudice, ma il pubblico ministero decise di archiviarla.

Il 27 ottobre 1994, su ricorso del procuratore generale, la Corte di Cassazione annullò la sentenza della Corte d’Assise d’Appello in ragione della sua motivazione illogica, contraddittoria e insufficiente, e rinviò la causa  ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano. L’11 novembre 1955, questa pronunciò la sentenza con la quale condannava i ricorrenti a 22 anni di prigione e proscioglieva il signor Marino,  per prescrizione del reato nei suoi confronti.

I ricorrenti investirono la Corte di Cassazione, che respinse la loro istanza il 22 gennaio 1997.

Essendo stato informato che secondo due membri della giuria, il presidente della Corte d’Assise d’Appello, il signor Della Torre, avrebbe incoraggiato i giurati a modificare il loro voto in modo da ottenere la condanna dei ricorrenti, il signor Sofri sporse contro di lui una denuncia penale per abuso di potere. Tale denuncia non portò ad alcuna procedura.

Affermando che secondo nuovi elementi  il signor Marino non era un testimone affidabile e che essi avrebbero dovuto essere prosciolti, i ricorrenti proposero un’istanza di revisione . La loro richiesta fu accettata dalla Corte d’Appello dopo un nuovo giudizio di rinvio in Cassazione. Nel corso dei dibattimenti, i ricorrenti chiesero l’audizione escussione della signora Bistolfi, compagna del signor Marino. Questa si avvalse del diritto di non rispondere. Con una sentenza del 24 gennaio 2000, la Corte respinse la domanda di revisione con la motivazione  che gli elementi prodotti non giustificavano il proscioglimento degli interessati. I signori Sofri e Pietrostefani ricorsero in Cassazione ma la loro richiesta non fu accolta.

Procedura

Il ricorso è stato presentato alla Commissione europea dei diritti umani il 21 luglio 1997. Il 4 marzo 2003, la camera ha tenuto udienza sulla ricevibilità della causa.

Motivi del ricorso

Invocando l’articolo 6 (diritto ad un equo processo) della Convenzione europea dei diritti umani, i ricorrenti denunciavano il carattere iniquo della procedura penale di cui essi avevano fatto l’oggetto e dell’assenza d’imparzialità delle giurisdizioni nazionali. Peraltro, denunciavano  l’iniquità della procedura relativa alla loro richiesta di revisione e l’impossibilità in cui si erano trovati di ottenere l’audizione in  contraddittorio della signora Bistolfi. Infine, secondo l’articolo 5 § 2 ( diritto alla libertà ed alla sicurezza), il signor Bompressi si lamentava di non essere stato informato prontamente dei motivi del suo arresto.

 

Decisione della Corte

 

La Corte ritiene che le eccezioni preliminari di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne sollevate dal Governo debbano essere respinte.

 

Quanto alle pretese  dei ricorrenti relative alla procedura di prima istanza, la Corte fa rilevare che gli interessati hanno già ottenuto una modifica delle loro doglianze a livello interno per via dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Non potendosi più pretendere vittime ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, la Corte decide di respingere tali doglianze.

 

Dal punto di vista di parità delle armi, i ricorrenti denunciavano il fatto di non avere disposto dei processi verbali delle prime dichiarazioni del signor Marino ai carabinieri; contestavano la veridicità delle affermazioni di quest’ultimo e si lamentavano che non erano state prese in considerazione testimonianze a discolpa. La Corte ricorda che non è di sua competenza pronunciarsi sulla valutazione dei fatti sottoposti alle giurisdizioni nazionali, ma che esamina se la procedura nel suo insieme abbia avuto carattere equo. Nella fattispecie, la Corte rileva che la condanna dei ricorrenti è sopraggiunta al termine di un processo in contraddittorio tra le parti e sulla base di prove discusse in udienza. Peraltro, i ricorrenti che invocavano una violazione della presunzione di innocenza, non hanno indicato alcuna decisione pronunciata prima della loro condanna che contenga un accertamento di colpevolezza. Pertanto, tale doglianza è infondata e deve essere rigettata.

 

Quanto alla distruzione e allo smarrimento di alcune prove, a giudizio della Corte, è molto deplorevole che elementi di prova concernenti un processo per omicidio siano stati distrutti poco tempo dopo che erano stati esaminati alcuni indiziati. Tuttavia, essa rileva che questa situazione non ha sfavorito i ricorrenti rispetto alla pubblica accusa. Infatti, il pubblico ministero si trovò anch’esso nell’impossibilità di servirsi degli elementi di prova distrutti o smarriti, così che le parti al processo furono messe su un piano di parità. Bisogna d’altra parte notare che alcuni di questi elementi di prova avevano costituito l’oggetto di descrizione, di esame ed erano state fotografate prima della loro distruzione, fatto che permise ai ricorrenti di esercitare i diritti della difesa che li concernevano. In tali circostanze, la loro distruzione non ha leso l’equità della procedura, così che la Corte dichiara questa doglianza infondata.

I ricorrenti lamentano anche di non essere stati giudicati da un tribunale indipendente e imparziale a causa della mancanza d’imparzialità dei giudici Pincioni e Della Torre essendo già a conoscenza di tale processo. La Corte non vede alcun elemento che permetta di mettere in dubbio l’imparzialità personale del signor Pincioni, e ritiene che niente permetta di stabilire che i timori dei ricorrenti sulla sua imparzialità fossero obiettivamente giustificati. D'altronde, il disaccordo del signor Pincioni con il verdetto di proscioglimento non potrebbe da solo sollevare una questione secondo l’articolo 6 della Convenzione, e niente prova che fosse un giudice dissidente come affermano i ricorrenti. Quanto al signor Della Torre, la Corte nota che nel dossier niente fa pensare che la sua valutazione dei fatti sia stata arbitraria. La Corte non potrebbe considerare come stabilito che egli abbia fatto pressioni sui giurati, come affermano i ricorrenti o che il suo comportamento abbia potuto insinuare dubbi obiettivamente giustificati sulla sua imparzialità. Di conseguenza, la Corte dichiara questa doglianza infondata.

 

Quanto alle testimonianze secondo le quali il signor La Torre non avrebbe mostrato la massima discrezione in merito ai fatti che era chiamato a giudicare, la Corte fa rilevare che pur supponendo che tale ricorso non sia tardivo, i ricorrenti non hanno fatto uso del ricorso di ricusazione che potevano esercitare. Dichiara, quindi, questa doglianza  irricevibile per mancato utilizzo delle vie di ricorso interne.

 

Nella loro memoria inviata alla Corte nel febbraio 2002, i ricorrenti facendo valere per la prima volta che uno dei giurati era la figlia di un agente di polizia, e perciò avrebbe avuto interessi contrari ad una delle parti al processo. La Corte respinge questa doglianza  che considera tardiva poiché è stata sollevata più di sei mesi dopo la data di decisione interna definitiva.

 

I ricorrenti si erano parimenti lamentati dell’iniquità della procedura di revisione per la mancanza di credibilità accordata ai testimoni a discarico  e della  facoltà di mantenere il silenzio di cui aveva beneficiato la signora Bistolfi. Ora, La Corte fa notare che i ricorrenti hanno avuto la facoltà  di interrogare questa persona prima del processo di revisione, d’altra parte, le dichiarazioni di quest’ultima sono solo un elemento servito a corroborare la principale prova a carico, cioè la confessione del signor Marino che i ricorrenti hanno potuto interrogare a più riprese. In tali circostanze, la Corte ritiene che la procedura di revisione non abbia toccato i diritti della difesa al punto di violare la Convenzione. Infine, quanto all’assenza di credibilità accordata a certe testimonianze, la Corte ricorda che non le compete sostituire il suo giudizio a quello delle giurisdizioni nazionali.

Quanto alla  doglianza  sollevata dal signor Bompressi secondo il quale non sarebbe stato informato tempestivamente dei motivi del suo arresto, la Corte fa rilevare che essa è tardiva e deve essere respinta.

 

COMUNICATO STAMPA

Une chambre de la Cour européenne des Droits de l’Homme a déclaré irrecevable la requête dans l’affaireSofri et autres c. Italie (no 37235/97). (La décision n’existe qu’en français.)

Les requérants

Adriano Sofri, Ovidio Bompressi et Giorgio Pietrostefani sont des ressotissants italiens nés en 1942, 1947 et 1943 respectivement. Les requérants furent condamnés à 22 ans de prison pour homicide volontaire. M. Sofri est actuellement détenu à la prison de Pise, M. Bompressi bénéficie d’un sursis à l’exécution de la peine pour raisons de santé, tandis que M. Pietrostefani est actuellement introuvable.

Résumé des faits

Le 17 mai 1972, le commissaire de police Calabresi fut abattu à Milan par un homme qui prit la fuite à bord d’une voiture volée. M. Calabresi était connu du public depuis qu’il avait été accusé, durant les manifestations d’extrême gauche, d’avoir poussé un anarchiste par la fenêtre après l’avoir interrogé en 1969. Les investigations menées après son assassinat n’aboutirent pas.

Le 20 juillet 1988, M. Leonardo Marino se présenta spontanément au commissariat de police. Il déclara avoir pris part à l’homicide de M. Calabresi sur ordre de MM. Sofri et Pietrostefani, dirigeants de l’association politique de gauche « Lotta Continua », suivant la décision du comité exécutif de celle-ci. Il accusa également M. Bompressi d’être l’auteur de l’homicide. Le 28 juillet 1988, les requérants furent arrêtés. Ils furent remis en liberté le 18 octobre 1988 et renvoyés en jugement devant la cour d’assises de Milan le 5 août 1989 pour homicide volontaire avec préméditation. A leur demande, le temps qui leur était imparti pour préparer leur défense et consulter le dossier du ministère public – qui comptait 12 000 pages – fut porté de 10 à 26 jours. Il s’avéra au cours du procès que certains éléments (tels les vêtements du commissaire Calabresi, la voiture utilisée par les assassins et les balles prélevées sur le cadavre) n’étaient pas disponibles parce qu’ils avaient été perdus ou détruits.

Le 2 mai 1990, la cour d’assises condamna les requérants à 22 ans d’emprisonnement et M. Marino à 11 ans en raison de sa coopération avec les autorités judiciaires. La cour estima que ce dernier était un témoin crédible et que ses déclarations étaient corroborées par de nombreux éléments.

Le 21 décembre 1993, au terme d’un nouveau jugement sur renvoi de la Cour de cassation, la cour d’assises d’appel acquitta les requérants et M. Marino. L’arrêt, rédigé par le juge Pincioni, indiquait que les déclarations de M. Marino étaient précises et cohérentes mais exprimait des doutes concernant certaines circonstances de fait qui n’étaient pas suffisamment confirmées par d’autres éléments et qui constituaient des « zones d’ombre » dans le récit de M. Marino. M. Sofri déposa une plainte pénale contre le juge, mais le ministère public décida de la classer sans suite.

Le 27 octobre 1994, sur pourvoi du procureur général, la Cour de cassation annula l’arrêt de la cour d’assises d’appel en raison de sa motivation illogique, contradictoire et insuffisante, et renvoya l’affaire devant une autre section de la cour d’assises d’appel de Milan. Le 11 novembre 1995, celle-ci rendit son arrêt par lequel elle condamnait les requérants à 22 ans d’emprisonnement et acquittait M. Marino, l’infraction s’étant entre-temps prescrite à son égard. Les requérants saisirent la Cour de cassation, qui les débouta le 22 janvier 1997.

Ayant appris que selon deux membres du jury, le président de la cour d’assises d’appel, M. Della Torre, aurait encouragé les jurés à modifier leur vote de manière à obtenir la condamnation des requérants, M. Sofri déposa contre lui une plainte pénale pour abus de fonctions. Cette plainte ne déboucha sur aucune procédure.

Affirmant que selon de nouveaux éléments M. Marino n’était pas un témoin fiable et qu’ils auraient dû être acquittés, les requérants introduisirent une demande en révision. Leur demande fut acceptée par la cour d’appel après un nouveau jugement sur renvoi après cassation. Au cours des débats, les requérants demandèrent l’audition de Mme Bistolfi, compagne de M. Marino. Celle-ci se prévalut de son droit de garder le silence. Par un arrêt du 24 janvier 2000, la cour rejeta la demande en révision au motif que les éléments produits ne justifiaient pas l’acquittement des intéressés. MM. Sofri et Pietrostefani se pourvurent en cassation mais furent déboutés.

Procédure

La requête a été introduite devant la Commission européenne des Droits de l’Homme le 21 juillet 1997. Le 4 mars 2003, la chambre a tenu une audience sur la recevabilité de l’affaire.

Griefs

Invoquant l’article 6 (droit à un procès équitable) de la Convention européenne des Droits de l’Homme, les requérants se plaignaient du caractère inéquitable de la procédure pénale dont ils avaient fait l’objet et du manque d’impartialité des juridictions nationales. Par ailleurs, ils dénonçaient l’iniquité de la procédure relative à leur demande en révision et l’impossibilité où ils s’étaient trouvés d’obtenir l’audition contradictoire de Mme Bistolfi. Enfin, sous l’angle de l’article 5 § 2 (droit à la liberté et à la sûreté), M. Bompressi se plaignait de n’avoir pas été informé promptement des motifs de son arrestation.

Décision de la Cour

La Cour estime que les exceptions préliminaires de non-épuisement des voies de recours internes soulevées par le Gouvernement doivent être rejetées.

En ce qui concerne les allégations des requérants relatives à la procédure de première instance, la Cour relève que les intéressés ont déjà obtenu un redressement de leurs griefs au niveau interne du fait de l’annulation par la Cour de cassation de l’arrêt de la cour d’assises d’appel de Milan. Etant donné qu’ils ne peuvent plus se prétendre victimes au sens de l’article 34 de la Convention, la Cour décide de rejeter ces griefs.

Sous l’angle de l’égalité des armes, les requérants dénonçaient le fait de n’avoir pas disposé des procès-verbaux des premières déclarations de M. Marino aux carabiniers ; ils contestaient la véracité des affirmations de ce dernier et se plaignaient que des témoignages à décharge n’aient pas été retenus. La Cour rappelle qu’il ne lui appartient pas de se prononcer sur l’appréciation des faits soumis aux juridictions nationales, mais qu’elle recherche si la procédure dans son ensemble a revêtu un caractère équitable. En l’espèce, la Cour relève que la condamnation des requérants est intervenue au terme d’une procédure contradictoire et sur la base de preuves discutées à l’audience. Par ailleurs, les requérants qui invoquaient une violation de la présomption d’innocence, n’ont indiqué aucune décision rendue avant leur condamnation renfermant un constat de culpabilité. Dès lors, ce grief est mal fondé et doit être rejeté.

Quant à la destruction et la perte de certaines preuves, de l’avis de la Cour, il est fort regrettable que des éléments de preuve concernant un procès pour homicide aient été détruits peu de temps après la mise en examen des suspects. Toutefois, elle relève que cette situation n’a pas désavantagé les requérants par rapport au parquet. En effet, le ministère public fut lui aussi dans l’impossibilité de se servir des éléments de preuves détruits ou égarés, si bien que les parties au procès furent placés sur un plan d’égalité. Il faut par ailleurs relever que certains de ces éléments de preuve avaient fait l’objet de description, d’examen et avaient été photographiés avant leur destruction, ce qui permit aux requérants d’exercer les droits de la défense les concernant. Dans ces circonstances, leur destruction n’a pas porté atteinte à l’équité de la procédure, si bien que la Cour déclare ce grief mal fondé.

Les requérants se plaignaient également de ne pas avoir été jugés par un tribunal indépendant et impartial du fait du manque d’impartialité des juges Pincioni et Della Torre ayant eu à connaître de cette procédure. La Cour ne voit aucun élément permettant de mettre en doute l’impartialité personnelle de M. Pincioni, et estime que rien ne permet d’établir que les craintes des requérants sur son impartialité étaient objectivement justifiées. Par ailleurs, le désaccord de M. Pincioni avec le verdict d’acquittement ne saurait à lui seul soulever un problème sous l’angle de l’article 6 de la Convention, et rien ne prouve qu’il était un juge dissident comme l’affirment les requérants. Quant à M. Della Torre, la Cour note que rien dans le dossier ne permet de penser que son appréciation des faits ait été arbitraire. La Cour ne saurait considérer comme établi qu’il a fait des pressions sur les jurés, comme le soutiennent les requérants ou que son comportement ait pu faire naître des doutes objectivement justifiés sur son impartialité. Par conséquent, la Cour déclare ce grief mal fondé.

Quant aux témoignages selon lesquels M. Della Torre n’aurait pas fait preuve de la plus grande discrétion par rapport aux faits qu’il était appelé à juger, la Cour relève que même à supposer que ce grief ne soit pas tardif, les requérants n’ont pas fait usage du recours en récusation qu’ils pouvaient exercer. Elle déclare, dès lors, ce grief irrecevable pour non-épuisement des voies de recours internes.

Dans leur mémoire envoyé à la Cour en février 2002, les requérants faisaient valoir pour la première fois que l’un des jurés était la fille d’un agent de police, et aurait eu des intérêts contraires à l’une des parties au procès. La Cour rejette ce grief qu’elle considère tardif car il a été soulevé plus de six mois après la date de la décision interne définitive.

Les requérants s’étaient également plaints de l’iniquité de la procédure en révision en raison de l’absence de crédibilité accordée aux témoins à décharge ainsi que de la faculté de garder le silence dont Mme Bistolfi avait bénéficié. Or, la Cour relève que les requérants ont eu la faculté d’interroger cette personne avant le procès en révision ; par ailleurs, les déclarations de celle-ci ne sont qu’un élément ayant servi à corroborer la principale preuve à charge, à savoir la confession de M. Marino que les requérants ont pu interroger à maintes reprises. Dans ces circonstances, la Cour estime que la procédure en révision n’a pas porté atteinte aux droits de la défense au point d’enfreindre la Convention. Enfin, quant à l’absence de crédibilité accordée à certains témoignages, la Cour rappelle qu’il ne lui appartient pas de substituer son appréciation des preuves à celle des juridictions nationales.

Quant au grief soulevé par M. Bompressi selon lequel il n’aurait pas été informé dans les plus brefs délais des raisons de son arrestation, la Cour relève qu’il est tardif et doit être rejeté.

COUR EUROPEEE DES DROITS DE L’HOMME

QUATRIÈME SECTION

DÉCISION

SUR LA RECEVABILITÉ

de la requête no 37235/97
présentée par Adriano SOFRI et autres
contre l’Italie

La Cour européenne des Droits de l’Homme (quatrième section), siégeant les 4 mars 2003 et 27 mai 2003 en une chambre composée de :

          Sir     Nicolas Bratzaprésident,
          M.     M. 
Pellonpää,
          Mme   E. 
Palm,
          MM.  M. 
Fischbach,
                   J. 
Casadevall,
                   V. 
Zagrebelsky,
                   S. 
Pavlovschi, juges,
et de M. 
M. O’Boyle,
 greffier de section,

Vu la requête susmentionnée introduite devant la Commission européenne des Droits de l’Homme le 21 juillet 1997,

Vu l’article 5 § 2 du Protocole no 11 à la Convention, qui a transféré à la Cour la compétence pour examiner la requête,

Vu les observations soumises par le gouvernement défendeur et celles présentées en réponse par les requérants,

Vu les observations présentées oralement par les parties à l’audience du 4 mars 2003,

Après en avoir délibéré, rend la décision suivante :


 

EN FAIT

Les requérants, MM. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi et Giorgio Pietrostefani, sont des ressortissants italiens, nés respectivement en 1942, 1947 et 1943. M. Sofri est détenu à la prison de Pise, M. Bompressi bénéficie d’un sursis d’exécution de la peine pour des raisons de santé et M. Pietrostefani est actuellement introuvable. Ils sont représentés devant la Cour par Mes B. Nascimbene et E. Menzione, avocats à Milan. M. Sofri est également représenté par Mes A. Gamberini et M.S. Mori, avocats respectivement à Bologne et Milan. A l’audience du 4 mars 2003, M. Pietrostefani était représenté en outre par Mes J.J. De Felice et I. Terrel, avocats à Paris. Le Gouvernement défendeur était représenté par son agent, M. U. Leanza, et par son co-agent, M. F. Crisafulli.

A.  Les circonstances de l’espèce

Les faits de la cause, tels qu’ils ont été exposés par les parties, peuvent se résumer comme suit.

1.  Les événements ayant précédé l’homicide du commissaire Calabresi

Le 12 décembre 1969, une bombe éclata à la Banque de l’agriculture, à Milan. Plusieurs personnes perdirent la vie suite à cet attentat, qui semblait être inspiré par des raisons politiques.

Les investigations furent confiées au commissaire Luigi Calabresi qui écarta la thèse, soutenue par certains médias, selon laquelle l’extrême droite était responsable de l’attentat, et poursuivit une piste anarchiste. En décembre 1969, le commissaire Calabresi et ses collaborateurs interrogèrent dans les locaux de la police de Milan M. Luigi Pinelli, un employé de la société des chemins de fer faisant partie d’un groupe anarchiste. A l’issue de cet interrogatoire, M. Pinelli chuta de la fenêtre de la chambre où il se trouvait et décéda.

Par la suite, le commissaire Calabresi fut accusé, au cours de nombreuses manifestations publiques organisées par l’extrême gauche, d’être l’assassin de M. Pinelli. Le journal du mouvement politique « Lotta continua », dont MM. Sofri et Pietrostefani étaient les dirigeants, publia des articles très durs à l’égard du commissaire Calabresi. Les poursuites entamées à l’encontre de ce dernier aboutirent à un non-lieu.


 

2.  L’assassinat du commissaire Calabresi et la procédure de première instance

Le 17 mai 1972, le commissaire Calabresi fut assassiné à Milan par un jeune homme. L’assassin avait tiré deux coups d’arme à feu et s’était enfui avec un complice à bord d’une voiture volée, une FIAT 125 bleue. Ils avaient ensuite eu un accident de la circulation avant de s’éloigner.

Le 25 août 1972, la voiture utilisée par les meurtriers fut placée dans un garage par les autorités.

Cinq témoins fournirent des renseignements concernant les jours précédant l’assassinat ; dix-sept témoins fournirent des éléments concernant l’assassinat. L’un de ces témoins, M. G., affirma avoir clairement vu l’assassin et pouvoir le reconnaître. Un autre témoin affirma avoir vu deux personnes, un homme et une femme, descendre d’une FIAT 125 bleue. Ces deux personnes auraient ensuite rejoint une autre voiture où un autre homme les attendait.

Des expertises furent effectuées sur la FIAT 125 et sur le lieu du crime.

Les enquêtes n’aboutirent pas.

Le 20 juillet 1988, M. Leonardo Marino se présenta au commissariat de police ; interrogé par le Procureur de la République près le tribunal de Milan, le 21 juillet, il déclara avoir pris part à l’homicide de Calabresi sur ordre des dirigeants du mouvement Lotta Continua, MM. Adriano Sofri et Giorgio Pietrostefani. Cet ordre aurait été confirmé par les deux mandants le 13 mai 1972 après une réunion électorale tenue à Pise. L’homicide avait été décidé par le Comité Exécutif de l’association pour des raisons politiques. Le 26 juillet, M. Marino accusa M. Ovidio Bompressi d’avoir été l’auteur du meurtre. Il précisa l’avoir attendu dans la voiture FIAT 125 bleue qui avait été volée la nuit précédant le meurtre.

A la demande du Procureur de la République, le 28 juillet 1988, le juge d’instruction de Milan décerna un mandat d’arrêt à l’encontre des requérants, qui furent arrêtés le même jour. Le mandat en question indiquait le crime pour lequel ils étaient poursuivis. Les 1er, 3 et 4 août 1988, les requérants furent interrogés par le juge d’instruction.

Le 12 septembre 1988, les requérants furent assignés à domicile ; il furent remis en liberté le 18 octobre 1988.

Les 9 et 16 septembre 1988, les requérants demandèrent l’accomplissement d’une expertise sur la voiture utilisée par les assassins afin de déceler la présence d’empreintes digitales.

M. Marino fut confronté le 16 septembre 1988 à M. Sofri, et le 20 septembre à M. Bompressi.

Les requérants nièrent avoir participé à l’homicide et nièrent l’existence d’un Comité Exécutif illégal du mouvement Lotta Continua.

M. Bompressi demanda au juge d’instruction d’examiner quatre personnes qui auraient pu témoigner que le jour de l’homicide il se trouvait à Massa ; le juge d’instruction rejeta cette demande.

Les dossiers du Procureur de la République contenant les éléments de preuve recueillis à la charge des requérants comptaient 12 000 pages.

En juillet 1989, ces dossiers furent portés à la connaissance des requérants et de leurs avocats, qui disposaient, selon la loi, de dix jours pour présenter leurs défenses.

Compte tenu de la masse de documents à examiner, les requérants demandèrent au juge d’instruction une prorogation de ce délai ; le juge fit droit à cette demande et le délai fut porté à 26 jours.

Le 5 août 1989, MM. Marino, Sofri, Pietrostefani et Bompressi furent renvoyés en jugement pour homicide volontaire avec préméditation devant la cour d’assises de Milan. MM. Marino, Bompressi et Pietrostefani, ainsi que d’autres inculpés furent également renvoyés en jugement pour certains vols à main armée.

La première audience se tint le 27 novembre 1989. Au cours de 26 audiences, 159 témoins furent examinés, y compris M. Marino et les quatre témoins indiqués par M. Bompressi au cours des enquêtes préliminaires.

Marino déclara notamment avoir contacté les carabiniers au moins 19 jours avant la date de sa déposition officielle (20 juillet 1988) et précisa que le 13 mai 1972 seul Sofri était présent à la réunion électorale de Pise.

Au cours du procès de première instance, il fut constaté que certains éléments de preuve concernant le meurtre n’étaient pas disponibles. En particulier, les vêtements du commissaire Calabresi avaient été égarés tout de suite après l’homicide, ayant été d’abord délivrés au Préfet de Milan et ayant ensuite disparu. Le 31 décembre 1988, la voiture FIAT 125 utilisée par les meurtriers avait été détruite. Elle avait ensuite été effacée du registre public des véhicules (Pubblico Registro Automobilistico) au motif qu’elle n’avait pas payé la taxe de circulation pour la période 1978-1983.

Les balles retrouvées dans le cadavre du commissaire Calabresi avaient disparu après le mois de juillet de 1988. Il ressort d’une ordonnance du tribunal de Milan du 5 avril 1979 que tous les objets ayant été utilisés pour commettre des crimes (corpi di reato) et conservés depuis plus de dix ans devaient être confisqués. Les objets ayant une valeur commerciale devaient ensuite être vendus aux enchères, les autres devaient être détruits. Cette ordonnance fut confirmée par une note du Président du tribunal du 15 février 1989. Le 7 avril 1989, le Président du tribunal, observant que plusieurs objets utilisés pour commettre des crimes et conservés dans les archives du tribunal avaient été sérieusement endommagés par des infiltrations d’eau, ordonna leur destruction. Dans une note du 12 février 2001, le directeur du bureau chargé de la conservation des objets ayant été utilisés pour commettre des crimes certifia que les balles retrouvées dans le cadavre du commissaire Calabresi avaient été détruites, en même temps que beaucoup d’autres objets, en exécution des ordonnances mentionnées ci-dessus.

Le 2 avril 1990, les avocats des requérants présentèrent un communiqué dans lequel ils exprimaient leur regret pour la destruction ou disparition des éléments de preuve. Ils soulignèrent, en particulier, que des analyses sur les vêtements du commissaire Calabresi auraient pu déterminer la puissance de la cartouche et clarifier si l’arme utilisée était longue ou courte. Une expertise balistique aurait pu être effectuée sur les balles. Quant à la voiture, elle aurait pu servir pour vérifier si les modalités de son vol correspondaient à celles décrites par M. Marino.

Par un arrêt du 2 mai 1990, la cour d’assises de Milan condamna les requérants à une peine de vingt-deux ans d’emprisonnement. M. Marino fut condamné à onze ans d’emprisonnement ; des circonstances atténuantes lui furent reconnues en raison de sa coopération avec les autorités judiciaires. La cour d’assises estima que M. Marino était intrinsèquement et extrinsèquement crédible, et que ses déclarations avaient été confirmées par de nombreux éléments, tels que les expertises effectuées au cours des enquêtes et du procès, les résultats des enquêtes de la police, les déclarations des témoins. La cour estima par contre que les nombreux témoins à décharge étaient intéressés ou manquaient de précision, et n’étaient donc pas crédibles.

Quant à la destruction de certains éléments de preuve, la cour d’assises observa que cette circonstance était sans doute regrettable, mais qu’elle n’avait eu aucune influence réelle sur l’ensemble du matériel acquis à la charge des accusés au cours de l’instruction et des débats. En effet, tout de suite après le meurtre la police avait effectué des analyses sur la voiture utilisée par les assassins et les balles avaient formé l’objet de deux expertises balistiques approfondies. Certes, la destruction empêchait de renouveler les expertises et les analyses. Cependant, un tel renouvellement était souhaitable seulement s’il s’avérait utile pour établir les faits. En l’espèce, les requérants alléguaient, par exemple, qu’un examen de la voiture aurait pu établir si, comme Marino l’affirmait, le miroir rétroviseur extérieur avait subi une pression à l’aide d’un tournevis (circonstance qui n’était pas mentionnée dans les procès-verbaux rédigés par la police). Or, même à supposer que les traces en question pouvaient être décelées dix-huit ans après les faits, l’absence d’une confirmation extérieure aux affirmations de M. Marino n’était pas de nature, en soi, à mettre en doute les déclarations du repenti. Si, à la lumière du matériel disponible, ces dernières étaient estimées précises et crédibles, elles pouvaient à juste titre être utilisées pour fonder une condamnation.

Le Président de la cour d’assises de Milan, M. Manlio Minale, avait été affecté au bureau du Procureur de la République de Milan le 24 janvier 1990. M. Minale avait pris ses nouvelles fonctions le 11 octobre 1990, c’est-à-dire avant de signer le texte de l’arrêt de la cour d’assises de Milan, déposé au greffe le 11 janvier 1991.

3.  La procédure d’appel

Les deuxième et troisième requérants interjetèrent appel de ce jugement, contestant notamment la crédibilité de M. Marino et affirmant que ses déclarations cachaient de nombreuses contradictions.

M. Bompressi demanda de retrouver les vêtements de Calabresi et de produire les résultats des enquêtes menées par Calabresi avant sa mort ; il sollicita également une expertise balistique pour déterminer le type d’arme à feu utilisée pour le meurtre et la réouverture de l’instruction.

M. Pietrostefani excipa de la nullité de l’ordonnance de renvoi en jugement, au motif que les accusés n’avaient disposé que de 26 jours pour préparer leur défense, alors que la quantité de documents et actes imposait un délai plus long. Il demanda également de rouvrir l’instruction.

M. Sofri n’interjeta pas appel. Cependant, sa position fut examinée au cours du procès devant la cour d’assises d’appel de Milan et dans les successifs degrés de juridiction en vertu de l’article 587 § 1 du code de procédure pénale (ci-après, le CPP), qui prévoit « l’extension du recours » (Estensione dell’impugnazione, voir ci-après, sous « Droit interne pertinent »).

Le 23 avril 1991, M. Pietrostefani demanda que le procès fût transféré devant la cour d’assises d’appel d’une autre ville. Il rappela que la victime avait travaillé à Milan et allégua que le climat politique dans cette ville était hostile aux accusés. Il excipa également du manque d’indépendance des juges de Milan, au motif qu’au moment de signer le texte de l’arrêt de première instance, le M. Minale avait pris ses fonctions au sein du parquet.

Par un arrêt du 13 mai 1991, dont le texte fut déposé au greffe le 31 mai 1991, la Cour de cassation rejeta cette demande, observant qu’aucun signe de préjudice de nature politique ou idéologique n’aurait su être décelé au sein de l’ensemble des magistrats milanais. Elle estima en outre que si, comme le voulait M. Pietrostefani, l’affectation du juge Minale avait été faite pour pénaliser les accusés, le préjudice dirigé à l’encontre de ces derniers aurait concerné également le Conseil Supérieur de la Magistrature, ce qui rendait inutile le transfert du procès devant la cour d’assises d’une ville autre que Milan.

Au cours du procès d’appel, la cour d’assises d’appel ordonna de renouveler les expertises balistiques ; ces dernières furent cependant effectuées sur des photographies, les balles retrouvées dans le cadavre du commissaire Calabresi ayant entre-temps été détruites.

Par un arrêt du 12 juillet 1991, dont le texte fut déposé au greffe le 8 janvier 1992, la cour d’assises d’appel de Milan confirma la décision de première instance. Elle considéra que M. Marino avait été poussé à avouer son crime par un repentir sincère ; ses déclarations étaient par ailleurs crédibles et corroborées par d’autres éléments de preuve, notamment des documents et les déclarations d’autres témoins. La cour d’assises d’appel estima en outre que, eu égard au contenu de certains articles parus dans le journal de Lotta Continua, le mobile de l’homicide avait été clairement établi.

4.  La première procédure en cassation

Les deuxième et troisième requérants se pourvurent en cassation. Ils faisaient valoir en particulier que la motivation de l’arrêt du 12 juillet 1991 était illogique et que la crédibilité intrinsèque et extrinsèque de M. Marino n’avait point été démontrée.

Le 15 juillet 1992, l’affaire fut renvoyée devant l’Assemblée Plénière de la Cour de Cassation.

Par un arrêt du 21 octobre 1992, dont le texte fut déposé au greffe le 22 février 1993, l’Assemblée Plénière de la Cour de cassation annula pour motivation illogique la partie de l’arrêt d’appel concernant le chef d’accusation d’homicide à l’encontre des deux requérants s’étant pourvus en  cassation, et indiqua la cour d’assises d’appel de Milan comme juridiction de renvoi. En vertu de l’« extension » prévue par l’article 587 § 1 du CPP, cette décision fut également appliquée à M. Sofri.

La Cour de cassation considéra notamment que la juridiction d’appel avait fondé sa décision sur la crédibilité intrinsèque de M. Marino, crédibilité qui n’avait pas été démontrée. Elle rappela que la crédibilité d’un ancien complice doit être établie en premier lieu par rapport aux éléments suivants : ses conditions sociales, économiques et familiales, son passé, ses rapports avec les anciens complices, la genèse - lointaine et récente - de la décision de confesser et d’accuser les complices. Ensuite, il faut examiner la cohérence intrinsèque de ses déclarations à l’aide des critères élaborés par la jurisprudence, notamment la précision, la cohérence, la constance et la spontanéité. Seulement après en avoir établi la crédibilité, le juge doit examiner les éléments qui confirment les déclarations de l’ancien complice (riscontri).

5.  La première procédure devant la juridiction de renvoi

Par un arrêt du 21 décembre 1993, dont le texte fut déposé au greffe le 23 mars 1994, la deuxième section de la cour d’assises d’appel de Milan, présidée par M. Gnocchi, acquitta les deux requérants ayant interjeté appel ainsi que, par « extension », M. Sofri et M. Marino.

Le texte de l’arrêt, rédigé par M. Pincioni et composé de 387 pages, faisait état des éléments démontrant le repentir sincère de M. Marino, le manque d’intention de sa part d’accuser injustement les requérants, le manque de haine envers eux, l’inexistence d’un complot contre les requérants. Ceci amenait à penser que M. Marino était, a priori, crédible. L’arrêt procédait ensuite, comme la Cour de cassation l’avait indiqué, à examiner la cohérence intrinsèque des déclarations de M. Marino, et concluait que sa confession n’était due à aucune coercition ou conditionnement psychique, d’autant plus qu’il n’était accusé ou poursuivi pour aucune autre infraction et que par conséquent il n’avait aucun intérêt à accuser les requérants. M. Marino avait été précis et cohérent, malgré certaines contradictions sans doute dues au laps de temps s’étant écoulé depuis le meurtre et à la pression psychologique à laquelle il avait été soumis. Il fallait, par ailleurs, tenir compte de la différence de culture qui existait entre M. Marino et MM. Sofri et Pietrostefani, et des difficultés que le repenti avait rencontrées lorsqu’il avait été appelé à répondre aux nombreuses questions posées par les requérants. Pour ce qui était des éléments corroborant les déclarations de M. Marino, l’existence d’un Comité Exécutif illégal de Lotta Continua devait être tenue pour établie ; par ailleurs, plusieurs affirmations de M. Marino correspondaient aux résultats des enquêtes de police et étaient compatibles avec les versions de nombreux témoins. Pour ce qui était notamment de l’absence d’empreintes digitales à l’intérieur de la voiture utilisée par les meurtriers, cette circonstance s’expliquait par le fait que les parties qui auraient pu être touchées n’étaient pas lisses.

Cependant, dans ses cinq dernières pages, l’arrêt du 21 décembre 1993 se pencha sur six circonstances de fait, qui n’étaient pas suffisamment confirmées par d’autres éléments, et qui constituaient des « points obscurs » dans la version du repenti. Ces circonstances étaient notamment :

1)  le fait que M. Marino s’était trompé dans l’indication de la couleur de la voiture utilisée pour commettre le meurtre ;

2)  le fait que dans ses premières déclarations il n’avait pas précisé connaître un certain « Luigi », personne qui l’aurait aidé dans la préparation du meurtre et dans le vol de la voiture FIAT 125 ;

3)  le fait que M. Marino affirmait que l’accident de la circulation survenu toute de suite après le meurtre avait eu lieu dans un parking, alors qu’un témoin oculaire indiquait un autre endroit ;

4)  le fait que M. Marino affirmait avoir parcouru un bout de chemin à marche arrière juste avant le meurtre, ce qui était démenti par des témoins oculaires ;

5)  le fait que certains témoignages indiquaient que la voiture des meurtriers était conduite par une femme, et non par M. Marino (cette circonstance était confirmée par le fait que dans la voiture en question la police avait retrouvée des lunettes pour femme) ;

6)  le fait que M. Marino ne se souvenait pas de certains objets retrouvés dans la voiture et qui n’appartenaient pas au propriétaire de celle-ci.

Les circonstances citées ci-dessus empêchaient de conclure que la version de M. Marino était suffisamment corroborée par d’autres éléments, de manière que la présence du repenti à Milan le jour du meurtre ne pouvait pas être considérée comme prouvée. La culpabilité de M. Marino ne pouvant pas être établie, ses déclarations devaient être estimées non crédibles aussi dans la mesure où elles portaient sur les actions prétendûment commises par les requérants. De ce fait, il ne s’imposait pas de prendre en considération la partie de la version du repenti concernant la responsabilité des requérants.

Les requérants affirment que M. Pincioni était un juge dissident par rapport au verdict d’acquittement prononcé en leur faveur par la deuxième section de la cour d’assises d’appel de Milan. Par un courrier du 10 octobre 2001, le greffe de la Cour a invité le gouvernement défendeur a indiquer si cette affirmation était correcte et de fonder sa réponse sur tout document pertinent.

Par une note du ministère de la Justice du 19 novembre 2001, le Gouvernement a indiqué qu’à l’issue des délibérations de la cour d’assises de Milan, composée, entre autres, par M. Pincioni, le Président de celle-ci avait déposé au greffe, conformément à l’article 125 § 5 du CPP, une enveloppe scellée et signée, contenant un procès verbal qui indiquait le nom du ou des juges dissidentes et la ou les questions auxquelles le désaccord se référait. Le Gouvernement relève que l’existence même de l’enveloppe en question démontre qu’au moins un des membres de la cour d’assises d’appel de Milan était dissident par rapport au verdict d’acquittement. Le nom ou les noms du ou des dissident(s) ne peu(ven)t cependant être connu(s) qu’en ouvrant l’enveloppe scellée. Toutefois, le Gouvernement de l’Italie estime que cette dernière ne peut pas être transmise à la Cour car :

1)  l’ouverture de l’enveloppe vise uniquement à protéger le magistrat dissident contre une éventuelle action judiciaire pour faute professionnelle ;

2)  l’article 16 § 5 de la loi no 117 de 1988 (loi sur la responsabilité civile des magistrats) prévoit que l’enveloppe soit transmise au tribunal devant lequel le Premier ministre aurait assigné les magistrats ayant prononcé la décision afin obtenir le remboursement de la somme versé à titre de dédommagement à la partie lésée.

Selon le Gouvernement, les dispositions internes prévoyant la possibilité de violer le secret d’une chambre de conseil auraient une nature exceptionnelle et ne sauraient se prêter à une interprétation extensive par analogie.

Les requérants s’opposent à la thèse du Gouvernement et considèrent que le refus de transmettre l’enveloppe en question à la Cour est inacceptable. Ainsi faisant, les autorités italiennes empêcheraient aux organes de la Convention l’accès au seul document qui pourrait prouver un point essentiel de leurs allégations. 

Le 7 avril 1994, M. Sofri porta plainte à l’encontre de M. Pincioni. Il souligna que ce juge avait rédigé un « arrêt suicidaire » - qui étalait sur 382 pages les éléments démontrant la culpabilité des requérants et seulement sur 5 pages les éléments de doute ayant poussé la cour d’assises d’appel à les acquitter.

Le parquet de Brescia demanda que cette plainte fût classée sans suite. Il observa notamment que les doléances de M. Sofri concernaient l’exercice de fonctions juridictionnelles de la part d’un magistrat de la cour d’assises d’appel. Les erreurs que ce dernier pouvait avoir commises dans la rédaction de l’arrêt ne constituaient pas des infractions pénales ; elles pouvaient, le cas échéant, être dénoncées dans le cadre d’un recours contre l’arrêt en question. Par une ordonnance du 12 mai 1994, le juge des investigations préliminaires de Brescia fit droit à la demande du parquet.

A l’égard de cette décision, M. Sofri réagit en observant qu’il ne s’était pas et ne se serait pas pourvu en cassation puisqu’il avait été acquitté et non pas condamné

6.  La deuxième procédure en cassation

Le Procureur Général de la République près la cour d’appel de Milan se pourvut en cassation contre l’arrêt du 21 décembre 1993. Il allégua que la motivation de la décision litigieuse était illogique et contradictoire.

Par un arrêt du 27 octobre 1994, dont le texte fut déposé au greffe le 20 décembre 1994, la Cour de cassation cassa l’arrêt du 21 décembre 1993 pour motivation illogique, contradictoire et insuffisante et renvoya l’affaire devant une autre section de la cour d’assises d’appel de Milan.

La Cour de cassation observa que la cour d’assises d’appel avait soigneusement examiné les aveux de M. Marino, les estimant pleinement crédibles et corroborés par d’autres éléments. Cependant, les quatre dernières pages de l’arrêt litigieux citaient des circonstances « obscures » qui auraient justifié un acquittement. Or, ce procédé était illogique et contradictoire, eu égard notamment au fait que lesdites circonstances « obscures » avaient en réalité été éclaircies dans la partie initiale du même arrêt, qui expliquait les raisons pour lesquelles elles n’étaient pas de nature à miner la version du repenti. De ce fait, les doutes avancés quant à la crédibilité de M. Marino n’étaient qu’apparents et ne s’appuyaient sur aucune raison solide et convaincante pouvant prévaloir sur les éléments de culpabilité énoncés dans la première partie de l’arrêt. La Cour de cassation critiqua également la décision de la cour d’assises d’appel de ne pas examiner la partie des déclarations du repenti portant sur la responsabilité des requérants.

7.  La deuxième procédure devant la juridiction de renvoi

Par un arrêt du 11 novembre 1995, dont le texte fut déposé au greffe le 20 avril 1996, la troisième section de la cour d’assises d’appel de Milan, après avoir acquis au dossier le livre « A viso aperto » contenant un entretient avec M. Renato Curcio, chef présumé des Brigades Rouges, et entendu comme témoin l’un des appartenants à cette organisation, condamna les requérants à une peine de vingt-deux ans d’emprisonnement. Elle déclara en outre que, compte tenu des circonstances atténuantes qui devaient être reconnues en l’espèce, les faits constitutifs de l’infraction reprochée à M. Marino étaient prescrits.

La cour d’assises d’appel estima que M. Marino s’était sincèrement repenti, qu’il ne ressentait aucune haine ou hostilité envers les requérants et qu’il n’avait aucun intérêt à les accuser. Ce témoin, dont les déclarations étaient cohérentes, précises et constantes, était crédible, les imprécisions dans ses dépositions étant minimes et portant sur des aspects secondaires de l’action meurtrière. La juridiction de renvoi considéra que l’existence d’un Comité Exécutif illégal au sein de Lotta Continua avait été pleinement démontrée et que les déclarations de M. Marino étaient compatibles avec les résultats des investigations menées par la police.

8.  La troisième procédure en cassation et les procédures entamées par les requérants à l’encontre des juges de la cour d’assises d’appel de Milan

Les requérants se pourvurent en cassation. Ils contestaient la crédibilité de M. Marino, observant qu’après l’homicide ce témoin, qui déclarait être sincèrement repenti, avait continué à commettre des vols à main armée. Ils soulignaient également de nombreuses contradictions dans ses déclarations, qui, contrairement à ce que la cour d’assises d’appel affirmait, n’avaient pas été rectifiées.

Par la suite, X et Y, deux des jurés ayant siégé à la cour d’assises d’appel de Milan affirmèrent, au cours de certains colloques privés avec des journalistes et des avocats qui eurent lieu début 1996, qu’à l’issue des délibérations en chambre de conseil, les votes étaient partagés (4-4) entre la condamnation et l’acquittement ; les requérants auraient dû de ce fait être déclarés non coupables en vertu du principe de la « solution la plus favorable à l’accusé » (article 473 § 4 du CPP). Cependant, le Président de la cour d’assises d’appel, M. Della Torre, aurait encouragé les jurés à changer leur vote pour éviter de « ruiner » l’arrêt et d’obliger le parquet à se pourvoir en cassation, assurant en même temps qu’en cas de condamnation, on aurait pu ensuite demander la grâce pour les requérants. Certains jurés auraient alors proposé de reconnaître des circonstances atténuantes en faveur des accusés, ce qui leur aurait permis de bénéficier d’une prescription. Cependant, M. Della Torre se serait encore une fois opposé, alléguant que cela aurait signifié se déclarer non convaincus de la culpabilité des requérants. Deux jurés auraient alors changé leur opinion et voté pour la condamnation.

Ayant appris ce que les deux jurés affirmaient à propos des délibérations de la cour d’assises d’appel de Milan, le 7 mai 1996 M. Sofri porta plainte pour abus de fonctions à l’encontre de M. Della Torre.

Le 6 juin 1996, le Procureur de la République de Brescia ouvrit une enquête. Le 27 octobre 1996, M. Sofri demanda l’audition d’une certaine Mme D. qui aurait pu témoigner que bien avant la fin du procès M. Della Torre avait déclaré, au cours d’une conversation privée, que les requérants étaient sans doute coupables. Il demanda en outre la convocation et l’audition de tous les membres de la deuxième et troisième sections de la cour d’assises d’appel de Milan (les deux sections ayant été chargées, respectivement, de la première et deuxième procédures de renvoi).

Le 30 septembre 1996, M. Bompressi demanda à la Cour de cassation de suspendre la procédure dans l’attente de la fin de l’enquête concernant le comportement de M. Della Torre.

Le 27 octobre 1996, M. Sofri demanda au parquet de Brescia d’interroger tous les membres, titulaires et suppléants, de la cour d’assises d’appel de Milan ainsi que Mme D. Il se référa notamment à la conversation que cette dernière avait eue avec M. Della Torre et précisa que Mme D. avait, dans les meilleurs délais, communiqué les affirmations de M. Della Torre à l’un des accusés, qui avait ensuite informé ses coïnculpés et les avocats défenseurs.

Le 30 octobre 1996, le journal « Il corriere della sera » publia, sous forme anonyme, les déclarations de l’un des jurés ayant participé à la deuxième procédure de renvoi ; ces affirmations confirmaient en substance les allégations de M. Sofri.

Le 7 novembre 1996, tous les jurés ayant siégé dans le cadre de la deuxième procédure de renvoi furent entendus soit par le Procureur de la République de Brescia, soit par la police. Tous ces témoins déclarèrent être tenus, aux termes de l’article 201 du CPP, à garder le silence sur les circonstances ayant entourées la délibération en chambre de conseil, qui selon la loi italienne est un acte confidentiel. Le Procureur de la République les invita pourtant à témoigner, l’obligation de garder le silence devant céder face au devoir qui pèse sur toute personne ayant des charges publiques de dénoncer une infraction pénale pouvant être poursuivie d’office.

X et Y confirmèrent leurs dépositions ; X déclara en outre que lors d’un autre procès, terminé par la condamnation des accusés, M. Della Torre s’était félicité pour les votes exprimés et avait ajouté : « j’espère qu’au procès Calabresi tous le monde va être comme vous, que personne ne se laisse impressionner, car la dernière fois on les a tous relaxés, et il ne fallait pas » (Spero che al Calabresi siano tutti come lei, che nessuno si lasci condizionare, perché l’ultima volta hanno assolto tutti, e non dovevano).

Par ailleurs, il ressortait des témoignages de Y et Z (l’un des membres suppléants de la troisième section de la cour d’assises d’appel de Milan) que M. Della Torre avait recommandé aux jurés de lire en particulier l’arrêt rédigé par M. Pincioni et l’arrêt de première instance, et qu’il avait été difficile pour certains jurés de se procurer un mémoire présenté par M. Sofri au cours du premier procès.

Le 8 novembre 1996, Mme D. fut également examinée par le Procureur de la République. Elle précisa être une « très chère amie » de la femme de M. Pietrostefani, pour lequel elle avait beaucoup d’admiration. Selon Mme D., lors d’une conversation privée qui avait eu lieu avant le procès, M. Della Torre aurait déclaré que les accusations portées contre les requérants étaient corroborées par des éléments ultérieurs, que Lotta continuaétait une organisation terroriste et que ses membres étaient des fous furieux (« scalmanati »). Quelque jours plus tard, Mme D. avait informé M. Pietrostefani de sa conversation avec M. Della Torre, se déclarant en même temps disposée à répéter sa version devant les autorités.

Les 16 décembre 1996 et 12 février 1997, le Procureur de la République de Brescia entendit M. Della Torre et M. De Ruggiero (ce dernier était l’autre juge professionnel ayant siégé au deuxième procès de renvoi des requérants).

Par un arrêt du 22 janvier 1997, dont le texte fut déposé au greffe le 25 février 1997, la Cour de cassation, estimant que la cour d’assises d’appel avait motivé de façon logique et correcte tous les points controversés, débouta les requérants de leurs pourvois. Elle rejeta également la demande de suspension de M. Bompressi, observant qu’aux termes des dispositions internes pertinentes (articles 3 et 479 du CPP) un procès pénal pouvait être suspendu seulement lorsque son issue dépendait de la solution d’une question préjudicielle civile ou administrative, n’étant point prévue la possibilité de suspension pour une question préjudicielle de nature criminelle. En tout état de cause, les allégations de M. Bompressi étaient manifestement dépourvues de fondement. En effet, les modalités du vote lors des délibérations à huis clos pouvaient entraîner la nullité de la décision attaquée seulement dans des cas très particuliers.

Donnant suite à une sollicitation de M. Bompressi, le 24 janvier 1997 le parquet de Brescia demanda au juge des investigations préliminaires de cette même ville de rouvrir l’enquête concernant M. Pincioni, officiellement clôturée le 12 mai 1994. Selon le parquet, les faits appris dans le cadre de l’enquête contre M. Della Torre appelaient pour des nouvelles investigations aussi envers M. Pincioni.

Par une ordonnance du 4 février 1997, le juge des investigations préliminaires de Brescia rejeta la demande du parquet. Il observa notamment que le parquet n’avait pas indiqué de nouveaux éléments à charge de M. Pincioni et que la référence aux investigations relatives à M. Della Torre ne paraissait pas pertinente, aucune connexion ne pouvant être décelée dans les comportements de ces magistrats, ayant eu lieu dans des moments séparés et dans un contexte tout à fait différent.

Le 25 mars 1997, le Procureur de la République de Brescia demanda que la plainte de M. Sofri fût classée sans suite. Pour ce qui concernait les débats et le vote en chambre de conseil, le Procureur de la République avait recueilli des « témoignages inquiétants » de la part de certains jurés (X, Y et Z) qui avaient relaté certains comportements de M. Della Torre pouvant être qualifiés comme des abus visant à porter préjudice aux requérants. Cependant, ces déclarations n’avaient été confirmées ni par les autres jurés ni par M. De Ruggiero. Le Procureur souligna qu’il n’estimait pas que X et Y avaient menti et rappela que X ne pouvait pas être poussé par des raisons politiques, ayant, pour le passé, milité dans l’extrême droite ; simplement, pris par la tension d’un procès si compliqué et délicat, ces deux jurés avaient interprété certaines « phrases inopportunes » de M. Della Torre comme des tentatives d’influencer les jurés. On pouvait également exclure que M. Sofri avait porté plainte dans le seul but d’interférer avec la procédure en cassation, ayant par contre dénoncé des faits sérieux qui auraient pu influencer la position des accusés dans le procès Calabresi.

M. Sofri s’opposa à la demande de classer sa plainte. Compte tenu des différentes versions fournies par les jurés, il sollicita des investigations ultérieures visant à vérifier les modalités avec lesquelles le vote en chambre de conseil s’était déroulé et demanda une confrontation entre M. Della Torre, X et Mme D.

Une audience en chambre de conseil eut lieu devant le juge des investigations préliminaires.

Le 26 juin 1997, le juge des investigations préliminaires de Brescia classa sans suite la plainte de M. Sofri. Il observa tout d’abord que selon une doctrine, un juge reçoit directement du peuple le pouvoir de prononcer un jugement, et que par conséquent dans l’accomplissement de cette tâche il ne pourrait commettre aucun abus de fonctions. Il manquait, en outre, toute allégation d’une intention « égoïste » (scopo « egoistico ») de la part de M. Della Torre, et il ne ressortait pas du dossier que ce dernier avait agi dans le but de porter préjudice aux accusés ou en poursuivant des objectif illégitimes. Par ailleurs, le Procureur de la République n’aurait pas dû ordonner aux juges de la cour d’assises d’appel de répondre à ses questions. Le secret entourant les votes et les opinions exprimés dans une chambre de conseil visait à garantir l’indépendance du pouvoir judiciaire et était conforme aux intérêts d’une bonne administration de la justice. La discussion dans une chambre de conseil pouvait être animée sans être illégale, et la manière dans laquelle une juridiction était parvenue à son jugement ne devait pas former l’objet d’une enquête. Les témoignages des membres de la cour d’assises d’appel avaient donc été obtenus illégalement et ne pouvaient pas être utilisés. La plainte aurait par conséquent dû être classée pour absence d’éléments à charge et non pour absence de faits délictueux. Enfin, selon une jurisprudence concernant l’infraction d’abus de fonctions, M. Sofri n’aurait su se prétendre victime des faits dénoncés ; son opposition à la demande de classement ne pouvait de ce fait pas être prise en considération. En tout état de cause, les témoignages que M. Sofri sollicitait étaient illégales dans la mesure où elles portaient sur l’objet des discussions en chambre de conseil et non pertinentes pour le surplus.

Le juge des investigations préliminaires estima cependant utile « dans un souci de précision et au vue de la nature délicate de l’affaire » d’analyser les preuves recueillies par le parquet. Il considéra que les déclarations de X et Y étaient peu crédibles et que des nombreux doutes auraient pu être soulevés quant à leur spontanéité. En particulier, leur versions divergeaient sur un nombre important de détails et n’étaient aucunement confirmées par les déclarations des autres jurés et de M. De Ruggiero, qui avaient exclu toute tentative de pression illégitime de la part de M. Della Torre. De plus, X et Y avaient relaté leurs expériences d’abord aux journaux et à certains particuliers et non aux autorités, ils n’avaient pas indiqué leur opinion dissidente comme le prévoyait l’article 125 § 5 du CPP.

Le juge des investigations préliminaires prit également en compte les déclarations de Mme D., que le représentant du parquet avait estimées précises et crédibles, mais non susceptibles d’entraîner la responsabilité pénale de M. Della Torre, s’agissant de faits devant être évalués sur le plan moral et déontologique. Le juge des investigations préliminaires observa au contraire qu’il semblait peu vraisemblable qu’un magistrat expérimenté comme M. Della Torre avait pu anticiper sa conviction intime quant à la culpabilité des accusés à une personne qu’il venait de rencontrer et qui était une « chère amie » de M. Pietrostefani. Par ailleurs, à supposer même que M. Della Torre avait exprimé ses opinions, ce comportement ne constituait point une infraction pénale, mais un motif de récusation. Or, les requérants, bien qu’informés de ce que Mme D. affirmait, n’avaient pas fait usage de cette voie de recours.

M. Sofri se pourvut en cassation.

Par un arrêt du 16 décembre 1997, dont le texte fut déposé au greffe le 12 janvier 1998, la Cour de cassation déclara ce pourvoi irrecevable. Elle releva que la décision de classer les poursuites pouvait être attaquée en cassation seulement si le plaignant n’avait pas eu la possibilité de s’opposer à la demande de classement et d’obtenir une audience en chambre de conseil ou si l’ordonnance du juge des investigations préliminaires omettait toute motivation quant aux raisons qui l’avaient poussé à déclarer une telle opposition irrecevable. En l’espèce, aucune violation des droits procéduraux du plaignant ne pouvait être décelée, et les allégations de M. Sofri portaient exclusivement sur le fond de la décision du juge de Brescia, une question sur laquelle la Cour de cassation n’était pas compétente à trancher.

9.  La procédure en révision

Le 15 décembre 1997, les requérants introduisirent un recours en révision devant la cour d’appel de Milan, alléguant que des faits nouveaux démontraient qu’ils auraient dû être relaxés. Il se référaient, notamment, aux éléments suivants :

-  certains documents, notamment des articles de presse, une élaboration informatique de la dynamique du meurtre, une reconstitution de l’accident de voiture avec un témoin et , le journal intime de Mme Bistolfi, concubine de M. Marino, accompagné de deux expertises, l’une graphologique et l’autre psychologique ;

-  une élaboration informatique des photographies d’une balle et d’un fragment de balle ;

-  un rapport d’expertise balistique sur ladite élaboration informatique ;

-  les déclarations de certains témoins.

D’après les requérants, ces éléments prouvaient que M. Marino n’était pas crédible.

En particulier, M. G., témoin oculaire, avait déclaré que deux jours après le meurtre, deux agents de la police lui avaient montré des photographies, parmi lesquelles il avait cru reconnaître l’assassin. Il aurait ensuite relaté cet épisode à la Préfecture, mais l’indifférence des fonctionnaires de celle-ci l’aurait profondément troublé, le poussant à passer sous silence cette circonstance.

M. T. déclara avoir vu M. Bompressi dans la matinée du jour du meurtre dans un bar de Massa, à plusieurs kilomètres de Milan.

Maître A. déclara avoir expliqué, en 1980-81, à M. Marino les avantages que la loi prévoyait pour les personnes collaborant avec la justice, et précisa que M. Marino et sa concubine avaient besoin d’argent.

Enfin, l’expertise psychologique et certains extraits du journal intime de Mme Bistolfi auraient démontré que celle-ci était atteinte par une forme de schizophrénie, que ni elle ni M. Marino n’avaient jamais été au courant des modalités de l’exécution de l’homicide du commissaire Calabresi et que, contrairement à ce qu’il avait été affirmé, Mme Bistolfi était au courant de l’intention de M. Marino de confesser. Les requérants produisirent des copies des extraits en question.

Les requérants demandèrent également que les mémoires présentés par les parties civiles fussent déclarés irrecevables.

Par une ordonnance du 10 mars 1998, la cour d’appel de Milan rejeta cette dernière demande, estimant que les parties civiles avaient le droit de faire valoir leur point de vue dans la phase préalable du procès en révision.

Par une ordonnance du 18 mars 1998, la cour d’appel rejeta également le recours en révision comme étant manifestement mal fondé. Elle observa que certains des éléments indiqués par les requérants n’étaient pas « nouveaux », ayant déjà été examinés au cours des procédures de première et deuxième instance. Quant aux autres éléments, ils n’entachaient aucunement la culpabilité des condamnés.

Les requérants se pourvurent en cassation contre les ordonnances des 10 et 18 mars 1998. Ils faisaient valoir que l’arrêt du 21 octobre 1992 avait eu pour conséquence l’annulation des deux premiers degrés de leur procès, et soutenaient que les preuves ayant été présentées uniquement avant ledit arrêt devaient être considérées comme nouvelles. Les requérants contestaient en outre le fait que la cour d’appel avait examiné la pertinence et non seulement la recevabilité des éléments de preuve sur lesquels leur demande se fondait.

Le 17 juin 1998, le Procureur Général de la République, se fondant pour l’essentiel sur les motifs de pourvoi des requérants, demanda l’annulation des ordonnances des 10 et 18 mars 1998.

Le 18 août 1998, M. Bompressi fut assigné à domicile pour des raisons de santé. Il fut cependant ensuite à nouveau incarcéré.

Par un arrêt du 6 octobre 1998, déposé au greffe le 28 octobre 1998, la Cour de cassation cassa les ordonnances litigieuses et renvoya l’affaire devant une autre section de la cour d’appel de Milan. Elle estima tout d’abord que les parties civiles ne pouvaient pas participer à la phase préalable de la procédure en révision. La Cour de cassation considéra en outre que tout élément ayant été présenté mais n’ayant pas été examiné au cours d’un procès doit être considéré comme « nouveau » ; elle souligna en même temps qu’une procédure en révision doit aussi tenir compte des expertises effectuées avec des nouvelles méthodes et techniques. En particulier, l’élaboration informatique des photographies des balles était significative, compte tenu notamment du fait que les balles originales avaient été indûment détruites avant l’ouverture des débats en première instance et que toute expertise balistique avait dû être effectuée sur des photographies. Par ailleurs, la cour d’appel de Milan, qui aurait dû se borner à un examen préalable de la recevabilité de la demande, avait en réalité analysé de façon approfondie la pertinence de chaque élément présenté par les requérants, anticipant ainsi le jugement sur le fond.

En vertu d’une nouvelle loi entre-temps entrée en vigueur, la cour d’appel de Brescia devint compétente à examiner la demande en révision.

Par une ordonnance du 23 février 1999, la cour d’appel de Brescia rejeta la demande en révision. Elle considéra notamment que les éléments « nouveaux » présentés par les requérants étaient voir incohérents et contradictoires, voir manifestement mal fondés, et ne pouvaient dès lors pas changer l’issue du procès. Ils n’étaient par ailleurs pas de nature à corroborer la thèse, soutenue par les requérants, de l’existence d’un « complot » organisé par certains agents de l’Etat à l’encontre de Lotta continua.

Les requérants se pourvurent en cassation.

Le 28 avril 1999, le Procureur Général de la République demanda l’annulation de l’ordonnance du 23 février 1999, au motif que la cour d’appel de Brescia avait examiné les éléments « nouveaux » séparément plutôt que, comme elle l’aurait dû, dans leur ensemble.

Par un arrêt du 27 mai 1999, dont le texte fut déposé au greffe le 30 juin 1999, la Cour de cassation cassa l’ordonnance litigieuse et indiqua la cour d’appel de Venise comme juridiction de renvoi. Elle observa notamment que la cour d’appel de Brescia avait examiné les éléments produits par les requérants principalement dans l’optique de nier l’existence d’un « complot » à l’encontre de Lotta continua, omettant ainsi d’évaluer leur capacité de remettre en discussion des affirmations contenues dans les décisions prononçant la condamnation définitive des accusés. Par ailleurs, certaines remarques critiques quant aux nouveaux éléments étaient illogiques et anticipaient de facto le jugement sur le fond. De plus, ces éléments n’avaient pas été considérés dans leur ensemble. La Cour de cassation précisa en outre que les requérants avaient le droit de produire des copies du journal intime de Mme Bistolfi et l’authenticité de celles-ci aurait dû être établie par le juge du fond.

Par une ordonnance du 24 août 1999, la cour d’appel de Venise déclara la demande de révision recevable. Elle ordonna de ce fait l’ouverture du procès en révision et suspendit, à titre provisoire, l’exécution de la peine infligée aux requérants. Ceux-ci furent soumis à la mesure de précaution de l’assignation à demeure dans une commune et de l’interdiction de quitter le territoire de l’Etat. Ces mesures de précaution furent annulées par une ordonnance du 23 novembre 1999.

La cour d’appel précisa en outre qu’aussi M. Marino, qui n’avait pas présenté une demande en révision, devait être considéré comme accusé car l’éventuel acquittement des requérants aurait pu avoir pour conséquence l’annulation de sa condamnation.

Les débats commencèrent le 20 octobre 1999. Après trois audiences, le 2 novembre 1999, des experts précédemment nommés par la cour d’appel prêtèrent serment. Par la suite, la cour d’appel examina M. Marino, les requérants, de nombreux autres témoins et les experts nommés d’office et par la défense. Ces derniers soutenaient notamment qu’une analyse des photographies des balles et de leur élaboration informatique permettait de conclure qu’elles n’avaient pas été tirées par la même arme, ce qui aurait démenti les affirmations de M. Marino.

Au cours des débats, les requérants demandèrent l’audition de Mme Bistolfi, qui aurait dû témoigner quant à la signification de certains passages de son journal intime. Cependant, celle-ci se prévalut de la faculté de garder le silence que l’article 199 CPP lui reconnaissait en vertu de sa qualité de personne habitant maritalement avec l’un des accusés, M. Marino. La cour d’appel estima que la faculté en question pouvait être exercée aussi par une personne qui, comme Mme Bistolfi, avait décidé de ne pas en faire usage au cours des phases du procès qui avaient précédé la procédure en révision, au cours desquelles elle avait été interrogée. Par ailleurs, dans la cadre de la procédure en révision Mme Bistolfi aurait dû fournir des explications quant au contenu de son journal intime, produit par la défense seulement après la fin du procès, et aurait dû donc témoigner sur des faits différents par rapport à ceux qui avait formé l’objet de ses déclarations précédantes. La cour d’appel précisa également que l’article 199 du CPP visait à résoudre le conflit qui existait entre l’intérêt général à ce que toute personne informée sur les faits de la cause soit entendue et l’intérêt privé lié aux sentiments familiaux, qui pourraient pousser les témoins à mentir pour ne pas préjuger la position de leurs proches, se rendant ainsi coupables de faux témoignage. En l’espèce, le législateur et la Cour constitutionnelle avaient estimé que le deuxième intérêt devait primer.

Le 18 janvier 2000, la cour d’appel déclara la clôture des débats.

Par un arrêt du 24 janvier 2000, adopté après six jours de chambre de conseil, la cour d’appel rejeta la demande en révision et révoqua la suspension de l’exécution de la peine des requérants. Elle examina les nouveaux éléments produits par les requérants, ainsi que les éléments non pris en considération au cours de la procédure sur le fond, et conclut qu’ils ne justifiaient pas l’acquittement des intéressés. Quant à la destruction des balles, la cour d’appel observa qu’il s’agissait d’une circonstance regrettable, mais qu’elle ne pouvait pas être imputée au juge d’instruction ou au représentant du parquet, personnes qui n’avaient même pas été consultées à ce sujet. Par ailleurs, les expertises présentées par les requérants et ayant pour objet les photographies des balles et de la voiture n’étaient pas de nature à prouver les thèses des condamnés, ne fournissant pas des éléments suffisants pour corroborer leurs affirmations.

Selon la cour d’appel, le fait que Mme Bistolfi s’était prévalue, dans la procédure en révision, de son droit de garder le silence n’entachait pas la crédibilité des déclarations faites par ce témoin dans les précédantes phases du procès, déclarations qui, en tout état de cause, constituaient des simples éléments corroborant la confession de M. Marino et sans lesquelles la condamnation des requérants aurait dû également être prononcée. La cour d’appel estima, en particulier, que le choix de Mme Bistolfi n’était pas « capricieux », mais s’expliquait par le désir de ne pas déceler publiquement des détails de nature strictement privée relatés dans le journal intime.

Les copies de ce dernier produites par les requérants devaient être considérées authentiques. La cour d’appel observa cependant que le journal en question contenait des notes manuscrites, dont il était difficile (ou bien impossible) comprendre la signification exacte. Les requérants avaient signalé, en particulier, le passage suivant, non daté :

« VII purification du bâton et de l’utérus

Je suis dans la voiture avec Marino.

Il s’arrête devant une mairie et il me dit « maintenant le Commissaire a un poste à la mairie ».

Un homme (Marino ?) va à l’intérieur.

Il se fait entendre ; il le prend sous son bras et ils sortent ensemble.

Ils s’acheminent le long d’un sentier entouré par des herbes sauvages.

Il y a une poupée-cigogne entre les herbes avec dans son bec une poupée-enfant.

Je pense : « c’est le témoin oculaire »

Marino(?) et le Commissaire vont vers la fin du sentier - le lac-

En revenant en arrière je prends la poupée-enfant

car la poupée-cigogne est trop grande. »

Les parties avaient également mentionné les phrases suivantes :

« Marino va arranger ses choses tout seul ?

Je vais écrire à Sandro POUR Marino ? »

« L’année dernière, le 3 juin (je ne

savais ni qu’il était ton anniversaire

ni qu’une série de choses abjectes

étaient en train de m’arriver) dans le train,

je me suis assise au poste 38 et je sentais

NE ME NEGLIGES PAS »

La cour d’appel observa que Mme Bistolfi n’avait pas témoigné aux débats et n’avait donc pas fourni son interprétation personnelle des passages incriminés. Par ailleurs, une analyse des textes en question ne permettait pas d’affirmer avec certitude que la concubine de M. Marino avait voulu se référer, bien que d’une manière allusive et onirique, à l’homicide du commissaire Calabresi. A cet égard, la cour d’appel releva notamment qu’il ressortait de certains témoignages qu’au moins une partie des affirmations contenues dans le journal intime de Mme Bistolfi étaient fantaisistes et n’avaient aucun lien avec la réalité. Aux yeux de la cour d’appel, ni les extraits du journal intime, ni les autres éléments indiqués par les requérants n’auraient pas su prouver que Mme Bistolfi était au courant de l’intention de M. Marino de confesser ou que la confession en question avait été préparée au sein du couple. De plus, à supposer que tel était le cas, le fait que M. Marino eut pu mentir quant aux circonstances dans lesquelles sa confession était née n’entachait pas automatiquement l’authenticité des faits qu’il avait relatés, confirmée par plusieurs autres éléments.

La motivation de l’arrêt du 24 janvier 2000 (487 pages) fut déposée au greffe le 31 mars 2000.

MM. Sofri et Pietrostefani se pourvurent en cassation.

Par un arrêt du 5 octobre 2000, dont le texte fut déposé au greffe le 23 novembre 2000, la Cour de cassation, estimant que la cour d’appel avait motivé de manière logique et correcte tous les points controversés, débouta MM. Sofri et Pietrostefani de leurs pourvois.

B.  Le droit et la pratique internes pertinents

La cour d’assises et la cour d’assises d’appel sont composées d’un président, d’un autre juge professionnel (giudice ou consigliere a latere) et de six jurés (giudici popolari). Des jurés suppléants assistent aux audiences et remplacent, en cas de nécessité, les titulaires. Les votes des deux juges professionnels et des jurés sur toute question de fait ou de droit ont la même valeur.

La loi italienne n’impose pas de choisir le juge qui doit rédiger la motivation d’un arrêt parmi les membres de la majorité ; de ce fait, même un juge dissident peut être chargé d’écrire la motivation d’une décision qu’il ne partage pas. Dans la pratique, c’est normalement le juge a latere (juge professionnel qui ne préside pas la cour d’assises) qui est chargé de rédiger la motivation de l’arrêt.

Aux termes de l’article 125 § 3 du nouveau CPP,

« A l’occasion d’une délibération collective, à la demande de l’un des membres de la chambre ayant voté contre la décision adoptée, on rédige un procès-verbal sommaire indiquant le nom de la personne dissidente, la question ou les questions auxquelles le désaccord se réfère et les raisons de ce dernier, exposées de manière succincte ».

L’article 587 § 1 du nouveau CPP (qui reproduit l’article 203 de l’ancien CPP) se lit comme suit :

« Lorsque plusieurs personnes ont participé à la même infraction, le recours présenté par l’un des accusés profite également aux autres accusés, au moins qu’il soit fondé sur des raisons exclusivement personnelles ».

Aux termes de l’article 527 § 3 in fine du nouveau CPP (qui reproduit l’article 473 de l’ancien CPP), lorsque à l’issue des délibérations il y a égalité des votes, la solution plus favorable à l’accusé doit prévaloir.

L’article 199 § 1 du CPP prévoit que les membres de la famille proche d’un accusé ne sont pas obligés à témoigner. Cette disposition s’applique également aux personnes vivant maritalement avec l’accusé, mais seulement en relation aux faits s’étant vérifiés ou ayant été appris pendant la vie commune (voir le paragraphe 3 a) dudit article 199).

Aux termes de l’article 201 du CPP,

« Exception faite pour les cas où ils ont le devoir d’informer les autorités judiciaires, les officiers publics et les personnes chargées d’un service public ont le devoir de ne pas témoigner sur des faits qu’ils ont appris à cause de leurs fonctions et qui doivent rester secrets ».

L’article 630 du CPP indique les cas dans lesquels une personne condamnée peut demander la révision de son procès. En particulier l’alinéa d) de cette disposition se lit ainsi :

« La révision peut être demandée (...) lorsqu’après la condamnation se manifestent ou sont découvertes des nouvelles preuves qui, seules ou [évaluées] conjointement à celles déjà examinées, démontrent que la personne condamnée devait être relaxée (...) ».

GRIEFS

1.  Invoquant l’article 6 §§ 1, 2 et 3 a), b) et d) de la Convention, les trois requérants se plaignent de l’iniquité de la procédure pénale à leur encontre.

2.  Toujours sous l’angle de l’article 6 de la Convention, les requérants se plaignent d’un manque d’impartialité des juridictions nationales.

3.  Invoquant l’article 6 §§ 1 et 3 d) de la Convention, les requérants se plaignent de l’iniquité de la procédure en révision et de l’impossibilité d’examiner Mme Bistolfi devant la cour d’appel de Venise.

4.  Invoquant l’article 5 § 2 de la Convention, M. Bompressi se plaint de ne pas avoir été informé dans les plus brefs délais des raisons de son arrestation.

EN DROIT

1.  Les requérants se plaignent, sous différents aspects, de l’iniquité de la procédure pénale contre eux et d’une méconnaissance du principe de la présomption d’innocence. Ils invoquent l’article 6 §§ 1, 2 et 3 a), b) et d) de la Convention.

Dans ses parties pertinentes, cette disposition est ainsi libellée :

« 1.  Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement (...) par un tribunal indépendant et impartial (...) qui décidera (...) du bien-fondé de toute accusation en matière pénale dirigée contre elle (...).

2.  Toute personne accusée d’une infraction est présumée innocente jusqu’à ce que sa culpabilité ait été légalement établie.

3.  Tout accusé a droit notamment à :

a)  être informé, dans le plus court délai, dans une langue qu’il comprend et d’une manière détaillée, de la nature et de la cause de l’accusation portée contre lui ;

b)  disposer du temps et des facilités nécessaires à la préparation de sa défense ; (...)

d)  interroger ou faire interroger les témoins à charge et obtenir la convocation et l’interrogation des témoins à décharge dans les mêmes conditions que les témoins à charge. »


 

1.  Les exceptions du Gouvernement

Dans un courrier du 27 septembre 1999, le Gouvernement excipe du non‑épuisement des voies de recours internes au motif que la procédure en révision entamée par les requérants était, à cette époque, encore pendante devant la cour d’appel de Venise. Le Gouvernement excipe également du non-épuisement des voies de recours internes par rapport à M. Sofri, en raison du fait que celui-ci n’a pas interjeté appel contre l’arrêt de la cour d’assises de Milan du 2 mai 1990 et que sa position n’a été examinée au cours des procédures qui ont suivi qu’en vertu de l’extension de l’appel de ses coïnculpés.

Les requérants s’opposent à ces thèses, observant que la révision est un moyen de recours exceptionnel dirigé contre un jugement ayant acquis l’autorité de la chose jugée.

La Cour rappelle tout d’abord que selon la jurisprudence constante des organes de la Convention, les demandes visant à obtenir la réouverture d’une procédure tranchée par une décision ayant acquis l’autorité de la chose jugée ne constituent pas, en règle générale, un recours efficace au sens de l’article 35 § 1 de la Convention (voir K.S. et K.S. AG. c. Suisse, no 19117/91, décision de la Commission du 12 janvier 1994, Décisions et rapports (DR) 76-B, pp. 70, 74). Quoi qu’il en soit, elle relève que la procédure en révision entamée par les requérants s’est définitivement terminée le 5 octobre 2000 lorsque la Cour de cassation a rejeté les pourvois de MM. Sofri et Pietrostefani contre l’arrêt de la cour d’appel de Venise du 24 janvier 2000.

Pour ce qui concerne le fait que M. Sofri a omis d’interjeter appel contre l’arrêt de la cour d’assises de Milan du 2 mai 1990, la Cour rappelle que l’obligation d’épuiser les voies de recours internes se limite à celle de faire un usage normal des recours vraisemblablement efficaces, suffisants et accessibles (voir Iruretagoyena c. France, no 32829/96, décision de la Commission du 12 janvier 1998, DR 92, p. 99, 105). Cette règle vise à ménager aux Etats contractants l’occasion de prévenir ou de redresser les violations alléguées contre eux avant que ces allégations ne soient soumises aux organes de la Convention (voir, parmi beaucoup d’autres, Selmouni c. France [GC], no 25803/94, § 74, CEDH 1999-V).

Or, la Cour observe que dans leur appel contre l’arrêt incriminé, les deux coïnculpés de M. Sofri avaient contesté notamment la crédibilité de M. Marino, principal témoin à charge. Ce recours ne se fondait donc pas sur des « raisons exclusivement personnelles » à MM. Bompressi et Pietrostefani. M. Sofri pouvait donc légitimement s’attendre à pouvoir en profiter et à voir sa position examinée par la cour d’assises d’appel de Milan aux termes de l’article 587 § 1 du nouveau CPP. Par ailleurs, la Cour note que M. Sofri s’est pourvu en cassation contre la décision ayant prononcé sa condamnation qui est enfin devenue définitive, à savoir l’arrêt de la cour d’assises d’appel de Milan du 11 novembre 1995.

Dans ces circonstances, on ne saurait conclure que M. Sofri n’a pas fait un usage normal des recours qui s’offraient à lui ou qu’il n’a pas donné aux juridictions internes l’occasion de redresser les manquements au principe du procès équitable qu’il dénonce devant la Cour.

Partant, les exceptions de non-épuisement soulevées par le Gouvernement ne peuvent pas être retenues.

2.  Les différentes allégations des requérants

a)  En ce qui concerne la procédure de première instance, les requérants affirment tout d’abord ne pas avoir disposé du temps nécessaire à la préparation de leur défense. Ils soulignent que leurs avocats ont eu accès aux dossiers du parquet contenant les éléments de preuve à charge (il s’agissait de 12 000 pages) seulement en juillet 1989, et qu’ils ont dû préparer leur défense dans un délai de vingt-six jours. Les requérants se plaignent également d’un manque d’impartialité de la cour d’assises de Milan, en raison du fait que la motivation de l’arrêt du 2 mai 1990, déposée au greffe le 11 janvier 1991, a été rédigée par M. Minale, un juge qui depuis le 11 octobre 1990 appartenait au parquet.

M. Bompressi se plaint en outre de ne pas avoir été informé des accusations portées à son encontre, ainsi que du fait que les quatre témoins dont il avait sollicité l’audition au cours de l’instruction n’ont été examinés que pendant des débats de première instance.

La Cour n’est pas appelée à se prononcer sur le point de savoir si les faits allégués par les requérants décèlent une apparence de violation de la Convention. Elle relève que les intéressés ont déjà obtenu un redressement de leurs griefs au niveau interne. En effet, le 21 octobre 1992 la Cour de cassation a annulé l’arrêt de la cour d’assises d’appel de Milan du 12 juillet 1991 qui avait confirmé la décision de condamnation émise par la cour d’assises de Milan le 2 mai 1990.

Partant, les requérants ne peuvent pas se prétendre victimes, au sens de l’article 34 de la Convention, des faits qu’ils prétendent dénoncer.

Il s’ensuit que ce grief est incompatible ratione personae avec les dispositions de la Convention au sens de l’article 35 § 3 et doit être rejeté en application de l’article 35 § 4.

 

b)  Les requérants allèguent une méconnaissance de leur droit à un procès équitable, notamment sous l’angle de l’égalité des armes. Ils notent que M. Marino a eu des contacts avec les carabiniers au moins dix-neuf jours avant la date de sa première déposition officielle (20 juillet 1988), et qu’aucune trace des conversations qui, sans la présence d’un avocat, ont eu lieu pendant ce laps de temps n’a été gardée. De ce fait, la défense n’a jamais disposé des procès-verbaux relatifs aux premières versions de la confession de M. Marino. Par ailleurs, les déclarations du repenti ont été considérées comme crédibles malgré les nombreux mensonges et contradictions décelés par la défense.

Les requérants se plaignent également du fait que tous les témoins à décharge ont été considérés comme non crédibles, alors qu’aucun d’eux n’a été poursuivi pour faux témoignage. Ils considèrent qu’ils auraient dû être acquittés et soutiennent que les arrêts prononçant leur condamnation reflètent l’opinion de leur culpabilité avant tout établissement légal de celle-ci.

Le Gouvernement souligne que neuf arrêts ont été rendus sur l’affaire des requérants, et que les juges italiens ont soigneusement examiné les arguments présentés par la défense, ce qui démontrerait que les accusés ont bénéficié d’un procès équitable. Par ailleurs, il n’appartient pas à la Cour de Strasbourg de se prononcer sur la pertinence des éléments de preuve ou sur l’innocence des prévenus. Selon le Gouvernement, ces derniers ont eu d’amples possibilités de contester tout élément porté contre eux.

La Cour rappelle qu’elle n’a pas pour tâche de se substituer aux juridictions internes. C’est au premier chef aux autorités nationales, et notamment aux cours et tribunaux, qu’il incombe d’interpréter la législation interne et d’apprécier les faits (voir, parmi beaucoup d’autres, Brualla Gómez de la Torre c. Espagne, arrêt du 19 décembre 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-VIII, p. 2955, § 31, et Edificaciones March Gallego S.A. c. Espagne, arrêt du 19 février 1998, Recueil 1998-I, p. 290, § 33). La Cour n’est donc pas appelée à se prononcer sur le point de savoir si les déclarations de M. Marino auraient dû être écartées ou étaient suffisamment précises et crédibles, ou si, en dernier ressort, les requérants étaient coupables ou non (voir P.G. et J.H. c. Royaume-Uni, no 44787/98, § 76, 25 septembre 2001). En effet, la tâche que la Convention lui a assignée ne consiste pas à se prononcer sur le point de savoir si des dépositions de témoins ont été à bon droit admises comme preuves, ou si elles étaient suffisantes pour fonder une condamnation, mais à rechercher si la procédure considérée dans son ensemble, y compris le mode de présentation des moyens de preuve, a revêtu un caractère équitable (voir, entre autres, Doorson c. Pays-Bas, arrêt du 26 mars 1996, Recueil 1996-II, p. 470, § 67, et Van Mechelen et autres c. Pays-Bas, arrêt du 23 avril 1997, Recueil 1997-III, p. 711, § 50).

En l’espèce, la Cour relève que la condamnation des requérants est intervenue à la suite d’une procédure contradictoire et sur la base de preuves discutées à l’audience, que les tribunaux internes ont estimées suffisantes pour établir leur culpabilité. En particulier, il convient de noter que les intéressés ont eu l’opportunité d’interroger M. Marino lors des débats publics et de lui poser les questions qu’ils ont estimées nécessaires pour infirmer la version des faits donnée par leur accusateur. La circonstance que ce dernier ait eu des contacts avec les carabiniers avant de faire sa première déposition officielle ne saurait, en soi, porter atteinte aux principes du procès équitable et de l’égalité des armes.

Par ailleurs, dans la mesure où les requérants allèguent une violation de la présomption d’innocence consacrée par le paragraphe 2 de l’article 6, la Cour rappelle que cette dernière se trouve méconnue si une décision d’un juge ou d’une autre autorité publique concernant un prévenu reflète le sentiment qu’il est coupable, alors que sa culpabilité n’a pas été préalablement légalement établie. Il suffit, même en l’absence de constat formel, d’une motivation donnant à penser que l’autorité en question considère l’intéressé comme coupable (Allenet de Ribemont c. France, arrêt du 10 février 1995, série A no 308, p. 16, §§ 35-36).

En l’espèce, les requérants n’ont indiqué aucune décision rendue avant leur condamnation renfermant un tel constat de culpabilité. Le fait que ce dernier était contenu dans les arrêts concluant à leur responsabilité pour l’homicide du commissaire Calabresi ne saurait aucunement porter atteinte au principe de la présomption d’innocence.

Il s’ensuit que ce grief doit être rejeté comme manifestement mal fondé, en application de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

 

c)  Les requérants soulignent que d’importants éléments de preuve, tels que les vêtements du commissaire Calabresi, la voiture utilisée par les assassins et les balles retrouvées dans le cadavre ou sur le lieu du meurtre n’ont jamais été mis à la disposition de la défense, ayant été soit égarés, soit détruits.

Les requérants soutiennent que si on avait disposé des preuves originales, des expertises effectuées sur la voiture et sur les balles auraient pu éclaircir la dynamique de l’accident de la circulation qui eut lieu après le meurtre et la séquence des coups d’arme à feu. Aucune tentative de déduire ces éléments des photographies n’a permis d’obtenir les résultats envisagés, comme le démontre le fait que la cour d’appel de Venise a estimé que les expertises ayant pour objet les photographies des balles et de la voiture ne fournissaient pas des éléments suffisants en faveur de la thèse de la défense. De ce fait, les requérants considèrent avoir été privés de la possibilité de démentir certaines parties de la version de M. Marino et d’en contester la crédibilité. Cela aurait également enfreint leur « droit de se défendre en prouvant leur innocence » (diritto di difendersi provando).

Le Gouvernement relève que l’absence des preuves détruites ou égarées n’a eu aucune conséquence importante pour l’établissement des faits. En effet, la voiture utilisée par les assassins et les balles retrouvées dans le corps du commissaire Calabresi avaient été décrites, examinées et photographiées avant leur destruction. Grâce à ces éléments, les requérants et la cour d’appel de Venise ont pu faire exécuter des expertises et une élaboration informatique des photographies des projectiles.

Le Gouvernement observe que selon les requérants eux-mêmes, cette élaboration permettait de conclure que, contrairement à ce que M. Marino avait affirmé, les balles n’avaient pas été tirées par la même arme. Ces expertises ont ensuite été soigneusement examinées par les juridictions compétentes. Par ailleurs, les vêtements de la victime n’avaient aucune utilité pour la reconstitution des circonstances du meurtre.

La Cour relève que le dossier ne permet pas d’établir les circonstances de l’égarement des vêtements du commissaire Calabresi, qui avaient apparemment disparu tout de suite après le meurtre. Par contre, il ressort des documents disponibles que la destruction de la voiture et des balles aurait eu lieu respectivement le 31 décembre 1988 et après le 15 février 1989, soit après l’arrestation des requérants (28 juillet 1988).

De l’avis de la Cour, et comme les juridictions nationales l’ont constaté à plusieurs reprises, il est fort regrettable que des éléments de preuve concernant un procès pour homicide soient détruits peu de temps après la mise en examen des responsables présumés du crime. La responsabilité de cette destruction, probablement due à un dysfonctionnement administratif s’étant produit au sein du tribunal de Milan, revient aux autorités italiennes.

Cependant, on ne saurait pour autant parvenir à la conclusion de l’existence d’une violation de l’article 6 de la Convention. Encore, faut-il établir que les conséquences du dysfonctionnement en question ont placé les requérants dans une situation de désavantage par rapport au parquet (voir, parmi beaucoup d’autres,Nideröst-Huber c. Suisse, arrêt du 18 février 1997, Recueil 1997-I, p. 107, § 23, et Frette c. France, no 36515/97, § 47, CEDH 2002-I).

A cet égard, la Cour relève que les requérants n’ont pas indiqué en quoi les vêtements du commissaire Calabresi auraient pu jouer un rôle en faveur des thèses de la défense. Par contre, des expertises effectuées sur la voiture et les balles auraient pu éclaircir la dynamique de l’accident de la circulation qui avait eu lieu après le meurtre et la séquence des coups d’arme à feu. Dans l’hypothèse où les résultats de ces expertises auraient été en tout ou en partie en contradiction avec la version de M. Marino, la crédibilité de ce dernier aurait pu s’en trouver partiellement affectée.

La Cour observe cependant que le parquet s’est trouvé dans une situation comparable à celle des requérants, étant donné que l’impossibilité d’effectuer les expertises en question a également privé le ministère public d’une occasion de se servir des éléments de preuve égarés ou détruits. Dans ce contexte, partant, les parties du procès se sont trouvées sur un plan d’égalité.

De plus, il convient de noter que la voiture et les balles avaient été décrites, examinées et photographiées avant leur destruction, ce qui a permis aux requérants d’exercer les droits de la défense en relation à ces éléments de preuve. En particulier, il leur a été loisible de faire effectuer des expertises et une élaboration informatique des photographies, ce qui, par ailleurs, a contribué à la recevabilité de leur recours en révision . Enfin, les requérants ont eu la possibilité de contester, dans les différentes phases d’une procédure judiciaire contradictoire, de nombreux autres aspects de la version de leur accusateur.

Dans ces circonstances, la Cour ne saurait conclure que la destruction ou l’égarement des éléments indiqués ci-dessus ait porté atteinte à l’équité de la procédure (voir, mutatis mutandisSangiorgi c. Italie (déc.), no70981/01, 5 septembre 2002, non publiée, et Carlotto c. Italie, no 22420/93, décision de la Commission du 20 mai 1997, DR 89, pp. 17, 29).

Il s’ensuit que ce grief est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

 

2.  Invoquant l’article 6 de la Convention, les requérants soutiennent que leur droit à être jugés par un tribunal indépendant et impartial a été méconnu, la magistrature italienne ayant une idée préconçue quant à leur culpabilité. Ceci les aurait privés de leur « droit à un tribunal », compte tenu notamment du fait qu’ils n’auraient eu aucune chance réelle d’obtenir, devant les juridictions nationales, un redressement effectif de leurs griefs.

 

a)  Les requérants soulignent tout d’abord que l’arrêt du 21 décembre 1993 a été rédigé par M. Pincioni, un juge qu’ils considèrent dissident et qui aurait motivé leur acquittement de manière manifestement illogique et contradictoire dans le but d’en obtenir l’annulation de la part de la Cour de cassation.

Le Gouvernement souligne que l’affirmation des requérants, selon laquelle M. Pincioni était un « juge dissident » qui aurait écrit un « arrêt suicidaire » n’a pas été dûment prouvée. A cet égard, il observe qu’à l’issue des délibérations de la cour d’assises de Milan, composée, entre autres, par M. Pincioni, le président de celle-ci avait déposé au greffe l’enveloppe scellée et signée prévue à l’article 125 § 5 du CPP. Or, l’existence même de cette enveloppe démontre qu’au moins un des membres de la cour d’assises d’appel de Milan était dissident par rapport au verdict d’acquittement. Le nom ou les noms du ou des dissident(s) ne peu(ven)t cependant être connu(s) qu’en ouvrant l’enveloppe scellée. Toutefois, le Gouvernement a estimé que cette dernière ne pouvait pas être transmise à la Cour car son ouverture vise à protéger le juge dissident contre une éventuelle action judiciaire pour faute professionnelle. En effet, l’article 16 § 5 de la loi no 117 de 1988 (loi sur la responsabilité civile des magistrats) prévoit que l’enveloppe soit transmise au tribunal devant lequel le Premier ministre aurait assigné les juges ayant prononcé la décision afin d’obtenir le remboursement de la somme versée à titre de dédommagement à la partie lésée. Selon le Gouvernement, les dispositions internes prévoyant la possibilité de violer le secret d’une chambre de conseil auraient une nature exceptionnelle et ne sauraient se prêter à une interprétation extensive par analogie.

En tout état de cause, le Gouvernement rappelle que toute décision judiciaire peut être attaquée en appel ou en cassation et observe qu’en l’espèce, les éléments de preuve existants à la charge des accusés ne permettaient pas de motiver autrement. En effet, le juge chargé de rédiger la motivation d’un arrêt doit exposer les raisons qui ont amené la majorité des membres de la cour d’assises à exprimer un certain verdict, même si ces raisons peuvent paraître contradictoires et non aptes à justifier la décision adoptée.

Les requérants estiment souhaitable que l’enveloppe contenant la ou les opinion(s) dissidente(s) soit ouverte et transmise à la Cour, s’agissant d’un moyen d’établir si M. Pincioni était dissident. Par ailleurs, si cette question devait être résolue par l’affirmative, des doutes pourraient également être avancés quant à l’impartialité de M. Gnocchi, président de la deuxième section de la cour d’assises d’appel de Milan, responsable d’avoir confié la rédaction de la motivation de l’arrêt à un juge qui avait marqué son désaccord par rapport au verdict d’acquittement exprimé par ses collègues.

Par ailleurs, la référence faite par le Gouvernement aux dispositions concernant la responsabilité civile des magistrats ne serait pas pertinente, la Cour constitutionnelle ayant précisé que le secret d’une chambre de conseil ne constitue pas une valeur de niveau constitutionnel.

La Cour rappelle qu’aux fins de l’article 6 § 1, l’impartialité doit s’apprécier selon une démarche subjective, essayant de déterminer la conviction et le comportement personnels de tel juge en telle occasion, et aussi selon une démarche objective amenant à s’assurer qu’il offrait des garanties suffisantes pour exclure à cet égard tout doute légitime (voir, entre autres, Hauschildt c. Danemark, arrêt du 24 mai 1989, série A no 154, p. 21, § 46, etThomann c. Suisse, arrêt du 10 juin 1996, Recueil 1996-III, p. 815, § 30).

Quant à la première, l’impartialité personnelle des magistrats se présume jusqu’à la preuve du contraire (Padovani c. Italie, arrêt du 26 février 1993, série A no 257-B, p. 26, § 20 ; voir aussi Priebke c. Italie (déc.), no 48799/99, 5 avril 2001, non publiée).

Or, la Cour a examiné les éléments indiqués par les requérants, en particulier l’ampleur de la partie de la motivation de l’arrêt du 21 décembre 1993 dédiée à établir la sincérité, la spontanéité et la crédibilité du témoignage de M. Marino, et l’exposition relativement synthétique des « points obscurs » infirmant la version du repenti. Elle n’a toutefois décelé aucun indice de partialité.

A cet égard, il convient de rappeler que si l’article 6 § 1 de la Convention oblige les tribunaux à motiver leurs décisions, la Cour n’est pas pour autant appelée à rechercher si les arguments ont été adéquatement traités (Van de Hurk c. Pays-Bas, arrêt du 19 avril 1994, série A n° 288, p. 20, § 61 ; Société anonyme Immeuble Groupe Kosser c. France (déc.), no 38748/97, 9 mars 1999). Il incombe aux juridictions de répondre aux moyens essentiels, sachant que l’étendue de ce devoir peut varier selon la nature de la décision et doit donc s’analyser à la lumière des circonstances de l’espèce (Hiro Balani c. Espagne, arrêt du 9 décembre 1994, série A n° 303-B, p. 29, § 27, et Burg c. France (déc.), no 34763/02, 28 janvier 2003).

En l’espèce, l’arrêt du 21 décembre 1993 a exposé d’une manière détaillée les éléments produits au cours d’un procès long et complexe, et qui avaient été discutés pendant les débats. De surcroît, il a examiné la pertinence et la force probatoire de chacun d’entre eux. A cet égard, la Cour ne saurait spéculer sur l’étendue qu’un juge national doit accorder aux arguments en faveur ou au détriment des accusés en s’acquittant de l’obligation de motiver imposée par l’article 6 § 1 de la Convention. De plus, les simples faits qu’une juridiction interne ait commis des erreurs de fait ou de droit et que sa décision ait été annulée par une instance supérieure ne sauraient, à eux seuls, soulever des doutes objectivement justifiés quant à son impartialité.

La Cour n’a donc relevé aucun élément susceptible de mettre en doute l’impartialité personnelle du juge Pincioni (voir, mutatis mutandisM.D.U. c. Italie (déc.), no 58540/00, 28 janvier 2003, non publiée, où la Cour a exclu l’existence d’une apparence de partialité du fait, entre autres, de l’ampleur de la motivation d’un arrêt de la Cour de cassation).

Quant à la seconde démarche, elle conduit à se demander si, indépendamment de la conduite du juge, certains faits vérifiables autorisent à suspecter l’impartialité de ce dernier. En la matière, même les apparences peuvent revêtir de l’importance. Il y va de la confiance que les tribunaux d’une société démocratique se doivent d’inspirer au justiciable. Il en résulte que pour se prononcer sur l’existence, dans une affaire donnée, d’une raison légitime de redouter d’un juge un défaut d’impartialité, l’optique de l’accusé entre en ligne de compte mais ne joue pas un rôle décisif. L’élément déterminant consiste à savoir si l’on peut considérer les appréhensions de l’intéressé comme objectivement justifiées (voir Ferrantelli et Santangelo c. Italie, arrêt du 7 août 1996, Recueil1996-III, pp. 951-952, § 58, et Priebke c. Italie, décision précitée).

La Cour note qu’en l’occurrence, la crainte d’un manque d’impartialité tient du fait que la rédaction de la motivation aurait été confiée, selon la version initialement soutenue par les requérants, à un juge dissident.

Cependant, aux yeux de la Cour, le fait que le juge Pincioni était en accord ou en désaccord avec le verdict d’acquittement ne saurait, à lui seul, soulever un problème sous l’angle de l’article 6 de la Convention. De plus, en l’espèce rien ne prouve que M. Pincioni était dissident. Quant à la thèse des requérants, selon laquelle l’enveloppe prévue à l’article 125 § 5 du CPP devrait être ouverte et transmise à Strasbourg, la Cour rappelle que le principe de l’inviolabilité des délibérations en chambre de conseil d’un jury ou d’un tribunal national n’a pas été considéré contraire à la Convention (voir, mutatis mutandisPullar c. Royaume-Uni, arrêt du 10 juin 1996, Recueil 1996-III, pp. 792-793, §§ 32-31, et Simsek c. Royaume-Uni (déc.), no 43471/98, 9 juillet 2002).

A la lumière de ce qui précède, la Cour est d’avis que la situation dénoncée par les requérants ne peut passer pour justifier en soi des appréhensions quant à l’impartialité de M. Pincioni.

Il s’ensuit que ce grief est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

 

b)  Les requérants allèguent que le comportement de M. Della Torre, président de la cour d’assises d’appel de Milan, lors des délibérations relatives à l’arrêt du 11 novembre 1995 serait de nature à mettre en doute l’impartialité de ce magistrat. Ils se référent, sur ce point, aux déclarations faites après le prononcé du dispositif par les jurés X, Y et Z.

Les requérants soulignent que la Cour n’est pas appelée à se prononcer sur le point de savoir si M. Della Torre poursuivait un but « égoïste » ou s’il pouvait être tenu pour responsable d’une infraction pénale, mais seulement si son comportement était compatible avec le principe selon lequel tout accusé a droit à être jugé par un « tribunal impartial ».

Le Gouvernement observe que les autorités compétentes ont classé sans suite les plaintes de M. Sofri, estimant que le plaignant n’avait apporté aucun élément démontrant que le magistrat en question avait commis un abus de fonctions ou qu’il souhaitait porter préjudice aux accusés. Par ailleurs, au cours d’une discussion en chambre de conseil, chaque membre d’une cour d’assises a le droit et l’obligation d’exprimer les raisons à la base de sa conviction intime et de se distancer des opinions exprimées par les autres magistrats et jurés. Ceci n’empêche pas ces derniers de voter comme ils le souhaitent.

La Cour relève que le juge des investigations préliminaires de Brescia a estimé que les affirmations de X et Y étaient peu crédibles et que des doutes auraient pu être soulevés quant à leur spontanéité. Pour arriver à cette conclusion, il s’est fondé sur des arguments logiques et ponctuels, tels que la divergence des versions fournies par ces deux témoins, le fait que celles-ci étaient démenties par les dépositions des autres jurés et de M. De Ruggiero, la circonstance que X et Y n’avaient pas marqué leur désaccord avec le verdict et avaient relaté leurs expériences d’abord aux journaux. Rien dans le dossier ne permet de penser que cette appréciation a été arbitraire.

Par conséquent, la Cour ne saurait considérer comme établi que M. Della Torre ait exercé des pressions illégitimes sur les jurés, ou ait tenu des comportements pouvant faire naître des doutes objectivement justifiés quant à son impartialité.

Il s’ensuit que ce grief est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

 

c)  Dans leurs formules de requête, les requérants contestaient l’impartialité de M. Della Torre uniquement par rapport aux comportements de ce magistrat relatés par les jurés X, Y et Z. Cependant, dans leur mémoire du 19 février 2002, ils se sont également référés aux affirmations de Mme D., qu’ils estiment crédibles et qui démontreraient que M. Della Torre n’a pas respecté son devoir de garder la plus grande discrétion quant aux faits de la cause qu’il était appelé à juger, donnant lieu ainsi à des doutes objectivement justifiés quant à son impartialité. A cet égard, les requérants soutiennent que les procès-verbaux des déclarations de Mme D. ne constituent pas une nouvelle preuve, mais un élément relatif à une doléance déjà soulevée, notamment celle concernant le manque d’impartialité allégué de M. Della Torre.

Dans un fax du 21 juin 2001, le représentant des requérants a précisé que MM. Sofri et Bompressi ont eu connaissance des affirmations faites par Mme D. seulement après le prononcé de l’arrêt du 11 novembre 1995.

La Cour n’estime pas nécessaire de se pencher sur la question de savoir si les requérants ont respecté, par rapport à ce grief, le délai de six mois prévu à l’article 35 § 1 de la Convention. En effet, à supposer même que cette partie de la requête ne soit pas tardive, elle est de toute manière irrecevable pour les raisons suivantes.

La Cour rappelle qu’aux termes de l’article 35 § 1 de la Convention, elle ne peut être saisie qu’après l’épuisement des voies de recours internes, tel qu’il est entendu selon les principes de droit international généralement reconnus. Cette règle impose de soulever devant l’organe interne adéquat, au moins en substance et dans les formes et délais prescrits par le droit interne, les griefs que l’on entend formuler par la suite devant la Cour ; elle commande en outre l’emploi des moyens de procédure propres à empêcher une violation de la Convention (Cardot c. France, arrêt du 19 mars 1991, série A no 200, p. 18, § 34, et Akdivar et autres c. Turquie, arrêt du 16 septembre 1996, Recueil 1996-IV, p. 1210, § 66).

Or, la Cour note que Mme D. avait, dans les meilleurs délais, communiqué les affirmations de M. Della Torre à M. Pietrostefani qui, comme M. Sofri lui-même l’a indiqué dans sa demande au parquet de Brescia du 27 octobre 1996, avait ensuite informé ses coïnculpés et les avocats défenseurs. Les requérants avaient donc la possibilité d’introduire un recours en récusation à l’encontre de M. Della Torre, possibilité dont ils ne se sont pas prévalus. Un tel recours aurait pu offrir à l’Etat la possibilité de prévenir la violation de la Convention dont les intéressés se plaignent à Strasbourg (voir, mutatis mutandisBarberà, Messegué et Jabardo c. Espagne, arrêt du 6 décembre 1988, série A no 146, pp. 28-29, § 59 ; voir également Sicuranza c. Italie (déc.), no 52129/99, 14.3.2002, non publiée).

Il s’ensuit que ce grief doit être rejeté pour non-épuisement des voies de recours internes, en application de l’article 35 §§ 1 et 4 de la Convention.

 

d)  Toujours dans leur mémoire du 19 février 2002, les requérants soulèvent pour la première fois un autre grief concernant le deuxième procès de renvoi. Ils observent, en particulier, que l’un des jurés était la fille d’un agent de police, c’est-à-dire une personne qui, selon leurs dires, aurait eu des « intérêts contraires à ceux de l’une des parties » du procès, ce qui constituerait, en soi, une violation de l’article 6 § 1 de la Convention.

La Cour rappelle qu’aux termes de l’article 35 § 1 de la Convention, elle ne peut être saisie que dans un délai de six mois à partir de la date de la décision interne définitive. Or, les requérants n’ont soulevé ce grief que le 19 février 2002, soit plus de six mois après les dates du dépôt au greffe des arrêts ayant mis fin aux procédures les concernant (respectivement, le 12 janvier 1998 pour la procédure sur le bien-fondé des accusations et le 23 novembre 2000 pour la procédure en révision).

Il s’ensuit que ce grief est tardif et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 1 et 4 de la Convention.

 

3.  Dans leurs observations en réponse du 20 décembre 2000, les requérants soulèvent des griefs concernant l’iniquité de la procédure en révision.

1.  Les exceptions du Gouvernement

Le Gouvernement excipe en premier lieu du non-épuisement des voies de recours internes par rapport à M. Bompressi, en raison du fait que celui-ci ne s’est pas pourvu en cassation contre l’arrêt de la cour d’appel de Venise du 24 janvier 2000 rejetant sa demande en révision.

La Cour relève que le pourvoi en cassation de MM. Sofri et Pietrostefani visait à obtenir l’annulation de l’arrêt de la cour d’appel de Venise et la réouverture de la procédure pénale concernant l’homicide du commissaire Calabresi. Etant donné que ce recours ne se fondait pas sur des « raisons exclusivement personnelles » aux deux accusés qui l’avaient introduit, M. Bompressi pouvait légitimement s’attendre à pouvoir en profiter aux termes de l’article 587 § 1 du nouveau CPP.

Partant, l’exception de non-épuisement du Gouvernement doit être rejetée.

Le Gouvernement allègue en outre que les griefs concernant la procédure en révision, qui n’ont pas formé l’objet de questions spécifiques adressées par la Cour aux autorités italiennes, ne doivent pas être pris en considération dans la décision sur la recevabilité de la requête.

La Cour relève que par un courrier du 10 octobre 2001, le Gouvernement a été invité à présenter par écrit ses observations sur la recevabilité et le bien-fondé des griefs tirés de l’iniquité de la procédure en révision et à répondre à une question spécifique concernant le droit des requérants d’interroger ou faire interroger les témoins à charge. Le Gouvernement a envoyé ses observations le 21 décembre 2001. Celles-ci ont été transmises aux requérants, qui ont ensuite présenté leurs observations en réponse.

Dans ces circonstances, la Cour estime qu’aucun obstacle ne s’oppose à ce que le grief tiré de l’iniquité de la procédure en révision soit pris en considération dans la décision sur la recevabilité de la requête.

2.  Le fond des griefs des requérants

Les requérants allèguent que la cour d’appel de Venise a constamment estimé non crédibles les témoins à décharge, les considérant soit politiquement liés aux accusés, soit peu précis.

Les requérants contestent, en outre, le fait que Mme Bistolfi a pu bénéficier de la faculté de garder le silence et affirment que la cour d’appel de Venise a indûment privilégié le droit au respect de la vie privée de ce témoin au détriment des droits de la défense. A cet égard, ils soulignent que dans son arrêt du 11 novembre 1995, la cour d’assises d’appel de Milan avait estimé que les déclarations de Mme Bistolfi étaient un élément important (il principale riscontro) pour confirmer la crédibilité de M. Marino. En particulier, le fait que ce dernier n’avait pas informé sa compagne du meurtre et de son intention d’avouer aurait démontré la spontanéité de sa confession. Selon les juges de la cour d’assises d’appel, si M. Marino avait eu l’intention de calomnier les requérants, il aurait été plus facile pour lui d’élaborer une version commune avec Mme Bistolfi ; cette dernière aurait notamment pu affirmer avoir déjà connu en 1972 les noms des responsables de l’homicide du commissaire Calabresi. Or, selon les requérants, les passages du journal intime cités ci-dessus dans la partie « en fait » pouvaient prouver exactement le contraire, c’est-à-dire que Mme Bistolfi avait menti lorsqu’elle affirmait ne pas avoir été au courant de l’intention de M. Marino de passer aux aveux. Cependant, en reconnaissant à Mme Bistolfi le droit de garder le silence, la cour d’appel de Venise a empêché les accusés de demander des explications à la personne qui avait rédigé ce journal intime, explications qui, concernant un élément nouveau, n’avaient jamais été données au cours du procès.

Les requérants allèguent également que la décision de la cour d’appel se fonde sur des erreurs de droit. En effet, M. Marino, qui dans l’arrêt du 11 novembre 1995 avait bénéficié d’une prescription, n’aurait pas dû être considéré comme « accusé » dans le procès en révision, et Mme Bistolfi, ayant accepté de répondre aux questions dans des phases antérieures de la procédure, n’aurait pas dû exercer son droit de garder le silence.

Le Gouvernement estime qu’aucune violation du principe du procès équitable ne saurait être décelée, étant donné que l’impossibilité d’interroger ou de faire interroger Mme Bistolfi était due au fait que celle-ci s’était légitimement prévalue du droit de garder le silence que lui reconnaissait l’article 199 du CPP.

La Cour rappelle que la recevabilité des preuves relève au premier chef des règles du droit interne (García Ruiz c. Espagne [GC], no 30544/96, CEDH 1999-I, § 28). La Cour n’est donc pas appelée à se prononcer sur le point de savoir si la faculté de garder le silence reconnue à Mme Bistolfi était conforme aux dispositions pertinentes du droit italien, mais à rechercher si l’impossibilité de l’interroger au cours de la procédure en révision a porté atteinte à l’équité de la procédure.

Les éléments de preuve doivent en principe être produits devant l’accusé en audience publique, en vue d’un débat contradictoire. Ce principe ne va pas sans exceptions, mais on ne saurait les accepter que sous réserve des droits de la défense ; en règle générale, les paragraphes 1 et 3 d) de l’article 6 commandent d’accorder à l’accusé une occasion adéquate et suffisante de contester un témoignage à charge et d’en interroger l’auteur, au moment de la déposition ou plus tard (Van Mechelen et autres c. Pays-Bas, arrêt précité, p. 711, § 51, et Lüdi c. Suisse, arrêt du 15 juin 1992, série A no 238, p. 21, § 49). En particulier, les droits de la défense sont restreints de manière incompatible avec les garanties de l’article 6 lorsqu’une condamnation se fonde, uniquement ou dans une mesure déterminante, sur les dépositions d’un témoin que l’accusé n’a eu la possibilité d’interroger ou faire interroger ni au stade de l’instruction ni pendant les débats (A.M. c. Italie, no 37019/97, CEDH 1999-IX, § 25, et Saïdi c. France, arrêt du 20 septembre 1993, série A no 261-C, pp. 56-57, §§ 43-44).

Or, la Cour relève que les requérants ont eu la possibilité d’interroger Mme Bistolfi et de lui poser les questions qu’ils ont estimées nécessaires pour leur défense au cours des phases du procès ayant précédé la révision.

Il est vrai qu’à cette époque, le contenu du journal intime n’était pas connu et que ce ne fut que pendant la procédure en révision que des explications concernant la signification exacte de certains passages de celui-ci auraient pu être demandées. Cependant, la Cour ne saurait estimer que l’impossibilité d’obtenir de telles explications par l’auteur du journal intime lui-même ait violé le droit à un procès équitable des requérants.

A cet égard, elle relève que les intéressés ont pu présenter à la cour d’appel de Venise leur propre interprétation des passages litigieux, essayant de soutenir que ces deniers démontraient que, contrairement à ce qu’elle avait précédemment affirmé, Mme Bistolfi connaissait l’intention de M. Marino de confesser bien avant la date de ses aveux officiels. Le fait qu’à la suite d’une analyse du texte en question les juridictions internes aient écarté cette thèse ne saurait constituer, en soi, une violation de l’article 6 de la Convention. Par ailleurs, le droit invoqué par le concubin d’un accusé pour se soustraire à l’audition ne saurait aboutir à paralyser des poursuites dont l’opportunité, au demeurant, échappe au contrôle de la Cour (voir, mutatis mutandisAsch c. Autriche, arrêt du 26 avril 1991, série A no 203, pp. 10-11, § 28).

De surcroît, il échet de noter que les déclarations de Mme Bistolfi ne constituaient point le seul élément de preuve sur lequel les juges du fond ont appuyé la condamnation des requérants. Bien au contraire, il ne s’agissait que d’un des éléments ayant servi à corroborer la principale preuve à charge, à savoir la confession de M. Marino, témoin que les requérants ont pu interroger à maintes reprises.

Dans ces conditions, la Cour ne saurait conclure que l’impossibilité d’examiner Mme Bistolfi pendant la procédure en révision a porté atteinte aux droits de la défense au point d’enfreindre les paragraphes 1 et 3 d) de l’article 6 (P.M. c. Italie (déc.), no 43625/98, 8 mars 2001, non publiée ; Raniolo c. Italie (déc.), no 62676/00, 21 mars 2002, non publiée Calabrò c. Italie (déc.), no 59895/00, 21 mars 2002, non publiée ; voir aussi, mutatis mutandisArtner c. Autriche, arrêt du 28 août 1992, série A no 242-A, pp. 10-11, §§ 22-24).

Enfin, quant au fait que la cour d’appel de Venise a estimé non crédibles les témoins à décharge, la Cour rappelle que, comme il a été affirmé précédemment, elle n’est pas compétente pour substituer sa propre appréciation des preuves à celle des juridictions internes.

Il s’ensuit que ce grief est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

 

4.  M. Bompressi se plaint de ne pas avoir été informé dans les plus brefs délais des raisons de son arrestation. Il invoque l’article 5 § 2 de la Convention, ainsi libellé :

«  Toute personne arrêtée doit être informée, dans le plus court délai et dans une langue qu’elle comprend, des raisons de son arrestation et de toute accusation portée contre elle. »

La Cour rappelle qu’aux termes de l’article 35 § 1 de la Convention, elle ne peut être saisie que dans un délai de six mois à partir de la date de la décision interne définitive. Lorsqu’un requérant se plaint d’une situation continue, telle qu’un état de détention, ce délai court à partir de la fin de celle-ci (voir Uzeyir c. Italie (déc.), no60268/00, 16 novembre 2000, non publiée).

En l’espèce, la détention ayant suivi l’arrestation de M. Bompressi s’est terminée le 18 octobre 1988, soit plus de six mois avant la date d’introduction de la requête (21 juillet 1997).

Il s’ensuit que ce grief est tardif et doit être rejeté en application de l’article 35 §§ 1 et 4 de la Convention.

 

Par ces motifs, la Cour, à la majorité,

Déclare la requête irrecevable.

Michael O’Boyle                                                                    Nicolas Bratza
         Greffier                                                                                  Président