REGNO UNITO Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo) |
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO QUARTA SEZIONE La sentenza così motiva(traduzione non ufficiale a cura dell’avvocato Paola Ripa) PRETTY contro REGNO UNITONel caso Pretty c. Regno Unito La Corte europea dei diritti dell’uomo ( quarta sezione), in una camera composta da: M.Pellonpaa , presidente N. Bratza E. Palm J. Makarczik M. Fischbach J. Casadevall S. Pavlovschi, giudici e da M. O’Boile, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 19 marzo e il 25 aprile 2002, emette la sentenza, adottata nell’ultima data:
PROCEDURA
1. All’origine del caso si trova il ricorso ( n. 2346/02) diretto contro il Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord e di cui una cittadina britannica, la signora Diane Pretty ( la ricorrente), aveva adito la Corte il 21 dicembre 2001 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ fondamentali (“ la Convenzione”). 2. La ricorrente, che ha ottenuto il beneficio del gratuito patrocinio, e’ stata rappresentata dall’avvocato Chakrabarti, avvocato che esercita a Londra. Il governo britannico e’ stato rappresentato dal suo agente Whomersley, del Ministero degli Affari Esteri e del Commonwealth. 3. La signora Pretty, che e’ paralizzata e soffre di una malattia neurodegenerativa incurabile, allegava nel suo ricorso che il rifiuto del Direttore della Pubblica Accusa “Director of Public Prosecutions” di accordare un’immunità penale al marito se l’avesse aiutata a suicidarsi e la proibizione dell’aiuto al suicidio prevista dal diritto britannico violavano a suo parere i diritti garantiti dagli articoli 2, 3, 8, 9 e 14 della Convenzione 4. Il ricorso e’ stato assegnato alla quarta sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento della Corte, in seguito “il regolamento”’). All’interno di questa, e’ stata costituita la camera incaricata di prenderne cognizione ( articoli 27 § 1 della Convenzione e 26 § 1 del regolamento). 5. La ricorrente ed il Governo hanno entrambi depositato delle osservazioni sulla ricevibilita’ e sul merito del caso ( articoli 54 § 3 b del regolamento). La Corte ha tuttavia ricevuto delle osservazioni della Voluntary Euthanasia Society e della Conferenza dei vescovi cattolici di Inghilterra e della regione del Galles, alle quali il presidente aveva dato l’autorizzazione ad intervenire nella procedura scritta (articoli 36 § 2 della Convenzione e 61 § 3 del regolamento). La ricorrente ha risposto alle suddette osservazioni ( articolo 61 § 5 del regolamento). 6. Un’udienza ha avuto luogo in pubblico al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 19 marzo 2002 ( articolo 59 § 2 del regolamento). Sono comparsi: per il Governo C. Whomersley agente, per la ricorrente P. Havers, QC La Corte ha ascoltato i signori Crow e Havers. IN FATTOI. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE7. La ricorrente e’ una donna di 43 anni. Sposata da venticinque anni, abita con suo marito, la loro figlia e la nipote. Essa soffre di una sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i neuroni motori all’interno del sistema nervoso centrale e provoca un’alterazione graduale delle cellule che comandano i muscoli volontari del corpo. La sua evoluzione conduce ad un grave indebolimento delle braccia e delle gambe così come dei muscoli che controllano la respirazione. La morte sopravviene generalmente in seguito a dei problemi di insufficienza respiratoria e di polmonite dovuti alla debolezza dei muscoli respiratori e di quelli che controllano la parola e la deglutizione. Nessun trattamento può bloccare la progressione della malattia.8. Lo stato della ricorrente si e’ deteriorato rapidamente dal novembre 1999 quando la malattia le e’ stata diagnosticata. La malattia si trova oggi in uno stato avanzato. La signora Pretty e’ quasi paralizzata dal collo ai piedi, essa non può in pratica esprimersi in maniera comprensibile e si alimenta mediante un tubo. La sua speranza di vita e’ molto limitata e si computa in mesi, oppure in settimane. Il suo intelletto e la sua capacita’ di prendere decisioni sono tuttavia intatti. Gli stadi ultimi della malattia sono estremamente penosi e si accompagnano con una perdita della dignità. La signora Pretty ha paura e si preoccupa della sofferenza e della perdita di dignità che dovrà affrontare se si lascia ulteriormente sviluppare la malattia, per questo lei spera di poter decidere quando e come lei morirà per sfuggire a questa sofferenza e questa mancanza di dignità.9. Il suicidio non e’ considerato come un reato nel diritto inglese, ma la ricorrente si trova impedita a causa della malattia di compiere un tale atto senza assistenza. Aiutare qualcuno a suicidarsi significa compiere un reato ( articolo 2 § 1 della legge del 1961 sul suicidio).10. Al fine di permettere alla sua cliente di suicidarsi con l’aiuto del marito, l’avvocato della ricorrente, con una lettera del 27 luglio 2001 e scritta in nome della signora Pretty, invitò il Direttore della Pubblica Accusa “Director of Public Prosecutions” (« DPP ») a prendere l’impegno di non incriminare il marito della ricorrente se quest’ultimo, aderendo ai desideri di sua moglie, aiutasse la ricorrente a suicidarsi.11. In una lettera dell’otto agosto 2001, il DPP si rifiuto’ di prendere questo impegno. Si espresse cosi’:“I DPP, e procuratori generali, successivi hanno sempre spiegato che non accorderebbero, quali che possano essere le circostanze eccezionali, l’immunità che assolvesse, richiedesse o dichiarasse di autorizzare o di permettere la commissione futura di qualunque reato …”12. Il 20 agosto 2001, la ricorrente sollecito’ il controllo giurisdizionale della decisione del DPP e domando’che fossero pronunciate:- un’ordinanza che annullava la suddetta decisione del DPP;- una dichiarazione che precisasse che questa decisione era illegale o che il DPP non avrebbe agito agiva illegalmente se avesse preso l’impegno richiesto o in difetto,- una dichiarazione ai sensi della quale l’articolo 2 della legge del 1961 sul suicidio era incompatibile con gli articoli 2, 3, 8, 9, e 14 della Convenzione.13. Il 17 ottobre 2001, la Divisional Court rigettava il ricorso, precisando che il DPP non aveva il potere di prendersi l’impegno di non incriminare e che l’articolo 2 § 1 della legge del 1961 sul suicidio non era incompatibile con la Convenzione.14. La ricorrente si appellava alla Camera dei Lords. Quest’ultima la respinse, il 29 novembre 2001, confermando la decisione della Divisional Court. Lord Bingham of Cornhill, pronunciò la decisione principale nel caso The Queen on the Application of Mrs Diane Pretty ( Appelant) c.Director of Public Prosecutions (Respondent) and Secretary of State for the Home Department ( Interested Party), esprimendosi così:“ 1. Nessuna persona di sensibilità normale può restare indifferente davanti alla sorte spaventosa che spetta alla attrice signora Diane Pretty. Essa soffre di sclerosi laterale amiotrofica, malattia degenerativa progressiva che non le permette di rimettersi. Le resta poco tempo da vivere, ed ella deve affrontare la prospettiva di una malattia umiliante e penosa. Essa ha conservato tutte le sue facoltà mentali e vorrebbe poter prendere le misure che le sembrano necessarie per mettere un termine sereno alla sua vita, nel momento scelto da lei. Adesso la sua invalidità fisica è ormai tale che le è impossibile di mettere fine alla sua vita senza l’aiuto di qualcuno. Con il sostegno della sua famiglia, essa spera di assicurarsi il concorso di suo marito a tale scopo. Il marito stesso e’ disposto a prestare la propria assistenza, ma solamente se egli può ottenere la garanzia che non sara’ perseguito penalmente ai sensi dell’art. 2 § 1 della legge del 1961 sul suicidio per aver aiutato sua moglie a suicidarsi. Invitato a prendere l’impegno che in virtù dell’articolo 2 § 4 della legge non consentirebbe di perseguire il signor Pretty a titolo dell’articolo 2 § 1 della legge se l’interessato aiutasse sua moglie a suicidarsi, il DPP ha rifiutato di accogliere la richiesta. La Queen’s Bench Divisional Court, adita dalla signora Pretty per un controllo giurisdizionale del rifiuto del DPP, ha confermato la decisione del DPP e si e’ rifiutata di permettere le misure sollecitate. La signora Pretty rivendica il diritto di farsi assistere da suo marito per suicidarsi e sostiene che l’articolo 2 della legge del 1961, se proibisce al marito di aiutarla a suicidarsi e per questo impedisce al DPP di prendere l’impegno di non perseguirlo in simile ipotesi, e’ incompatibile con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Dipende dalla Convenzione, entrata in vigore nel nostro paese con la legge del 1998 sui diritti dell’uomo, la pretesa della signora Pretty. A nome della sua cliente, l’avvocato dell’interessata ha ammesso che ilcommon law di Inglilterra non permette nessuna chance di successo alla domanda formulata.2. Investita di funzioni giudiziarie della Camera, la commissione di ricorso ( appelate committee) ha per scopo di risolvere le questioni di diritto che le sono deferite, e’ il caso di quelle evocate nel caso di specie. La commissione non e’ un organo legislativo. Non e’ abilitata ne’ qualificata per agire come arbitro morale o etico. E’ importante sottolineare la natura ed i limiti del suo ruolo, visto che le questioni di vasta portata sollevate con il ricorso attuale sono l’oggetto di una preoccupazione profonda e interamente giustificata da molte persone. Le questioni di sapere se le malattie in fase terminale o altre devono avere la facoltà di sollecitare un aiuto per suicidarsi e, nel caso affermativo, in quali condizioni e mediante quali limiti, rivestono un’importanza sociale, etica e religiosa considerevole, ed esistono per questo argomento delle convinzioni e delle idee largamente divergenti e sovente molto marcate. I documenti depositati davanti alla commissione ( con la sua autorizzazione) espongono alcune di queste concezioni; molte altre sono state espresse dai media, nelle riviste specializzate e altrove. La commissione non ha per compito nel caso di specie di soppesare, di valutare o di riflettere su queste convinzioni e concezioni, o di rendere efficaci le sue proprie concezioni, ma di stabilire e d’applicare il diritto del paese come si interpreta oggi.Articolo 2 della Convenzione3. L’articolo 2 della Convenzione è così formulato….(…)Questo articolo deve essere combinato con gli articoli 1 e 2 del Sesto Protocollo, che fanno parte dei diritti convenzionali protetti dalla legge del 1998 (vedere l’articolo 1 § 1 c di questa) e che hanno abolito la pena di morte in tempo di pace.
4. L’avvocato della signora Pretty sostiene che l’articolo 2 protegge non la vita stessa, ma il diritto alla vita. Questa clausola mirerebbe a proteggere gli individui contro i terzi ( lo Stato e le autorità pubbliche), ma essa riconoscerebbe che appartiene all’individuo di scegliere di vivere o no e proteggerebbe anche il diritto all’autodeterminazione di ciascuno relativamente alle questioni di vita e di morte. Quindi, una persona potrebbe rifiutare un trattamento medico mirante a salvare una vita o a prolungarla e potrebbe quindi legalmente scegliere di suicidarsi. L’articolo 2 riconoscerebbe questo diritto dell’individuo. Se la maggior parte delle persone desiderano vivere, alcune desiderano di morire, e la disposizione in oggetto proteggerebbe ciascuno di questi due diritti. Il diritto di morire non sarebbe l’antitesi del diritto alla vita, ma il suo corollario, e lo Stato avrebbe l’obbligo positivo di proteggere i due.
5. Il ministro ha formulato rispetto a questo argomento un certo numero di obiezioni imparabili, che la Divisional Court ha peraltro a giusto titolo considerato. E’ necessario partire dalla formulazione dell’articolo in oggetto. Questo ha per oggetto di riflettere il carattere sacro che, specialmente agli occhi degli occidentali, è dato alla vita. L’articolo 2 protegge il diritto alla vita e vieta di uccidere deliberatamente, salvo in circostanze rigorosamente definite. Un articolo avente tale oggetto non si può interpretare come il diritto a morire o ad ottenere il concorso altrui a mettere fine alla propria vita. Nella tesi sviluppata da lui per conto della signora Pretty, il signor Havers Q.C. si e’ sforzato di limitare il suo argomento al suicidio assistito, ammettendo che il diritto rivendicato non può andare fino a coprire l’omicidio consensuale ( sovente qualificato “eutanasia volontaria”, ma considerato nel diritto inglese come omicidio). Il diritto rivendicato sarebbe sufficiente per risolvere il caso della signora Pretty, e si comprende che l’avvocato dell’interessata non desidera andare oltre . Ma nulla sul piano logico giustifica che si tracci una simile linea di demarcazione. Se l’articolo 2 conferisce un diritto all’autodeterminazione in rapporto alla vita ed alla morte e se una persona e’ cosi handicappata che si trova nell’impossibilita’ di compiere qualsiasi atto teso a provocare la morte, ne segue necessariamente, in buona logica, che questa persona ha un diritto ad essere uccisa da un terzo senza assistenza alcuna dalla sua parte e che lo Stato viola la Convenzione se si intromette nell’esercizio di questo diritto. Non e’ tuttavia possibile dedurre un simile diritto da un articolo avente l’oggetto cosi’ come descritto.
6. E’ vero che alcuni diritti garantiti dalla Convenzione sono stati interpretati come idonei a conferire dei diritti di non fare quello che costituisce l’antitesi di ciò che il diritto esplicitamente riconosciuto autorizza a fare. L’articolo 11, per esempio, conferisce un diritto a non aderire ad una associazione ( Young James e Webster contro Regno Unito ( 1981) 4 EHRR 38) l’articolo 9 comporta un diritto a non essere sottomessi ad alcuna obbligazione di esprimere dei pensieri, di cambiare opinione o di divulgare delle convinzioni ( Clayton and Thomlinson, The Law of Human Rights (2000), p. 974, § 14.49) e sarei tentato secondo me ad ammettere che l’articolo 12 conferisce un diritto a non sposarsi (ma vedere Clayton e Tomlinson, ibidem, p. 913, § 13.76). Non si potrebbe tuttavia affermare ( per prendere alcuni degli esempi evidenti) che gli articoli 3, 4, 5 e 6 conferiscono un diritto implicito a fare o provare l’opposto di ciò che i suddetti articoli garantiscono. Quali che siano i vantaggi che rivela agli occhi di numerose persone l’eutanasia volontaria, il suicidio, il suicidio medico assistito ed il suicidio assistito senza intervento medico, questi vantaggi non risultano nella protezione di un articolo che e’ stato concepito per proteggere il carattere sacrale della vita.
7. Non si trova nella giurisprudenza prodotta dalla Convenzione nessun precedente suscettibile di supportare il caso della signora Pretty. Nel caso in cui si voglia trovare dei precedenti pertinenti, essi vanno contro la tesi difesa dall’interessata. Nel caso Osman contro Regno Unito (1998) 29 EHRR 245, i ricorrenti rimproveravano al Regno Unito di non aver difeso il diritto alla vita del secondo ricorrente e del padre deceduto. La Corte si pronunciava cosi’:
“115.La Corte osserva che la prima frase dell’articolo 2 § 1 costringe lo Stato non solamente ad astenersi dal provocare la morte volontaria e irregolare ma anche a prendere delle misure necessarie alla protezione della vita delle persone rilevanti dalla sua giurisdizione. Nessuno contesta che l’obbligo dello Stato a questo riguardo supera il dovere primordiale di assicurare il diritto alla vita ponendo una legislazione penale tale da dissuadere dal commettere reati contro la persona e appoggiandosi su un meccanismo d’applicazione concepito per prevenire, reprimere e sanzionare le violazioni. Anche le parti comparse accettano che l’articolo 2 della Convenzione possa, in alcune circostanze ben definite, mettere a carico delle autorità l’obbligo positivo di prendere delle misure di ordine pratico per proteggere l’individuo minacciato dalle aggressioni criminali altrui. Le parti non sono d’accordo sull’ampiezza di questo obbligo. 116. Per la Corte, e senza perdere di vista le diffiicolta’ per la polizia d’esercitare le sue funzioni nelle società contemporanee, ne’ l’imprevedibilità del comportamento umano ne’ le scelte operative da adottare in termini di priorità e di risorse, bisogna interpretare questo obbligo in maniera di non imporre alle autorità un fardello impossibile o eccessivo. Da allora, ogni minaccia presunta contro la vita non obbliga le autorità, riguardo alla Convenzione, a prendere delle misure concrete per prevenirne la realizzazione. Un’altra considerazione pertinente e’ la necessita’ di assicurare che la polizia eserciti il suo potere di stroncare e di prevenire la criminalità rispettando pienamente le vie legali e le altre garanzie che limitano legittimamente la portata degli atti d’investigazione criminale e della consegna dei delinquenti alla giustizia, comprese le garanzie presenti agli articoli 5 e 8 della Convenzione”.
Il contesto del caso Osman era molto differente. Ne’ il secondo ricorrente ne’ suo padre avevano avuto il minimo desiderio di morire. Ma l’interpretazione dell’articolo 2 data all’epoca dalla Corte e’ perfettamente compatibile con quella che io stesso ho dato qui.
8. I casi X contro Germania ( 1984) 7 EHRR 152 e Keenan contro Regno Unito ( ricorso n. 27229/95; 3 aprile 2001, non pubblicata) furono ugualmente trattati in un contesto fattuale molto diverso da quello caratterizzante la fattispecie in esame. Quando era in carcere X faceva lo sciopero della fame ed era stato nutrito di forza dalle guardie carcerarie. Egli si lamentava di avere subito un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione, tematica che sara’ sviluppata qua sotto. Il suo ricorso fu rigettato dalla Commissione, che si esprimeva cosi’ ( pagine 153-154):
“La Commissione sostiene che il fatto di nutrire di forza una persona comporta degli aspetti degradanti che, in alcune circostanze, possono essere considerati come interdetti dall’articolo 3 della Convenzione. In ogni caso, le Alte Parti contraenti sono tuttavia tenute ad assicurare ad ognuno il diritto alla vita consacrato dall’articolo 2 Un simile obbligo richiede in alcune circostanze da parte delle Parti contraenti di (adottare n.d.r.) misure positive, e particolarmente degli atti concreti per salvare la vita di una persona in pericolo di morte quando quest’ultima si trovi sotto la tutela delle autorità. Quando, come nel caso di specie, una persona detenuta persegue lo sciopero della fame, questo può essere fonte di conflitto, che la Convenzione non risolve, fra il diritto all’integrità fisica dell’individuo e l’obbligo che l’articolo 2 della Convenzione vincola le Alte Parti contraenti. La Commissione ricorda che la soluzione fornita per un caso di diritto tedesco: e’ permesso di nutrire a forza un detenuto se questo, in ragione di uno sciopero della fame, rischia di subire dei danni di natura permanente, e l’alimentazione forzata e’ ugualmente obbligatoria se esiste il pericolo manifesto per la vita dell’interessato. La valutazione delle condizioni citate e’ riservata al medico competente, ma una decisione di alimentare una persona di forza non può essere che attuata dopo l’ottenimento di un’autorizzazione giudiziaria. (…) La Commissione considera che le autorità hanno agito, nel caso di specie, nel miglior interesse del ricorrente quando hanno scelto tra il rispetto della volontà dell’interessato di non accettare alcun nutrimento e correre il rischio di veder subire dei danni irreparabili o morire, o la reazione tentando d’assicurare la sopravvivenza sapendo che la stessa reazione poteva portare a violare la dignità umana.”.
Nel caso Keenan, un giovane detenuto si era suicidato e sua madre rimproverava le autorità carcerarie d’essere deficitarie nel proteggere la sua vita. Nella sentenza che rigettava la doglianza, la Corte cosi’si esprimeva ( pagina 29, § 90):
“Per ciò che concerne i detenuti, la Corte ha già avuto occasione di sottolineare che le persone in carcere sono fragili e che le autorità le devono proteggere. E’ dovere dello Stato fornire una spiegazione della causazione delle ferite dei carcerati, questo obbligo si inasprisce quando la persona muore… Si nota che la necessita’ di un esame e’ riconosciuto dal diritto inglese e gallese, secondo cui un’inchiesta si apre automaticamente quando una persona muore in carcere, ed i tribunali interni impongono alle autorità penitenziarie un dovere di vigilanza riguardo alle persone detenute nel loro istituto”.
I due casi sopra citati possono essere distinti dal caso di specie, il comportamento incriminato in ognuno dei casi è avvenuto quando la vittima si trovava in carcere sotto il controllo dello Stato, al quale incombeva in modo speciale sin dal momento dell’incarcerazione di vigilare sul benessere della vittima. Si può agevolmente sostenere che l’obbligo dello Stato di proteggere la vita di una vittima potenziale si inasprisce quando la vittima si trovi in prigione. In questa misura, i due casi precitati differiscono dalla caso della signora Pretty perché la ricorrente non si trova sotto il controllo dello Stato. L’obbligo positivo per lo Stato di proteggere la vita della signora Pretty e’ meno pesante rispetto ai casi discussi. Sarebbe tuttavia valicare un passo molto importante e, secondo me, in ogni caso inammissibile, quello di passare dall’accettazione di questa proposta all’accettazione della affermazione che incombe sullo Stato l’obbligo di riconoscere alla signora Pretty il diritto a farsi aiutare per suicidarsi.
9. Nel campo coperto dalla Convenzione, l’autorità delle decisioni interne e’ necessariamente limitata. E, noi l’abbiamo già rilevato, la signora Pretty fonda la sua causa sulla Convenzione. E’ tuttavia interessante notare che le sue argomentazioni sono incompatibili con due principi profondamente radicati nel diritto inglese. Il primo consiste nella distinzione fra il suicidio commesso per un atto personale e quello commesso per l’intervento o l’assistenza di un terzo. Il primo caso e’ oggi ammesso, da quando il suicidio ha cessato di costituire un reato dal 1961. Il secondo continua ad essere perseguito. La distinzione e’ stata molto chiaramente esposta da Lord justiceHoffman nel caso Airedale NHS Trust c. Bland ( 1993) AC 789, pagina 831:
“Nessuno sostiene nel caso di specie che Anthony Bland deve vedersi somministrata un’iniezione mortale. La preoccupazione concerne la distinzione fra cessare di alimentare una persona e, per esempio, cessare di curare un’infezione con degli antibiotici. C’ e’ una vera distinzione? Per comprendere il sentimento intuitivo che cerchi di provare questa questione, bisogna cominciare per ricercare la ragione per cui la maggior parte di noi sarebbe sconvolta dall’idea se l’interessato ricevesse un’iniezione mortale. Questo sentimento e’ legato, io penso, alla nostra concezione secondo cui il carattere sacro della vita implica l’inviolabilità da parte di altri . Sotto riserva eccezionale come la legittima difesa, la vita umana e’ inviolabile, anche se la persona interessata ha consentito alla sua violazione. Questa e’ la ragione per cui, anche se il suicidio non e’ penalmente rilevante, l’aiuto al suicidio lo e’. Ne risulta, anche se pensiamo che Anthony Bland avesse dato il suo consenso, noi non abbiamo il diritto di mettere fine alla sua vita con un’iniezione mortale.
La seconda distinzione e’ quella che esiste fra il fatto di mettere fine ad un trattamento mirante a salvare la vita o a prolungarla, da una parte, e il fatto di compiere un atto privo di giustificazione medica terapeutica o palliativa ma destinato unicamente a mettere fine alla vita, d’altra parte. E’ questa distinzione che fondava laratio decidendi delle decisioni rese nel caso Bland. La Corte d’appello l’ha formulata in maniera succinta nella sua decisione J. (A.Minor) (Wardship: Medical Treatment) (1991) Fam 33, nella quale Lord Donaldson of Lymington dichiaro’(pag 46):
“Ciò che i medici ed il tribunale devono decidere, e’ la questione di sapere se, nell’interesse del bimbo malato, una decisione particolare circa il trattamento medico deve essere preso per vedere se rende la morte e’ più o meno probabile. Non e’ una questione di semantica. E’ una questione fondamentale. Al di la’ dell’aspetto dell’età, l’utilizzazione dei medicinali per ridurre il dolore e’ sovente perfettamente giustificata, anche se deve avere come effetto di accelerare il momento del decesso. Ciò che non si può mai giustificare, e’ di ricorrere a dei medicinali o degli interventi chirurgici che mirano a produrre la morte”.
Delle osservazioni analoghe sono state formulate da Lord Justice Balcombe e da Lord Justice Taylor alle pagine 51 e 53 rispettivamente della decisione. Se le distinzioni esposte qua sopra non si collegano alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nulla lascia supporre che esse siano incompatibili con la giurisprudenza degli organi della Convenzione. Non e’ sufficiente che la signora Pretty dimostri che il Regno Unito non agirebbe in senso contrario alla Convenzione se dovesse autorizzare l’aiuto al suicidio, bisogna andare oltre e stabilire che il Regno Unito viola la Convenzione non autorizzando il suicidio assistito, o che violerebbe il suddetto testo se non autorizzasse il suicidio assistito. Questa tesi e’ per me insostenibile, come ugualmente ha valutato la Divisional Court.
Articolo 3 della Convenzione:
10. L’articolo 3 della Convenzione prevede: (…)
Questo articolo e’ uno di quelli che interdice agli Stati contraenti di derogare, anche in caso di guerra o di pericolo pubblico che minacciano la vita di una Nazione ( vedere l’articolo 15). Per comodità, utilizzerò l’espressione “ trattamenti proscritti” per designare i “trattamenti disumani e degradanti ai sensi della Convenzione.
11. Riassumendo, l’argomento sviluppato in nome della signora Pretty può scomporsi come segue:
1)Pesa sugli Stati membri un obbligo assoluto e incondizionato di non infliggere trattamenti proscritti e di prendere misure positive per evitare che degli individui non siano sottomessi a tali trattamenti: A. c. Regno Unito (1998) 27 EHRR 611; Z c. Regno Unito (2001) 2 FLR 612, p. 631, § 73.
2) Le sofferenze dovute al progredire di una malattia possono essere considerate come rilevanti dello stesso trattamento se lo Stato e’ in grado di attenuarle e non lo fa: D c. Regno Unito (1997) 24 EHRR 423, pp. 446-449, §§ 46-54.
3) Negando alla signora Pretty la possibilità di mettere fine alle sue sofferenze, il Regno Unito ( per il tramite del DPP) sottometterà l’interessata ad un trattamento proscritto. Lo Stato può evitare alla signora Pretty la sofferenza che in difetto lei dovrà subire poiché, se il DPP non prende l’impegno a non incriminare, il signor Pretty aiuterà sua moglie a suicidarsi, risparmiando all’interessata molte sofferenze.
4)Allorché, come ha giudicato la Divisional Court, la Convenzione permette al Regno Unito di astenersi dall’interdire il suicidio assistito, il DPP può prendere l’impegno sollecitato senza violare gli obblighi che la Convenzione fa pesare sul Regno Unito.
5)Se il DPP non può prendere l’impegno sollecitato, l’articolo 2 della legge del 1961 e’ incompatibile con la Convenzione.
12. E’ stato sostenuto in nome del ministro che l’articolo 3 della Convenzione non e’ stato messo in causa, ma se qualcuno dei diritti protetti da questo articolo e’ messo in gioco, in ogni caso i diritti in questione non comportano un diritto a morire. A sostegno del primo di questi argomenti e’ stato allegato che non c’e’ stata nel caso di specie violazione del divieto enunciato nella disposizione in oggetto. La proibizione negativa consacrata da questa disposizione sarebbe assoluta e incondizionata, ma gli obblighi positivi che ne derivano non sarebbero assoluti: vedere le sentenze Osman c. Regno Unito e Rees c. Regno Unito (1986) 9 EHRR 56. Gli Stati certamente potrebbero essere obbligati a proteggere la vita e la salute di una persona in carcere ( causaKeenan già citata) ed a controllare che nessuno ha subito dei trattamenti proscritti da parte di persone diverse dagli agenti dello Stato ( caso dell’A c. Regno Unito già citato) e sarebbe vietato di adottare riguardo all’individuo delle misure dirette proprio ad arrecare l’inflizione all’interessato di trattamenti proscritti ( D c. Regno Unito (1997) 24 EHRR 423), ma nessuna di questi obblighi può essere invocato dalla signora Pretty nel caso di specie. A sostegno del secondo argomento e’ stato sostenuto che,pur non affermando che lo Stato ha l’obbligo di fornire delle cure mediche al fine di migliorare la sua vita e di prolungarla, la Signora Pretty pretende che lo Stato abbia l’obbligo legale di rendere lecito il fatto di mettere fine alla sua vita. Ne’ dalla lettura della Convenzione ne’ dalla giurisprudenza degli organi creati da essa , emerge un obbligo derivante dall’articolo 3. La decisione concernente la questione di sapere fino dove si estende l’obbligo positivo di proteggere gli individui contro i trattamenti proibiti, apparterebbe agli Stati membri, che dovrebbero tenere conto per statuire degli interessi e delle considerazioni pertinenti; pur essendo tutto suscettibile di controllo, la decisione dovrebbe essere rispettata. Il Regno Unito avendo esaminato le questioni in profondità avrebbe deciso di mantenere lo status quo.
13. L’articolo 3 consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche, ed il divieto dei trattamenti proscritti e’ assoluto: D. c. Regno Unito ( 1997) 24 EHRR 423, p. 447, § 47. L’articolo 3 e’, secondo la mia concezione, complementare all’articolo 2. Nello stesso modo in cui l’articolo 2 obbliga gli Stati a rispettare e preservare la vita degli individui rilevanti dalla loro giurisdizione, l’articolo 3 obbliga gli Stati a rispettare l’integrità fisica e umana degli individui in oggetto. Nulla nell’articolo 3 fa pensare ad un diritto per l’individuo di scegliere di vivere o non vivere. L’articolo 3 non ha questo campo d’applicazione; come emerge chiaramente dalla causa X c. Germania già citata, uno Stato può occasionalmente e legittimamente infliggere, al fine di far rispettare l’articolo 2, dei trattamenti di regola costitutivi di una violazione dell’articolo 3. In aggiunta, l’interdizione assoluta ed incondizionata per uno Stato di infliggere dei trattamenti proscritti necessita che non si dia un significato illimitato o stravagante al termine trattamenti. Non si può, secondo me, sostenere in modo plausibile che il DPP o qualsiasi altra autorità del Regno Unito infligga un trattamento proscritto alla signora Pretty, di cui la sofferenza deriva dalla malattia crudele.
14. Il precedente più utile alla signora Pretty e’ la sentenza D. c. Regno Unito (1997) 24 EHRR 423, che concerneva l’espulsione verso Saint Kitts di un uomo in fase terminale di AIDS. La doglianza fondata sulla Convenzione derivava dalla applicazione della decisione dell’espulsione avuto riguardo allo stato di salute del ricorrente, dell’assenza di strutture in grado di dispensare un trattamento, delle cure od un sostegno adeguato a Saint Kitts e l’interruzione nel Regno Unito di un regime che gli aveva garantito un trattamento e delle medicine sofisticate in un ambiente compatibile. La Corte ha giudicato che l’esecuzione della decisione di espellere il ricorrente verso Saint Kitts rientrava, in base alle circostanze del caso di specie, in un trattamento inumano contrario all’articolo 3. In questo caso, il Regno Unito intendeva adottare delle misure dirette che avrebbero avuto come effetto di aggravare le sofferenze ed abbreviare la vita del ricorrente. L’espulsione progettata poteva essere legittimamente considerata come un “trattamento. Si potrebbe trovare un’analogia con la citata causa con il caso Pretty se un agente pubblico avesse interdetto la somministrazione di medicine analgesiche o palliative alla signora Pretty. Si sostiene nel caso di specie che il trattamento proscritto risiede nel rifiuto del DPP di accordare in anticipo un’immunità dalle incriminazioni del signor Pretty nel caso in cui commettesse un’infrazione determinata. Nessun legittimo procedimento di interpretazione può far concludere che il già detto rifiuto deriva dall’ interdizione negativa posta dall’ articolo 3.
15. Se si ammette che l’articolo 3 può applicarsi ad un caso come quello di specie e quindi non si può sostenere in modo difendibile che c’e’ stata una violazione del divieto negativo previsto dall’articolo 3, la questione si pone nel sapere se il Regno Unito ( per decisione del DPP) misconosce il suo obbligo positivo di prendere misure tali da impedire che degli individui siano sottomessi a dei trattamenti proscritti. In questo contesto, l’obbligo gravante sullo Stato non e’ incondizionato e assoluto. Ciò emerge dal passaggio citato al paragrafo 7 qui sopra della sentenza Osman c. Regno Unito emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo stesso principio e’ stato riconosciuto dalla Corte nella sua sentenza Rees c. Regno Unito ( 1986) 9 EHRR 56, di cui il paragrafo 37 dispone (pagine 63-64):
“37. Come la Corte ha rivelato nella sentenza Abdulaziz, Cabales e Balkandali, la nozione di “rispetto” manca di chiarezza, soprattutto quando si tratta di tali obblighi positivi; le sue esigenze cambiano molto da un caso all’altro vista la diversità delle pratiche seguite e delle condizioni esistenti negli Stati contraenti.
L’ osservazione rileva specialmente nel caso di specie. Secondo la loro legislazione, la loro giurisprudenza o la loro pratica amministrativa, molti Stati danno ai transessuali la facoltà di cambiare il loro stato civile per adattarlo alla loro identità nuovamente acquisita. Gli stati subordinano in ogni caso a delle condizioni più o meno severe e mantengono delle riserve espresse ( per esempio quanto alle obbligazioni anteriori). Gli altri Stati non offrono, o non ancora, la stessa facoltà. Si può quindi dire, per il momento, che non c’e’ ancora una identità di vedute nella materia e che, nell’insieme, il diritto sembra attraversare una fase di transizione. Pertanto, si tratta di un campo dove gli Stati contraenti godono di un grande margine d’apprezzamento.
Per determinare se esiste un obbligo positivo, bisogna tenere in considerazione – preoccupazione inerente a tutta la Convenzione – il giusto equilibrio fra l’interesse generale e gli interessi dell’individuo. Nella ricerca di un tale equilibrio, gli obiettivi enumerati al paragrafo 2 dell’articolo 8 ( art. 8-2) possono giocare un certo ruolo, ancorché questa disposizione parli unicamente di “ingerenze nell’esercizio del diritto protetto dal primo comma e mira quindi alle obbligazioni negative che ne derivano.
Il caso Rees concerneva l’articolo 8 e si occupava di una questione molto diversa da quella sollevata nel caso di specie, ma le osservazioni formulate dalla Corte all’epoca avevano una portata più generale. Va da se’ che se gli Stati possono vedersi interdire in modo assoluto la possibilità di infliggere dei trattamenti proscritti agli individui rilevanti dalla loro giurisdizione, le misure utili o necessarie all’adempimento di un obbligo positivo devono essere apprezzate caso per caso, possono variare da uno Stato all’altro, dipendono prima dalle opinioni e dalle convinzioni della gente e sono meno suscettibili di un’ingiunzione universale. Per i motivi più abbondantemente esposti ai paragrafi 27 e 28 qui sotto, non si saprebbe dire, che pesa sul Regno Unito un obbligo positivo di controllare che una persona sana di spirito ma affetta da malattia terminale e che desidera mettere fine ai suoi giorni ma non e’ in grado di farlo abbia la facoltà di sollecitare l’assistenza di un’altra persona senza che quest’ultima sia sottoposta al rischio di incriminazione.
Articolo 8 della Convenzione
16. L’articolo 8 della Convenzione cosi’ recita: (..).
17.L’avvocato della signora Pretty sostiene che questa disposizione conferisce un diritto all’autodeterminazione e rinvia ai casi X e Y c. Paesi Bassi (1985) 8 EHRR 235,Rodriguez C. Procuratore generale del Canada (1994) 2 LRC 136, e A. ( Children) (Conjoined Twins: Surgical Separation) 2001 Fam. 147.Questo diritto ingloberebbe un diritto di scegliere quando e come morire, in modo da evitare sofferenza e perdita della dignita'. L’articolo 2 § 1 della legge del 1961 violerebbe il diritto all’autodeterminazione; spetterebbe dunque al Regno Unito di dimostrare che l’ingerenza incriminata s’ispira ai criteri di legalità, di necessità, di risposta ad un bisogno sociale imperativo e di proporzionalità derivanti dalla Convenzione: vedere R. c. A. (n. 2) (2001) 2 WLR 1546, Johansen c. Norvegia (1996) 23 EHRR 33, e R (P) c. Secretary of State for the Home Department (2001) 1 WLR 2002. Quando l’ingerenza incriminata concerne un aspetto intimo della vita privata di un individuo, essa si deve basare su dei motivi particolarmente seri: Smith e Grady c. Regno Unito (1999) 29 EHRR 493, p. 530, § 89. The court must in this case rule whether it could be other than disproportionate for the Director to refuse to give the undertaking sought and, in the case of the Secretary of State, whether the interference with Mrs Pretty’s right to self-determination is proportionate to whatever legitimate aim the prohibition on assisted suicide pursues. Si tratterebbe per la Corte nel caso di specie di dire se si può giudicare meno che sproporzionato il rifiuto del DPP di prendere l’impegno sollecitato e, nel caso del ministro, se la violazione verso il diritto all’autodeterminazione della signora Pretty e’ proporzionata allo scopo legittimo, quel che sia, perseguito per l’interdizione al suicidio assistito. L’avvocato della signora Pretty pone un accento particolare su alcuni tratti caratteristici della causa della sua cliente: il fatto che quest’ultima e’ in pieno possesso delle sue facoltà mentali, le prospettive spaventose che sono le sue, il fatto che lei sarebbe pronta a suicidarsi se ne avesse la possibilità, l’imminenza della sua morte, il fatto che il suicidio assistito non causerebbe problemi a nessuno altro ed il fatto che una soluzione favorevole alla sua richiesta non avrebbe delle implicazioni di grande portata. Egli sostiene che l’interdizione generale posta dall’articolo 2 § 1 della legge del 1961, che si applica senza tenere conto dei casi particolari, e’ totalmente sproporzionata e ingiustificata visti gli elementi invocati. Rinvia ai casi R c. Regno Unito (1983) 33 DR 270, e Sanles c. Spagna (2001) EHRLR 348.
18. Il ministro, dal suo punto di vista, si e’ chiesto se i diritti garantiti alla signora Pretty dall’articolo 8 si trovano in gioco, e la sua risposta e’ negativa. Il diritto alla vita privata consacrato dall’articolo 8 si rapporta nel modo in cui una persona conduca la sua vita e non il modo in cui metta fine alla sua vita. Ogni tentativo di fondare un diritto di morire sull’articolo 8 urterebbe esattamente con la stessa obiezione sul tentativo basato sull’articolo 2, sapendo che il diritto allegato importerebbe l’estinzione dello stesso beneficio che intende offrire: l’articolo 8 proteggerebbe l’integrità fisica, morale e psicologica dell’individuo, ciò che proteggerebbe i diritti dell’individuo sul proprio corpo, ma nulla consente di pensare che l’articolo 8 conferisce un diritto a decidere come e quando morire. Il ministro sostiene ugualmente che in caso di bisogno l’articolo 2 § 1 della legge del 1961 e l’applicazione che viene attuata potrebbero perfettamente essere giustificati nel merito. Si riferisce al margine d’apprezzamento che sarebbe accordato agli Stati contraenti, all’attenzione creata per queste questioni nel Regno Unito ed al largo consenso che si formerebbe in seno alla comunità degli Stati parti della Convenzione. Riferendosi ai casi Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito ( 1997) 24 EHRR 39, nella quale l’incriminazione di atti di inflizione consensuale di tagli sarebbe stata legittima, egli sostiene che la giustificazione dell’incriminazione di atti di inflizione consensuale della morte o del suicidio assistito deve essere ancora più grande.
19. La discussione più dettagliata ed erudita che io conosca delle questioni del caso di specie emerge nelle decisioni prese dalla Corte Suprema del Canada nel caso Rodriguez c. Procuratore generale del Canada (1994) 2 LRC 136. La ricorrente in questo caso soffriva di una malattia che giuridicamente non può essere distinta da quella della signora Pretty. L’interessata era ugualmente handicappata, e lei sperava di ottenere un’ordinanza che autorizzasse un medico competente a mettere in funzione un dispositivo tecnico in modo che lei potesse, di sua propria mano ma con l’aiuto di questo medico, mettere fine alla sua vita nel momento da lei scelto. Il suicidio non era considerato come un reato in Canada, ma l’articolo 241 b) del codice penale era redatto nei termini comparabili con l’articolo 2 § 1 della legge del 1961. La ricorrente fondava la sua domanda sulla Carta canadese dei diritti e delle libertà, che comprendeva gli articoli seguenti, pertinenti per la causa:
<<1) La Carta canadese dei diritti e delle libertà garantisce i diritti e le libertà che vi sono enunciate. Essi non possono essere negati che per una regola di diritto, nei limiti che siano ragionevoli e la cui giustificazione possa dimostrarsi nel quadro di una società libera e democratica.
7) Ognuno ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della sua persona ; non può essere violato questo diritto se non in conformità con i principi della giustizia fondamentale.
12) Ognuno ha diritto alla protezione contro tutti i trattamenti o pene crudeli e inusitati.
15.1) La legge non fa eccezione a nessuno e si applica ugualmente a tutti, e tutti hanno diritto alla stessa protezione ed allo stesso beneficio di legge, indipendentemente da ogni discriminazione, in particolare discriminazioni fondate sulla razza, l’origine nazionale o etnica, il colore, la religione, il sesso, l’età o le deficienze mentali o fisiche.>>
Il giudice di prima istanza aveva rigettato la domanda della signora Rodriguez. I motivi del suo giudizio si trovano riassunti come segue alla pagina 144 della sentenza della Corte suprema del Canada:
“..e’ la malattia di cui soffre la signora Rodriguez, e non lo Stato o il sistema giudiziario, che impedisce di determinare a suo gradimento il momento e le circostanze della morte.”
Concludendo per la non violazione dell’articolo 12 della Carta, il suddetto magistrato s’espresse cosi’:
“interpretare l’articolo 7 in modo da includervi il diritto garantito dalla Costituzione di levarsi la vita in nome della liberta’ di scelta e’, a mio avviso, incompatibile con il diritto alla vita, alla liberta’ ed alla sicurezza della persona”.
Egli giudico’ ugualmente che l’articolo 241 non recava alcuna discriminazione a carico delle persone handicappate fisicamente.
20. La corte d’appello della Colombia britannica giudico’ a maggioranza ( pagina 148) che se l’applicazione dell’articolo 241 privava la signora Rogriguez del diritto alla sicurezza della sua persona che le garantiva l’articolo 7 della Carta, non contravviene ai principi di giustizia fondamentale. Il giudice capo signor McEachern dichiaro’ (pagina 146) che quando lo Stato impone delle proibizioni che hanno per effetto di prolungare le sofferenze fisiche e psicologiche di una persona viola prima faciel’articolo 7, e che una disposizione che impone un periodo indefinito di sofferenza fisica e psicologica inutile ad una persona che e’ in ogni caso sul punto di morire non può essere conforme ad alcun principio di giustizia fondamentale.
21. All’interno della Corte suprema, le opinioni furono ancora una volta divise. La decisione della maggioranza fu resa dal giudice Sopinka, ad avviso del quale si unirono i giudici La Forest, Gonthier, Iacobucci e Major. Il giudice Sopinka si espresse in questi termini (pagina 175):
“A titolo preliminare, io rigetto la pretesa che le difficoltà dell’appellante risultano non da una azione governativa, ma da delle deficienze fisiche causate da una malattia incurabile di cui essa soffre. E’ evidente che l’interdizione prevista all’art. 241 b) contribuirà alla sofferenza dell’appellante se si impedisce di gestire la sua morte nelle circostanze che sopragiungeranno.”
Il giudice Sopinka aggiunse (pagina 175):
“E’ più fondato, a mio avviso, l’argomento secondo cui la sicurezza della persona, per la sua natura stessa, non può includere il diritto di compiere il gesto che mette fine alla vita di qualcuno, visto che la sicurezza della persona inerisce intrinsecamente al benessere della persona vivente”
Egli continuò(pagine 177-178):
“Non c’e’ alcun dubbio che la sicurezza della persona comprende l’autonomia personale, almeno in ciò che concerne il diritto di fare delle scelte circa la propria persona, il controllo sulla propria integrità fisica e mentale, e la dignità umana fondamentale, almeno l’assenza delle proibizioni penali che siano di ostacolo. L’interdizione prevista dall’art. 241 b) ha per effetto di privare l’appellante dell’assistenza necessaria per suicidarsi al momento in cui essa non sarà più in grado di farlo da sola . (…)A mio avviso, queste considerazioni permettono di concludere che l’interdizione prevista dall’art. 241 b) priva l’appellante della sua autonomia personale e le causa dei dolori fisici ed una tensione psicologica tali che minaccino la sicurezza di una persona. Il diritto dell’appellante alla sicurezza ( considerato nel contesto del diritto alla vita ed alla libertà) e dunque in causa ed e’ necessario determinare che essa e’ stata privata di tale sicurezza in conformità ai principi di giustizia fondamentale”.
Ed il giudice Sopinka concluse (pagina 189):
“Tenuto conto dei timori espressi riguardo agli abusi ed alla grande difficoltà ad elaborare delle garanzie tali da prevenire gli abusi, non si potrebbe affermare che il divieto generale dell’aiuto al suicidio e’ arbitrario o ingiusto, o che non riflette i valori fondamentali facenti parte della nostra società.
A proposito dell’’articolo 1 della Carta canadese, il giudice Sopinka dichiaro’ (pagine 192-193):
“Come ho cercato di dimostrare nella mia analisi dell’articolo 7, questa protezione trova il suo fondamento nel consenso importante, nei paesi occidentali, nelle organizzazioni mediche e nella nostra propria Commissione della riforma del diritto, in base all’opinione che il miglior modo di proteggere efficacemente la vita e le persone vulnerabili della società e’ vietare, senza eccezione, l’aiuto al suicidio. I tentativi che sono stati fatti per mitigare questo approccio con l’introduzione di eccezioni non hanno dato risultati soddisfacenti e tendono a rinforzare la teoria del “dito nell’ingranaggio”. La formulazione delle garanzie destinate a prevenire gli abusi ha ugualmente dato dei risultati insoddisfacenti e non e’ riuscito a dissipare il timore che l’ammorbimento di una norma chiara stabilita per la legge indebolirebbe la protezione della vita e condurrebbe all’uso abusivo delle eccezioni.
Il giudice Sopinka rigettò i motivi fondati dall’appellante sugli articoli 12 e 15 della Carta.
22. Il giudice capo Lamer espresse una opinione dissidente favorevole all’appellante, ma in ragione di una discriminazione fondata sul solo articolo 15. Il giudice McLachlin (il cui avviso il giudice Heureux-Dube’ sottoscrisse) concluse per la non violazione dell’articolo 15, ma per la violazione dell’articolo 7. Analizzo’ il caso come la questione circa il modo in cui lo Stato può, a riguardo dell’articolo 7 della Carta, limitare il diritto per una persona di prendere delle decisioni concernenti il proprio corpo (pagina 194). Si epresse cosi’:
“Nel caso di specie, il Parlamento ha messo in vigore un regime legislativo che non vieta il suicidio, ma che criminalizza l’aiuto al suicidio. Questo regime ha per effetto di non permettere a certe persone il diritto di mettere fine alla loro vita per la sola ragione che esse sono fisicamente incapaci. Di questo fatto, Sue Rogriguez e’ privata del diritto alla sicurezza della sua persona ( il diritto di prendere delle decisioni concernenti il proprio corpo e che riguardino solo il suo corpo) in modo da infrangere i principi della giustizia fondamentale e che , di conseguenza, viola l’articolo 7 della Carta (..). Il potere di decidere in modo autonomo ciò che conviene di più al proprio corpo e’ un attributo della persona e della dignità dell’essere umano”.
Egli dichiarò (pagina 197):
“(..) e’ contrario ai principi di giustizia fondamentale di non permettere a Sue Rodriguez ciò che e’ permesso agli altri, per la semplice ragione che e’ posssibile che altre persone, ad un momento preciso, subiscono, non ciò che lei domanda, ma l’atto di donare la morte senza un vero consenso”.
Il giudice Cory espresse ugualmente una opinione dissidente, aggiungendosi a quella del giudice Lamer ed anche a quella del giudice McLachlin.
23. E’ evidente che tutti i giudici della Corte suprema del Canada salvo uno erano disposti a riconoscere che l’articolo 7 della Carta canadese conferiva un diritto all’autonomia personale che si estende alle decisioni concernenti la vita e la morte. Si capisce che la signora Pretty da’ un peso particolare alla decisione del giudice McLachlin, alla quale altri due membri della Corte Suprema aderirono . Ma una maggioranza dell’alta giurisdizione considerò che il diritto in questione era battuto in breccia, nelle circostanze di specie, dai principi della giustizia fondamentale. Inoltre, le decisioni in causa non presentavano una analogia stretta con nessuna delle clausole della Convenzione europea. In quest’ultimo testo, il diritto alla liberta’ ed alla sicurezza della persona non figura che nell’articolo 5 § 1, che non è invocato e non potrebbe esserlo nel caso di specie. L’articolo 8 non comporta alcun riferimento alla liberta’ ne’ alla sicurezza della persona. Concerne la protezione della vita privata, compresa l’integrità fisica e psicologica ( X e Y c. Paesi Bassi già citati). Ma l’articolo 8 è formulato in termini che mirano a tutelare la protezione dell’autonomia personale nel periodo in cui gli individui vivono la loro vita, e nulla fa pensare che l’articolo in questione abbia un rapporto con la scelta di non più vivere.
24. La tesi della signora Pretty non trova alcun appoggio nella giurisprudenza di Strasburgo. Nel caso R. c. Regno Unito ( 1983) 33 DR 270, il ricorrente era stato condannato e si era visto infliggere una pena carceraria per l’aiuto al suicidio e l’intento delittuoso mirante a questo effetto. L’interessato deduceva che la condanna e la pena gli era state inflitte a norma dell’articolo 2 della legge del 1961 costituente una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata ai sensi dell’articolo 8 e della mancata conoscenza del suo diritto alla libertà d’espressione ai sensi dell’articolo 10. Al paragrafo 13 della sua decisione, la Commissione s’esprimeva cosi’:
“La Commissione non crede che l’attività per cui il ricorrente e’ stato condannato, assistenza al suicidio, possa essere descritta come rilevante ai fini della vita privata, come questa nozione e’ stata elaborata. Si può certo prevedere che questa attività tocca direttamente la vita privata di un candidato al suicidio, ma non ne consegue che i diritti del ricorrente alla vita privata siano stati violati. La Commissione considera al contrario che gli atti di assistenza, di consiglio e di aiuto al suicidio sono esclusi dalla nozione di vita privata perché minacciano l’interesse generale della protezione della vita, come previsto dalle disposizioni penali della legge del 1961.”
Questo avviso della Commissione, espresso in modo poco circospetto, offre un certo appoggio alla signora Pretty, ma in ciò che concerne la doglianza fondata sull’articolo 10 della Convenzione che la Commissione proseguiva ( paragrafo 17 della sua decisione, p. 272):
“La Commissione considera, che nelle circostanze della causa, c’e’ stata un’ingerenza nell’esercizio del diritto del ricorrente a comunicare delle informazioni. Essa deve tuttavia tenere conto a questo riguardo dell’interesse legittimo dello Stato a prendere delle misure miranti a proteggere ogni comportamento criminale della vita dei cittadini, particolarmente di quelli vulnerabili in ragione della loro età o dell’infermità. Essa riconosce il diritto dello Stato rispetto alla Convenzione a premunirsi contro gli inevitabili abusi criminali che si produrrebbero in assenza di una legislazione tale da punire l’assistenza al suicidio. Il fatto che nel caso di specie il ricorrente ed il suo associato sembrino essere bene intenzionati non cambia nulla, agli occhi della Commissione, in ragione dell’interesse generale.
Questa conclusione non può conciliarsi con l’affermazione secondo la quale il divieto al suicidio assistito e’ incompatibile con la Convenzione.
25. Il caso Sanles c. Spagna (2001) EHRLR 348 trattava una situazione di fatto analoga a quella della presente fattispecie , salvo che la vittima di una malattia invalidante era deceduta e che la causa non sfocio’, infine, su una decisione relativa al merito . La ricorrente era la cognata della vittima, e la Corte considerò che essa non era lei stessa vittima e non era dunque direttamente colpita dalle violazioni allegate . E’ interessante notare che l’interessata fondava le sue doglianze sugli articoli 2, 3, 5, 9 e 14 della Convenzione ma, non sembra, sull’articolo 8.
26.Secondo me, considero fondato l’argomento del ministro secondo il quale i diritti garantiti alla signora Pretty dall’articolo 8 non sono per nulla in causa. Nel caso in cui tuttavia questa conclusione fosse errata e la proibizione al suicidio assistita prevista dall’articolo 2 della legge del 1961 violasse il diritto garantito all’interessata dall’articolo 8 della Convenzione, e’ necessario ricercare se il ministro ha dimostrato che questa violazione si giustifica riguardo a quanto previsto dall’articolo 8 § 2. Per studiare questa questione, tendo ad adottare il criterio considerato dal consulente della signora Pretty e che si trova chiaramente enunciato nelle decisioni sopra citate.
27. Da quando il suicidio ha cessato di essere un reato, nel 1961, la questione di sapere se il suicidio assistito deve anch’esso essere depenalizzato e’ stata esaminata a più riprese. La commissione di riforma del diritto penale menzionava , nel suo quattordicesimo rapporto ( 1980, Cmnd 7844), divergenze di opinione fra i suoi membri, fini giuristi , e riconosceva il bisogno di differenziare il caso in cui una persona aiuta un altro a suicidarsi che aveva ben radicato il proposito di mettere fine alla sua vita, da quello in cui, più odioso, una persona persuade un altro a togliersi la vita , ma una maggioranza dei suoi membri erano dell’avviso ben chiaro che l’aiuto al suicidio doveva continuare ad esser reato ( pagine 60-61, § 135).
28. In seguito alla decisione resa nel caso Airedale NHS Trust c. Bland (1993) AC 789, un comitato ristretto della Camera dei Lords competente in materia di etica medica e che era stata costituita su delle basi molto più ampie raccoglieva numerose prove e pubblico’ un rapporto ( HL 21-1 1994, pag. 11, § 26). Ivi si stabiliva una distinzione tra il suicidio assistito ed il suicidio medico assistito, ma la sua conclusione era priva di ambiguità (pagina 54, § 262):
“Per ciò che concerne il suicidio assistito, noi non riteniamo di raccomandare alcuna modifica di legislazione. Noi non percepiamo alcuna circostanza dove il suicidio dovrebbe essere autorizzato, e non ravvisiamo maggiori ragioni per distinguere a questo proposito tra l’atto di un medico e l’atto compiuto da un’altra persona”.
Nella sua risposta ( maggio 1994, Cm 2553), il governo accetto’ la raccomandazione del comitato in questi termini:
“Noi sottoscriviamo questa raccomandazione. Come il governo l’ha dichiarato davanti alla commissione, la depenalizzazione del tentativo di suicidio nel 1961 e’ stato accompagnato da una riaffermazione senza equivoco della proibizione degli atti miranti a mettere fine alla vita altrui. Il governo non rileva alcun elemento che giustifichi l’autorizzazione al suicidio assistito. Ogni cambiamento aprirebbe la porta ad abusi e metterebbe in pericolo la vita dei deboli e dei vulnerabili”.
Si trova un approccio analogo nella Raccomandazione 1418 ( 1999) del Consiglio d’Europa sulla protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morenti. Questa raccomandazione comporta il passaggio seguente ( pagine 2-4):
“9. L’Assemblea raccomanda di conseguenza al Comitato dei Ministri d’incoraggiare gli Stati membri del Consiglio d’Europa a rispettare e proteggere la dignità dei malati incurabili e dei morenti a tutti i livelli: (…)
c)mantenendo il divieto assoluto di mettere intenzionalmente fine alla vita dei malati incurabili e dei morenti:
i.visto che il diritto alla vita, particolarmente per ciò che concerne le malattie incurabili ed i morenti, e’ garantito dagli Stati membri, conformemente all’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che dispone che “la morte non può essere inflitta a chiunque intenzionalmente;
ii. visto che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un morente non può servire da giustificazione legale all’esecuzione di azioni destinate a favorire la morte”.
Se dovesse essere dimostrato che la risposta del Regno Unito a questo problema del suicidio assistito e’ unica, ciò non porterebbe un colpo fatale alla validità giuridica dell’articolo 2 § 1 della legge del 1961, ma in ogni caso sembra che questa risposta del Regno Unito s’inserisce in un consenso internazionale molto ampio. Il suicidio assistito e l’omicidio volontario consensuale sono illegali nell’insieme degli Stati parti della Convenzione salvo che nei Paesi Bassi, ma anche se il codice penale olandese e la legge olandese del 2001 sulle procedure di controllo dell’interruzione della vita su domanda e sul suicidio assistito fossero in vigore nel nostro paese, il signor Pretty non mancherebbe di rispondere penalmente a titolo dell’articolo 294 del codice penale olandese se aiutasse la signora Pretty a mettere fine alla sua vita cosi’ come egli lo desidera.
29. A nome della sua cliente, l’avvocato della signora Pretty smentisce la discussione in generale dell’articolo 2 § 1 della legge del 1961 e cerca di limitare la sua doglianza ai fatti particolari della causa: quella di una persona adulta in pieno possesso delle sue facoltà intellettuali e che sa ciò che vuole, non subisce alcuna pressione ed ha preso la sua decisione in perfetta conoscenza di causa ed in maniera deliberata. Egli sostiene che, indipendentemente dal bisogno di offrire una protezione giuridica alle persone vulnerabili, nulla giustifica un rifiuto generale di ammettere un atto d’umanità nel caso di qualcuno che, come la signora Pretty, non e’ del tutto vulnerabile. Pur essendo seducente questa tesi, essa urta con le idee già formulate dal dottor Johnson e di cui la validità persiste. In primo luogo, “le leggi non sono fatte per dei casi particolari, ma per gli uomini in generale”. In secondo luogo, “permettere che una legge sia modificata a discrezione, e’ come lasciare la comunità senza legge. E’ come ritrattare l’orientamento di questa saggezza pubblica che si presume che possa rimediare alle deficienze della comprensione privata. ( Boswell, Life of Johnson, Oxford Standard Authors, terza edizione, 1970, pp. 735, 496). Come la Commissione ha ammesso nella sua decisione R. c. Regno Unito citata al paragrafo 24 qui sopra, sono gli Stati membri che devono verificare il rischio d’abuso e le conseguenze probabili degli abusi eventualmente commessi che implicherebbe un ammorbidimento del divieto del suicidio assistito. Ma questo rischio non può essere scartato alla leggera. La commissione di riforma del diritto penale ha riconosciuto la ristrettezza della linea di demarcazione tra la provocazione, di una parte, e la complicità, dell’altra ( rapporto, pagina 61, § 135). Il comitato ristretto della Camera dei Lords ha considerato che bisognava evitare tutto ciò che poteva incoraggiare il suicidio ( rapporto, pagina 49, § 239):
“Noi tutti temiamo che le persone vulnerabili – quelle anziane, sole , malate o sconfortate – si sentano obbligate, per l’effetto di pressioni, reali o immaginarie, di sollecitare una morte prematura . Noi ammettiamo che, per la maggior parte, le domande risultanti da queste pressioni o da malattie depressive curabili sarebbero identificate come tali dai medici e trattate in modo opportuno . In ogni caso, noi crediamo che il messaggio che la società invia alle persone vulnerabili ed a quelle che sono sfavorite non deve, anche indirettamente, incoraggiarle a chiedere la morte, ma deve assicurarle della presenza e del nostro sostegno nella vita”.
Non e’ difficile immaginare che una persona anziana possa optare, anche in assenza d’ogni pressione, per una fine prematura se la possibilità esiste, e ciò non a causa di un desiderio di morire o di un’accettazione della morte, ma a causa di un desiderio di cessare di essere un carico per gli altri.
30. Se l’articolo 2 § 1 viola qualcuno dei diritti garantiti dalla Convenzione alla signora Pretty, io concludo, cosciente del pesante fardello che grava su uno Stato membro che cerca di giustificare questa violazione, che il ministro ha giustificato con ampi motivi il diritto esistente e l’applicazione che ne e’ stata fatta oggi. Ciò non vuol dire che nessun altro diritto o nessun’altra applicazione del diritto sarebbero compatibili con la Convenzione. Questo significa semplicemente che i regimi legislativi e della prassi attuali non violano la Convenzione.
Articolo 9 della Convenzione
31. Non e’ necessario riprodurre il disposto dell’articolo 9 della Convenzione, attorno al quale la discussione non ha portato grandi risultati. La disposizione in oggetto protegge la liberta’ di pensiero, di coscienza e di religione, come la liberta’ per ogni persona di manifestare la sua religione ed il suo culto, l’insegnamento, le pratiche ed il manifestarsi dei riti. Si può ammettere che la signora Pretty crede sinceramente al pregio del suicidio assistito. Essa e’ libera d’avere e di esprimere questa convinzione. Ma la sua convinzione non può fondarsi su un’esigenza ai termini della quale suo marito dovrebbe essere immune dalle conseguenze di un comportamento che, pur essendo in armonia con la sua convinzione, e’ proibito dal diritto penale. E se l’interessata dovesse riuscire a stabilire l’esistenza di una minaccia al suo diritto, la giustificazione fornita dallo Stato in base al l’articolo 8 impedirebbe sempre il successo della sua pretesa .
Articolo 14 della Convenzione
32. L’articolo 14 della Convenzione dispone : (..)
La signora Pretty sostiene che l’articolo 2 § 1 della legge del 1961 e’ discriminatorio riguardo a quelli che, come lei stessa, sono incapaci, per un fatto d’invalidità, di mettere fine ai loro giorni senza assistenza. Essa invoca la sentenza resa dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso Thlimmenos c. Grecia ( 2000) 31 EHRR 411, dove la Corte ha dichiarato (pagina 424, § 44):
“La Corte ha statuito fino ad adesso che sussiste la violazione del diritto garantito dall’articolo 14 di non subire la discriminazione nel godimento dei diritti riconosciuti dalla Convenzione quando gli Stati fanno subire senza giustificazione oggettiva e ragionevole un trattamento differente a delle persone che si trovano in situazioni analoghe. Tuttavia, la Corte ritiene che questo non è il solo aspetto del divieto d’ogni discriminazione enunciato dall’articolo 14. Il diritto di godere dei diritti garantiti dalla Convenzione senza essere sottomesso a discriminazione e’ ugualmente trasgredito quando, senza giustificazione oggettiva o ragionevole, gli Stati non applicano un trattamento differente a persone le cui situazioni sono sensibilmente differenti”.
33. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha giudicato più volte che l’articolo 14 non e’ autonomo ma produce i suoi effetti solo in relazione ai diritti garantiti dalla Convenzione. Si può anche citare il passaggio seguente della sentenza Van Raalte c. Paesi Bassi (1997) 24 EHRR 503, p. 516, § 33:
“In base alla giurisprudenza costante della Corte, l’articolo 14 della Convenzione completa le altre clausole normative della Convenzione e dei Protocolli. L’articolo non ha’ esistenza indipendente, perché vale solo per “il godimento dei diritti e delle liberta’” che esse garantiscono. Certo, può entrare in gioco anche senza una mancanza ai loro dettati e, in qualche misura, possiede una portata autonoma, ma non potrebbe applicarsi se i fatti della controversia non cadono sotto l’impero di una delle predette clausole”.
Vedere ugualmente la sentenza Botta c. Italia ( 1998) 26 EHRR 241, p. 259, § 39.
34. Se, come ho concluso, nessun articolo sui quali si fonda la signora Pretty conferisce all’interessata il diritto che lei rivendica, ne consegue che l’articolo 14 non le sarebbe di alcun aiuto anche se essa pervenisse a stabilire che, nella sua applicazione, l’articolo 2 § 1 e’ discriminatorio. Per questo motivo, ogni doglianza fondata su questo articolo e’ destinata a fallire.
35. Se, contrariamente a ciò che penso, i diritti garantiti della signora Pretty per uno o l’altro degli articoli invocati sono in causa, s’impone di ricercare se l’articolo 2 della legge del 1961 e’ discriminatoria. La signora Pretty sostiene che questo testo e’ discriminatorio perché impedisce agli handicappati, ma non alle persone sane, di esercitare il diritto al suicidio. Quest’argomento riposa secondo me su un malinteso. La legge non conferisce un diritto di suicidarsi. Considerata come un’infrazione il suicidio ha sempre rivestito un carattere anormale, perché si trattava della sola infrazione per cui nessun imputato poteva essere mai processato penalmente . L’incriminazione del suicidio aveva principalmente per effetto di rendere punibili quelli che tentavano senza successo di mettere fine alla loro vita ed i loro complici. Il suicidio stesso ( ed anche il tentativo di suicidio) e’ stato depenalizzato per il motivo che il riconoscimento del carattere di infrazione nel common law dell’atto passava per non essere dissuasivo, che marcava di un’infamia ingiustificata i membri innocenti della famiglia del suicidato e che si arrivava al risultato abietto che i pazienti che erano ricoverati in ospedale per il tentativo mancato di suicidio erano perseguiti in fatto per questo loro fallimento. Ma se la legge del 1961 ha abrogato la norma di diritto che qualifica infrazione il fatto di una persona che si suicida (tenta di suicidarsi), essa non conferisce a nessuno il diritto di suicidarsi. E se questo era stato il suo oggetto , non ci sarebbe stata alcuna giustificazione alla repressione con una pena di reclusione che potrebbe essere molto lunga per quelli che provocano l’esercizio o il tentativo d’esercizio altrui di questo diritto o che se ne rendano complici. La filosofia della legge e’ fermamente di opposizione al suicidio, come dimostra l’articolo 2 § 1 della legge.
36. In ogni momento, il diritto penale non può essere criticato per il motivo che sarebbe indebitamente discriminatorio, perché si applica a tutti. Se in alcuni casi le leggi penali ammettono delle eccezioni fondate sulla giovane età, la filosofia generale del diritto penale e’ che le disposizioni di incriminazione devono applicarsi a tutti e che il contesto individuale deve essere preso in considerazione sia allo stadio dove si agisce se conviene o no di perseguire, sia, in caso di condanna, quando si tratta di fissare la pena. Il diritto penale non distingue di solito tra le vittime consezienti e le altre ( Laskey Jaggard e Brown c. Regno Unito ( 1997) 24 EHRR 39). Le disposizioni incriminanti lo stato di ebbrezza, l’abuso di droghe o il furto non esonerano gli alcolizzati, i tossicomani, i poveri o gli affamati. L’omicidio “per compassione” , come lo si chiama sovente, costituisce in diritto un omicidio. Se il diritto penale cercasse di proscrivere il comportamento di quelli che aiutano le persone vulnerabili a suicidarsi, ma esonerasse quelli che aiutano le persone non vulnerabili a mettere fine ai loro giorni, non potrebbe essere amministrato in maniera equa ed imponendosi al rispetto.
37. Per questi motivi, che si ricongiungono per l’essenziale con quelli prodotti dallaDivisional Court, e in accordo con i miei nobili e sapienti amici Lord Steyn e Lord Hope di Craighead, io considero che la signora Pretty non può stabilire alcuna violazione nei suoi confronti di un diritto garantito dalla Convenzione.
La doglianza diretta contro il DPP
38. Questa conclusione rende strettamente superfluo l’esame dell’argomento principale sviluppato dal DPP per opporsi alla doglianza contro di lui proposta che consisteva nel dire che egli non aveva il potere di prendere l’impegno sollecitato dalla signora Pretty.
39. Secondo me, non sono certo che il DPP non potrebbe, come e’ stato sostenuto a suo nome, fare su domanda una dichiarazione pubblica concernente la sua politica in materia di azioni giudiziarie diversa dal codice rivolta ai procuratori della Corona (Code for Crown Prosecutors), che l’articolo 10 della legge del 1985 sul perseguimento delle infrazioni (Prosecution of Offences Act) gli fa obbligo di promulgare. Evidentemente, un tale passo esigerebbe una ristretta consultazione ed un’estrema circospezione e non potrebbe intervenire, in virtù dell’articolo tre della legge del 1985, che sotto il controllo del procuratore generale ( Attorney General). E’ capitato al Lord Advocate di fare una simile dichiarazione in Scozia, e non sono persuaso che il DPP non possegga lo stesso potere. Non s’impone, in ogni caso, di esplorare o risolvere questa questione perché, abilitato o meno a formulare una tale dichiarazione, il DPP non vi e’ obbligato, ed in ogni caso e’ ad esso che e’ stato domandato nel caso di specie, non e’ una dichiarazione concernente la sua politica in materia di azioni giudiziarie, ma la concessione in anticipo di un’immunità dall’azione penale. E questo, ne sono certo, il DPP non lo può accordare. Il potere di scartare o di sospendere delle leggi o la loro esecuzione senza il consenso del Parlamento e’ stato negato alla Corona ed ai suoi servitori dal Bill of Rights del 1688. Anche se, contrariamente a ciò che penso, il DPP aveva il potere di prendere l’impegno l sollecitato, avrebbe comunque avuto torto nell’accogliere la domanda. Se non aveva alcun motivo di dubitare sulle affermazioni fatte a nome della signora Pretty, non aveva alcun modo per verificarle. Non gli sono stati comunicati assolutamente con la dovuta precisione i modi desiderati per mettere fine alla vita della signora Pretty. Nessun controllo medico e’ stato proposto. Il rischio esisteva manifestamente di vedere lo stato dell’interessata peggiorare sino al punto dove lei stessa non poteva far più niente per procurarsi la morte. Se il DPP si fosse avventurato nell’impresa di promettere che un’infrazione ancora non commessa godesse dell’immunità, egli avrebbe gravemente snaturato il suo compito ed abusato del suo potere. Almeno per questo, la doglianza diretta contro il DPP va rigettata.
40. Io rigetterei il gravame
15. Gli altri giudici aderirono alle conclusioni di Lord Bingham di Cornhill. Per ciò che concerne l’articolo 8 della Convenzione, Lord Hope dichiaro’:
“100. (…) Il rispetto della “vita privata” di una persona, la sola parte dell’articolo 8 che e’ in discussione , si rapporta al modo in cui vive una persona. La maniera in cui una persona decide di finire la propria vita fa parte dell’atto di vivere, e lei ha il diritto di chiedere il rispetto di ciò. A questo riguardo, la signora Pretty possiede un diritto all’autonomia. In questo senso, la sua vita privata si trova in gioco, anche se, confrontata ad una malattia in fase terminale, lei tende a scegliere la morte piuttosto che la vita. Ma cosa diversa è estrapolare da questi termini un’obbligazione positiva di dare attuazione al suo desiderio di mettere fine ai suoi giorni mediante il suicidio assistito. Io penso che ciò sarebbe estendere all’eccesso il senso delle parole.
II. Il DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
Suicidio, suicidio assistito ed omicidio consensuale
16. Il suicidio ha cessato di essere un reato in Inghilterra e nel Galles con l’entrata in vigore della legge del 1961 sul suicidio. L’articolo 2 § 1 di quest’ultima enuncia tuttavia:
“Ogni persona che facilita, incoraggia, raccomanda o organizza il suicidio o un tentativo di suicidio di un terzo e’ passibile, dopo essere stato accusato, di una pena detentiva al massimo fino a 14 anni”
L’articolo 2 § 4 cosi’ dispone:
“….Non sara’ iniziata un’azione penale per l’infrazione al presente articolo, salvo che dal Director of Public Prosecutions o con il suo accordo”. 17. Deriva dalla giurisprudenza che una persona può rifiutare di accettare un trattamento che prolunga la sua vita o la preservi:
“In primo luogo, e’ stabilito che il principio di autodeterminazione esige che si rispettino i desideri del paziente. Da ciò, se un paziente adulto sano di spirito rifiuta, quanto irragionevole possa essere il suo rifiuto, di consentire un trattamento o le cure che potrebbero prolungare la vita, i medici responsabili di questo paziente devono accogliere i suoi desideri, anche se giudicano ciò contrario al suo interesse (…). In questa misura, il principio di carattere sacro della vita umana deve cedere al principio di autodeterminazione (..)” ( Lord Goff nella decisione Airedale NHS Trust c. Bland ( 1993) AC 789, pagina 864).
18. Questo principio e’ stato confermato di recente dalla Corte d’appello nella sentenza Ms. B c. an NHS Hospital resa il 22 marzo 2002. La giurisprudenza ammette ugualmente che può essere legalmente amministrato un trattamento avente “un duplice effetto” , cioè mirante ad attenuare il dolore e la sofferenza di un paziente ma potendo avere come effetto secondario di abbreviare la sua speranza di vita ( per esempio, Re J ( 1991) Fam 33).
Revisione sul piano interno della situazione legislativa
19. Nel marzo 1980, la commissione di riforma di diritto penale pubblicò il suo Quattordicesimo Rapporto, intitolato “ I reati contro la persona” ( Cmnd 7844), nel quale essa passava in rassegna , particolarmente, le disposizioni legislative concernenti le diverse forme di omicidio e le pene conseguenti. Sotto il capitolo F. del suddetto rapporto, essa analizzava la situazione conosciuta come “omicidio per compassione” ( mercy killing). La proposta anteriormente formulata di creare un nuovo reato per ogni persona che, per compassione, uccidesse illegalmente un’altra sottomessa permanentemente, per esempio, a dei forti dolori e sofferenze corporali, e per cui la pena massima di due anni di carcere era prevista, era stata ritirata all’unanimità. La commissione rilevava nel suo rapporto che la maggior parte delle persone ed organi consultati si erano espressi contro la proposta, sia per ragioni di principio sia per ragioni pratiche. Essa evocava ugualmente le difficoltà di definizione e la possibilità di vedere la “suggestione di non impedire ma provocare delle sofferenze, dal momento che i deboli e gli handiccapati beneficerebbero di una protezione meno efficace della legge rispetto alle persone sane”. 20. La commissione raccomandava invece che il periodo di carcere previsto per l’aiuto al suicidio fosse ridotto a sette anni, stessa pena che pareva sufficiente per proteggere le persone vulnerabili facili alla persuasione da parte di quelle prive di scrupoli. 21. Il 31 gennaio 1994, il comitato ristretto di etica medica della Camera dei Lords pubblico’ il rapporto ( HL Paper 21-1) facendo seguito al suo studio sulle implicazioni etiche, giuridiche e cliniche del diritto per una persona di rifiutare di consentire ad un trattamento tale da prolungare la sua vita, per la situazione delle persone incapaci di dare o di rifiutare il loro consenso e la questione di sapere se, ed in quali circostanze, il fatto di abbreviare la vita di un’altra persona poteva giustificarsi per il fatto che questo corrispondeva al desiderio od all’interesse della persona in questione. Esso aveva raccolto le testimonianze di diverse fonti – governative, mediche, giuridiche e non governative – ed aveva ricevuto da parte di numerose parti interessate delle osservazioni scritte concernenti gli aspetti etici, filosofici, religiosi, morali, clinici, giuridici e d’ordine pubblico del soggetto. 22. Per ciò che concerne l’eutanasia volontaria, il comitato concludeva: “236.Il diritto di rifiutare un trattamento medico e’ molto lontano dal diritto di sollecitare un aiuto per morire. Noi abbiamo passato molto tempo ad esaminare i sentimenti molto forti e sinceramente espressi di testimoni favorevoli all’eutanasia volontaria. Molti di noi hanno conosciuto dei parenti o degli amici i cui i giorni e le settimane d’agonia non sono stati tranquilli o allegri, cui ultimi momenti di vita erano talmente alterati che il nostro caro ci sembrava già perso, o quelli che erano semplicemente stanchi della vita….(..).Il nostro modo di pensare e’ senza dubbio falsato dal desiderio di ogni individuo di conoscere una morte tranquilla e facile, senza una sofferenza prolungata, e per una certa ripugnanza a prevedere la possibilità di una demenza o di una dipendenza serie. Noi abbiamo molto riflettuto sull’ opinione del professor Dworkin secondo cui, per quelli che non hanno convinzioni religiose, l’individuo e’ posto nella condizione più adatta a decidere quale modo di morire corrisponde meglio alla vita che ha vissuto.
237. In definitiva, tuttavia, noi non crediamo che queste ragioni costituiscano un motivo sufficiente per indebolire la proibizione dell’omicidio intenzionale previsto nella società. Questa proibizione e’ la pietra angolare del diritto e delle relazioni sociali. Essa protegge ciascuno di noi in modo imparziale, dando corpo alla convinzione che siamo tutti uguali. Noi non vogliamo che questa protezione sia diminuita e raccomandiamo di conseguenza che il diritto non sia modificato in modo da permettere l’eutanasia. Noi ammettiamo che ci sono casi particolari nei quali l’eutanasia può essere considerata per alcuni come appropriata. Ma i casi individuali non possono ragionevolmente stabilire i fondamenti di una politica che avrebbe delle ripercussioni così gravi ed estese. Per di più , morire non e’ solo un affare personale o individuale. La morte di una persona influenza la vita di altre persone, spesso in modo ed in misura che non possono essere previste. Noi crediamo che in materia di eutanasia l’interesse dell’individuo non può essere separato dall’interesse della società nel suo insieme.
238.Una delle ragioni che ci hanno spinto a questa conclusione e’ che noi non pensiamo che sia possibile fissare dei limiti sicuri all’eutanasia volontaria ( …).
239.Noi temiamo che le persone vulnerabili – quelle che sono anziane, sole, malate o sconfortate – si sentono obbligate, per effetto delle pressioni, reali o immaginarie, di sollecitare una morte prematura. Noi ammettiamo che, per la maggior parte, le domande che derivano dalle stesse pressioni o da malattie depressive curabili sarebbero identificate come tali dai medici e trattate in modo appropriato. Nondimeno , noi crediamo che il messaggio che la società invia alle persone vulnerabili ed a quelle sfavorite non deve, neanche indirettamente, incoraggiarle ad invocare la morte, ma deve assicurarle della nostra presenza e del nostro sostegno nella vita (..)”
23. Alla luce di ciò che precede, il comitato raccomando’ ugualmente che alcun cambiamento fosse apportato alla legislazione concernente il suicidio assistito ( paragrafo 262).
III. GLI STRUMENTI INTERNAZIONALI
24. La raccomandazione 1418 (1999) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa enuncia in particolare ( paragrafo 9):
“L’Assemblea raccomanda (..) al Comitato dei Ministri di incoraggiare gli Stati membri del Consiglio d’Europa a rispettare ed a proteggere la dignità dei malati incurabili e dei morenti a tutti i livelli:
(...)
c) mantenendo il divieto assoluto di mettere intenzionalmente fine alla vita dei malati incurabili e dei morenti:
i. visto che il diritto alla vita, in particolare per ciò che concerne i malati incurabili ed i morenti, e’ garantito dagli Stati membri, conformemente all’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che dispone che “la morte non può essere inflitta a chiunque intenzionalmente;
ii. visto che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un morente non può mai costituire un fondamento giuridico alla sua morte da parte di un terzo; iii. visto che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un morente non può in se’ servire da giustificazione legale all’esecuzione di azioni destinate a provocare la morte” IV. I TERZI INTERVENUTI A La Voluntary Euthanasia Society25. Fondata nel 1935, la Voluntary Euthanasia Society ( in seguito la Società) che costituisce nel Regno Unito un organismo importante in materia di ricerca sulle questioni legate al decesso assistito, sostiene che, in maniera generale, gli individui devono avere la possibilità di morire nella dignità, e che un regime giuridico inflessibile che avesse per effetto di forzare un individuo, al quale una malattia terminale causi delle sofferenze intollerabili , a morire nell’indegnità alla fine di un’agonia lunga e dolorosa, in violazione dei desideri espressi da lui, e’ contrario all’articolo 3 della Convenzione. Essa rinvia ai motivi per i quali delle persone domandano che le si aiuti a morire (gravi dolori non leniti , sfinimento dovuto all’agonia o perdita dell’autonomia, per esempio). Le cure palliative non potrebbero rispondere ai bisogni dell’insieme dei pazienti e non costituirebbero una soluzione ai problemi di perdita dell’autonomia e di perdita di controllo delle funzioni corporali. 26. La Società afferma che, paragonato a quelli in vigore negli altri paesi, il regime applicabile in Inghilterra ed in Galles, che proibisce in maniera assoluta il decesso assistito, e’ il più restrittivo e inflessibile d’Europa. Solo in Irlanda reggerebbe il paragone. Alcuni paesi ( per esempio il Belgio, la Svizzera, la Germania, la Francia, la Finlandia, la Svezia ed i Paesi Bassi, dove l’assistenza sollecitata deve essere prestata da un medico) avrebbero abolito il reato specifico del suicidio assistito. Negli altri, le pene che sanzionano questo tipo di reato sarebbero state ridotte ( in nessun paese eccetto la Spagna la pena massima eccederebbe i 5 anni di carcere), e delle azioni penali sarebbero raramente intentate. 27. Per ciò che concerne le questioni d’ ordine pubblico, la Società sostiene che, quale che sia la situazione giuridica, l’eutanasia volontaria ed il decesso assistito sono praticati. Sarebbe di dominio pubblico che in Inghilterra e nel Galles dei pazienti domandano un aiuto a morire e che dei membri della classe medica ed affini forniscono l’assistenza richiesta, nonostante il fatto che essa potrebbe renderli responsabili penalmente ed in assenza di ogni regolamentazione. Cosi’ come il governo olandese l’avrebbe riconosciuto, il diritto penale non impedirebbe ne’ l’eutanasia volontaria ne’ il decesso assistito. Emergerebbe dalla situazione olandese che in assenza di regolamentazione un po’ meno dell’uno per cento dei decessi sarebbero dovuti all’iniziativa di un medico di mettere fine ai giorni di un paziente senza che questo l’abbia chiesto esplicitamente (eutanasia non volontaria). Uno studio simile darebbe le cifre del 3,1 per cento per il Belgio e 3,5 per cento per l’Australia. Sarebbe possibile perciò dare meno attenzione agli imperativi di una pratica mirante ad assicurare a ciascuno una fine tranquilla in una società che privilegia un approccio giuridico restrittivo rispetto ad una società che favorisce un approccio aperto, tollerante e favorevole all’eutanasia. I dati disponibili non confermano l’affermazione per cui la società metterebbe le persone vulnerabili in pericolo istituzionalizzando l’eutanasia volontaria o il suicidio medicalmente assistito. Almeno, con un sistema regolamentato ci sarebbe la possibilità d’instaurare una consultazione molto più ampia ed un meccanismo di controllo adatto a prevenire gli abusi, senza contare altre garanzie, quale quella che offrirebbe l’istituzione di un tempo d’atttesa. B. La Conferenza dei vescovi cattolici di Inghilterra e del Galles
28. Questa parte interveniente sostiene in primo luogo principi e argomenti che, secondo lei , si allineano a quelli espressi dalle conferenze episcopali di altri Stati membri. 29. Essa sottolinea che uno dei precetti fondamentali della fede cattolica consiste nel credere che la vita umana e’ un dono di Dio ricevuto in deposito. Gli atti miranti a donare la morte a se stessi od a procurarla ad altri, anche se quest’ultimo consenziente, testimonierebbero un’incomprensione dannosa del valore umano. Il suicidio e l’eutanasia si situerebbero pertanto fuori dalla sfera delle opzioni moralmente accettabili per trattare la sofferenza e la morte degli esseri umani. Queste verità fondamentali sarebbero ugualmente riconosciute dalle altre confessioni e dalle società pluraliste e laiche moderne, cosi’ come emerge dall’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ( dicembre 1948) e dalle disposizioni della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, in particolare dagli articoli 2 e 3. 30. La Conferenza fa osservare che quelli che tentano il suicidio soffrono sovente di depressione o di altre malattie psichiatriche. Il rapporto stabilito nel 1994 dal gruppo di lavoro sulla vita ed il diritto, istituito dallo Stato di New York avrebbe concluso su questa base che la legalizzazione di qualsiasi forma di suicidio assistito o di eutanasia costituirebbe un errore di proporzioni storiche che avrebbe delle conseguenze catastrofiche per le persone vulnerabili e favorirebbe una corruzione intollerabile della professione medica. Altre ricerche indicherebbero che molte persone che si dichiarano desiderose di commettere un suicidio medicalmente assistito lo ritrattano allorquando venga curata la loro depressione o il loro dolore . Secondo l’esperienza della Conferenza, le cure palliative potrebbero arrivare in quasi tutti casi a lenire sostanzialmente un paziente dalla sua sofferenza fisica e psicosomatica. 31. Il comitato ristretto della Camera dei Lords che si era soffermato sulle questioni di etica medica ( 1993- 1994) avrebbe avuto delle solide ragioni di concludere, dopo aver esaminato i dati del problema ( su una scala che supera di gran lunga quella su cui questi dati sono analizzati nella presente procedura), che ogni legalizzazione dell’assistenza al suicidio provocherebbe un’erosione massiccia dei diritti delle persone vulnerabili per effetto della pressione dei principi di legalità e di coerenza giuridica e delle condizioni psicologiche e finanziarie della pratica medica e della fornitura di cure di salute in generale. Ci sarebbero delle prove inconfutabili che fanno pensare che una volta autorizzata dalla legge una forma di eutanasia limitata, sarebbe quasi impossibile contenere la sua pratica nei limiti necessari per proteggere le persone vulnerabili ( per esempio, lo studio della mortalità effettuata dal governo olandese nel 1990 menzionerebbe il caso in cui l’eutanasia sarebbe stata praticata su pazienti che non avevano formulato una esplicita richiesta in tal senso . IN DIRITTO I. SULLA RICEVIBILITA’ DEL RICORSO 32. La ricorrente, che soffre di una malattia degenerativa incurabile, deduce che nei suoi confronti sono stati violati i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione quanto al rifiuto del Direttore della Pubblica Accusa Director of Public Prosecutions (DPP) di prendere l’impegno di non perseguire penalmente il marito se l’avesse aiutata a mettere fine ai propri giorni e quanto alla condizione del diritto inglese , che nel suo caso qualificherebbe come un reato penale il suicidio assistito. Il Governo per conto suo sostiene che il ricorso deve essere respinto per manifesta mancanza di fondatezza sia perché le doglianze enunciate dalla ricorrente non mettono in discussione alcuno dei diritti da lei invocati sia perché anche ad ammettere l’esistenza di lesioni dei diritti in questione, queste ultime sono consentite dalle eccezioni previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione. 33. La Corte considera che il ricorso nel suo insieme solleva questioni di diritto sufficientemente importanti di talché una decisione al loro riguardo può essere adottata solo dopo un esame nel merito delle doglianze. Non essendo stato, peraltro, accertato alcun motivo per dichiararlo irricevibile, il ricorso deve dunque essere dichiarato ricevibile . Conformemente all’articolo 29, paragrafo 3, della Convenzione, la Corte prende ora in esame la fondatezza delle doglianze della ricorrente. II. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE 34. L’articolo 2 della Convenzione è cosi’ formulato : “1. Il diritto alla vita di ogni persona e’ protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera inflitta in violazione di quest’articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a. per assicurare la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”. A. Tesi delle parti1 La ricorrente 35. La ricorrente sostiene che autorizzarla a farsi aiutare a mettere fine alla propria esistenza non sarebbe contrario all’articolo 2 della Convenzione, altrimenti i paesi nei quali il suicidio assistito non è illegale violerebbero tale disposizione. Per di più , l’articolo 2 garantirebbe non solo il diritto alla vita, ma parimenti il diritto di scegliere di continuare o cessare di vivere. Esso consacrerebbe il diritto alla vita e non la vita stessa, e la frase relativa all’inflizione della morte tenderebbe a proteggere gli individui contro i terzi, segnatamente lo Stato e le autorità pubbliche, e non contro se stessi. Cosi’, l’articolo 2 riconoscerebbe che spetta all’individuo scegliere di continuare o cessare di vivere ed esso garantirebbe alla ricorrente, come corollario del diritto alla vita, un diritto a morire in maniera di evitare una sofferenza e un’indegnità ineluttabili . Per quanto il caso Keenan, invocato dal Governo, indicherebbe che può gravare sulle autorità penitenziarie un obbligo di proteggere un detenuto desideroso di mettere fine ai suoi giorni, l’obbligo in questione sarebbe stato affermato soltanto perché il ricorrente, nel caso interessato era un detenuto e perché , soffrendo di una malattia mentale, non aveva la capacità di prendere razionalmente la decisione di suicidarsi ( Keenan c. Regno Unito – terza sez. – n. 27229/95 CEDH 2001-III). 2 Il Governo 36. Il Governo ribatte che l’invocazione dell’articolo 2 da parte della ricorrente non è pertinente nella misura in cui non si fonda su alcun precedente esplicito ed è incompatibile tanto con la giurisprudenza esistente quanto con la formulazione della disposizione in discussione . L’articolo 2, che consacrerebbe uno dei diritti più fondamentali, imporrebbe principalmente un obbligo negativo . Certo, in una serie di casi, si è ritenuto che imponesse obblighi positivi, ma questi obblighi riguarderebbero misure adatte a preservare la vita. In alcuni casi precedenti, la circostanza che un detenuto si fosse suicidato sarebbe stata considerata come non liberatoria della responsabilità di proteggere i detenuti imposta allo Stato dall’articolo 2 ( vedere il caso Keenan, precitato) e sarebbe stato parimenti riconosciuto che lo Stato può legittimamente alimentare con la forza un detenuto in sciopero della fame ( X c. Germania, n. 10565/83, decisione della Commissione del 9 maggio 1984). L’articolo 2 prevederebbe esplicitamente che la morte non può essere inflitta a nessuno intenzionalmente, salvo che in circostanze rigorosamente definite, non verificatesi nella fattispecie. Il diritto di morire non sarebbe il corollario, ma l’antitesi del diritto alla vita. B. Valutazione della Corte
37. Tra le disposizioni della Convenzione che la Corte ritiene primordiali la Corte, nella propria giurisprudenza, attribuisce la preminenza all’articolo 2 (vedere la sentenza McCann ed altri c. Regno Unito del 27 settembre 1995, Serie A n. 324, paragrafi 146-147). L’articolo 2 protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di uno qualsiasi degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio. Esso definisce le circostanze limitate nelle quali e’ consentito infliggere intenzionalmente la morte, e la Corte ha effettuato un controllo rigoroso ogni volta che siffatte eccezioni sono state invocate dai Governi convenuti ( sentenza McCann ed altri c. Regno Unito, precitata, paragrafi 149-150). 38. Il testo dell’articolo 2 disciplina esplicitamente l’uso deliberato o intenzionale della forza omicida da parte degli agenti dello Stato. Tuttavia esso e’ stato interpretato nel senso che ricomprende non soltanto l’omicidio volontario, ma parimenti le situazioni nelle quali e’ consentito che vi sia “ricorso alla forza”, potendo l’uso di siffatta forza condurre a dare la morte in maniera involontaria ( sentenza McCann ed altri c. Regno Unito, precitata, paragrafo 148). La Corte ha, del resto, ritenuto che la prima frase dell’articolo 2, paragrafo 1, impone allo Stato non solo di astenersi dal dare la morte in maniera intenzionale ed illegale , ma anche di adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione ( vedere la sentenza L.C.B. c.Regno Unito del 9 giugno 1998, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1998-III, p. 1403, par. 36). Tale obbligo travalica il dovere primario di assicurare il diritto alla vita predisponendo una legislazione penale concreta, che dissuada dal commettere attentati contro la persona e che si fondi su un meccanismo di applicazione concepito per prevenirne, reprimerne e sanzionarne le violazioni. Può anche implicare, in talune circostanze ben definite , un obbligo positivo per le autorità di adottare preventivamente misure di ordine pratico per proteggere l’individuo la cui vita e’ minacciata da comportamenti criminosi di terzi ( sentenze Osman c. Regno Unito del 28 ottobre 1998. Raccolta 1998-VIII, paragrafo 115 e Kiliç c. Turchia n. 22492/93 – 1 sez. – CEDH 2000-III, paragrafi 62 e 76). Più recentemente, nel caso Keenan c. Regno Unito, l’articolo 2 e’ stato ritenuto applicabile alla situazione di un detenuto affetto da una malattia mentale, che dava segni indicanti che avrebbe potuto attentare alla sua vita ( vedi la sentenza precitata paragrafo 91). 39. In tutti i casi che ha trattato, la Corte ha posto l’accento sull’obbligo per lo Stato di proteggere la vita. Non e’ convinta che il “diritto alla vita” garantito dall’articolo 2 possa essere interpretato nel senso che comporti un aspetto negativo. Per esempio, se nel contesto dell’articolo 11 della Convenzione è stato ritenuto che la libertà d’associazione implichi non soltanto un diritto di aderire ad un’associazione, ma anche il corrispondente diritto di non essere costretto ad associarsi, la Corte osserva che una certa libertà di scelta nell’esercizio di una libertà e’ inerente alla sua stessa nozione ( vedi sentenze Young, James e Webster c. Regno Unito del 13 agosto 1981, serie A n. 44, paragrafo 52 e Sigurdur A. Sigurjònsson c. Islanda del 30 giugno 1993, Serie A n. 264, paragrafo 35). L’articolo 2 della Convenzione non e’ formulato nello stesso modo. Non vi e’ nessun rapporto con le questioni relative alla qualità della vita o a quello che una persona sceglie di fare della propria vita. Nella misura in cui tali aspetti sono riconosciuti talmente fondamentali per la condizione umana da richiedere una protezione dalle ingerenze dello Stato, essi possono riflettersi nei diritti consacrati dalla Convenzione o in altri strumenti internazionali in materia dei diritti dell’uomo. L’articolo 2 non potrebbe , senza distorsione di linguaggio, essere interpretato nel senso che conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire; non potrebbe nemmeno far nascere un diritto all’autodeterminazione nel senso che darebbe ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita. 40. La Corte ritiene, dunque, che non e’ possibile dedurre dall’articolo 2 della Convenzione un diritto di morire, sia per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità. La Corte trova conferma del suo parere nella recente Raccomandazione 1418 (1999) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (paragrafo 24 qui sopra). 41. La ricorrente deduce che il fatto di considerare che la Convenzione non riconosce un diritto di morire porrebbe i paesi che autorizzano il suicidio assistito in contrasto con la Convenzione . La Corte non deve nella fattispecie cercare di stabilire se il diritto in un tale o tale altro Paese misconosca o meno l’obbligo di proteggere il diritto alla vita. Come la Corte lo ha già dichiarato nel caso Kennan, le misure che possono ragionevolmente essere adottate per proteggere un detenuto da sé stesso sono sottoposte alle restrizioni imposte da altre norme della Convenzione, quali gli articoli 55 e 8, come anche dai principi più generali dell’autonomia personale ( sentenza precitata, paragrafo 91). Analogamente, la misura in cui uno Stato consente o cerca di disciplinare la possibilità per gli individui in libertà di farsi del male o di farsi fare del male da parte di terzi può dar luogo a considerazioni che mettono in conflitto la libertà individuale e l’interesse pubblico che possono trovare una loro soluzione solo al termine di un esame delle circostanze particolari della fattispecie ( vedere , mutatis mutandis, la sentenza Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito del 19 febbraio 1997, Raccolta 1997-1). Tuttavia, anche se si dovesse ritenere conforme all’articolo 2 della Convenzione la situazione che prevale in un determinato Paese che autorizzasse il suicidio assistito, ciò non sarebbe di nessun aiuto per la ricorrente nella fattispecie, dove non è stata accertata l’esattezza della tesi molto diversa secondo la quale il Regno Unito ignorerebbe gli obblighi discendenti dall’articolo 2 della Convenzione se non autorizzasse il suicidio assistito. 42. La Corte conclude, quindi, per l’assenza di violazione dell’articolo 2 della Convenzione. III. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE 43. L’articolo 3 della Convenzione è cosi’ formulato: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. A Tesi delle parti1. La ricorrente 44. Davanti alla Corte, la ricorrente ha sostanzialmente imperniato le sue doglianze sull’articolo 3 della Convenzione. Sostiene che la sofferenza con la quale si trova a confronto è qualificabile come un trattamento degradante ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Affetta da un’atroce ed irreversibile malattia in fase terminale, ella sarebbe destinata ad avere una morte estremamente dolorosa ed indegna, che sopraggiungerebbe quando i muscoli che controllano la respirazione e la deglutizione saranno debilitati a tal punto da provocarle problemi di insufficienza respiratoria e di pneunomite. Certo, il Governo non sarebbe direttamente responsabile di simile trattamento, ma la Corte avrebbe sostenuto nella sua giurisprudenza che, in virtù dell’articolo 3, grava sullo Stato non solo l’obbligo di astenersi dall’infliggere siffatto trattamento ai propri cittadini, ma anche l’obbligo positivo di tutelarli da ciò. Nella fattispecie, tale obbligo consisterebbe nell’adottare le misure richieste per premunire la signora Pretty, dalla sofferenza che diversamente dovrebbe patire . 45. La ricorrente afferma che non vi è spazio, nel campo dell’articolo 3 della Convenzione, per stabilire un equilibrio tra il proprio diritto ad essere tutelata da un trattamento degradante e un qualsivoglia interesse generale concorrente, perché il diritto consacrato dall’articolo 3 riveste un carattere assoluto. Ad ogni modo, l’equilibrio cosi’ ottenuto sarebbe sproporzionato, poiché il diritto anglosassone prevede un divieto generale di suicidio assistito che esclude ogni considerazione delle particolarità dei casi individuali. Stante tale divieto generale, la ricorrente si sarebbe vista negare il diritto di farsi assistere dal marito per evitare la sofferenza che l’attende senza che si sia provveduto, in alcun modo, ad un esame delle circostanze uniche del suo caso, segnatamente il fatto che la malattia non ha intaccato la sua capacità di discernere, né la sua capacità di decidere, che ella non è vulnerabile e non ha necessità di essere protetta, che la sua morte imminente non può essere evitata, che se la malattia segue il suo corso ella è destinata a patire sofferenze e indegnità terribili e che il suo desiderio di farsi assistere dal marito non coinvolgerebbe alcun altro salvo che quest’ultimo e i membri della loro famiglia, i quali sosterrebbero pienamente la sua decisione. Senza siffatta considerazione delle peculiarità di ciascuna fattispecie , i diritti dell’individuo non potrebbero essere protetti. 46. La ricorrente contesta , inoltre, la possibilità di riconoscere, nel campo dell’articolo 3 della Convenzione, un margine di valutazione allo Stato e che, se margine di valutazione doveva esservi, il Governo non potrebbe avvalersene per difendere un regime legale che opera in modo tale da escludere ogni considerazione delle circostanze concrete del suo caso. Ella respinge, in quanto offensiva, l’affermazione del Governo secondo la quale tutti i malati in fase terminale o i disabili che pensano di suicidarsi sono per definizione vulnerabili, circostanza che rende necessario un divieto generale al fine di proteggerli. Trattandosi della preoccupazione di proteggere le persone vulnerabili, sarebbe possibile instaurare un sistema che legalizzi il suicidio assistito nel caso in cui la persona interessata possa dimostrare che essa ha la capacità di adottare simile decisione e che non ha bisogno di protezione.
2. Il Governo
47. Il Governo replica che l’articolo 3 non è qui in discussione . Il primo obbligo imposto da tale norma sarebbe negativo: lo Stato dovrebbe astenersi dall’infliggere torture e pene o trattamenti inumani o degradanti. L’argomentazione della ricorrente si fonderebbe piuttosto su pretesi obblighi positivi. Emergerebbe ora dalla giurisprudenza della Corte che laddove esistono obblighi positivi essi non sono assoluti, ma devono essere interpretati in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile od eccessivo. Fino ad ora è stato ritenuto che esistano degli obblighi positivi in tre casi: in primo luogo , lo Stato sarebbe tenuto a proteggere la salute degli individui privati della loro libertà; in secondo luogo lo Stato avrebbe l’obbligo di adottare delle misure allo scopo di garantire che le persone sottoposte alla propria giurisdizione non abbiano a subire torture o altri trattamenti vietati per mano di privati; infine, il terzo caso sarebbe quello in cui lo Stato ha intenzione di adottare , nei confronti di un individuo, un atto che potrebbe avere come risultato l’infilizione da parte di un terzo di trattamenti inumani o degradanti per l’ interessato. Orbene, la presente fattispecie non avrebbe nulla a vedere con tali circostanze: la ricorrente non sarebbe stata maltrattata da nessuno, non si lamenterebbe di essere stata privata di un trattamento sanitario e lo Stato non avrebbe adottato alcuna misura a suo carico. 48. Anche a supporre che l’articolo 3 entri in causa, esso non conferirebbe un diritto di morire la cui esecutorietà è riconosciuta dalla legge . Per valutare la portata di ogni obbligo positivo, sarebbe opportuno aver riguardo al margine di discrezionalità legittimamente riconosciuto allo Stato per mantenere in vigore l’articolo 2 della legge del 1961 sul suicidio. Il divieto del suicidio assistito avrebbe come obiettivo un giusto equilibrio tra i diritti dell’individuo e l’interesse generale, segnatamente nella misura in cui rispetterebbe doverosamente la sacralità della vita e perseguirebbe uno scopo legittimo, cioè la tutela delle persone vulnerabili. Il problema sarebbe stato esaminato attentamente nel corso degli anni dalla commissione di riforma del diritto penale e dal comitato ristretto della Camera dei Lords competente per le questioni di etica medica. Vi sarebbero forti argomentazioni e taluni elementi concreti che conducono a ritenere che la legalizzazione dell’eutanasia volontaria implicherebbe inevitabilmente la prassi dell’eutanasia involontaria. Inoltre, lo Stato avrebbe interesse a proteggere la vita degli individui deboli . Sotto tale profilo, ogni persona desiderosa di suicidarsi dovrebbe necessariamente essere considerata psicologicamente ed emotivamente vulnerabile, anche se fosse fisicamente sana. Le persone affette da handicap, invece, potrebbero trovarsi in una situazione più precaria a causa dell’impossibilità di comunicare effettivamente la loro opinione. Peraltro, in seno agli Stati membri del Consiglio d’Europa vi sarebbe consenso generale in proposito, dal momento che il suicidio assistito e l’omicidio consensuale sono illegali in tutti i Paesi salvo che nei Paesi Bassi. Tale consenso si ritroverebbe, in conclusione , in altri ordinamenti giuridici al di fuori dell’Europa.
B. Valutazione della Corte
49. Al pari dell’articolo 2, l’articolo 3 della Convenzione deve essere considerato come una delle norme primordiali della Convenzione e come sacrario dell’essenza dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa ( vedi la sentenza Soering c. Regno Unito del 7 luglio 1989, Serie A n. 161, pagina 34, paragrafo 88). Diversamente dalle altre disposizioni della Convenzione e’ formulato in termini assoluti, poiché non prevede né eccezioni né condizioni, né la possibilità di deroga di cui all’articolo 15 della Convenzione . 50. Da un esame della giurisprudenza della Corte si evince che l’articolo 3 è stato generalmente applicato in contesti nei quali il rischio per l’individuo di essere sottoposto ad una qualsiasi delle forme vietate di trattamento conseguiva ad atti posti in essere intenzionalmente da agenti dello Stato o da pubbliche autorità ( vedi, fra le altre, la sentenza Irlanda c.Regno Unito del 18 gennaio 1978, Serie A n.25). Esso può essere descritto in termini generali nel senso che impone agli Stati essenzialmente l’obbligo di astenersi dall’infliggere lesioni gravi alle persone sottoposte alla loro giurisdizione. Tuttavia, considerata l’importanza fondamentale di questo articolo nel sistema della Convenzione, la Corte si è riservata un’elasticità sufficiente nel trattare la sua applicazione in altre situazioni che potessero presentarsi (sentenza D. c. Regno Unito del 2 maggio 1997, Raccolta 1997-III, pagina 792, paragrafo 49). 51. Ha ritenuto in particolare la Corte, che, in combinato disposto con l’articolo 3, l’obbligo che l’articolo 1 della Convenzione impone alle Alte Parti contraenti di garantire ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà sanciti dalla Convenzione impone loro di adottare misure idonee ad impedire che le suddette persone siano sottoposte a torture o a pene o trattamenti inumani o degradanti, anche inferti da privati ( vedi la sentenza A. c.Regno Unito del 23 settembre 1998, Raccolta 1998-VI, pagina 2699, paragrafo 22). Essa ha concluso, in un certo numero di casi, per l’esistenza di un obbligo positivo a carico dello Stato di fornire una protezione da trattamenti inumani e degradanti ( vedi, per esempio, il caso A. c. Regno Unito, precitato, nel quale il minore ricorrente era stato frustato dal suo patrigno, e il caso Z. e altri c.Regno Unito, nel quale i quattro minori ricorrenti erano stati vittime di gravi abusi e di una grande negligenza da parte dei loro genitori). L’articolo 3 impone anche alle autorità dello Stato di proteggere la salute delle persone private della loro libertà (vedi il caso Keenan c. Regno Unito, precitato, che concerneva la mancata somministrazione di cure sanitarie effettive ad un detenuto che soffriva di una malattia mentale e che si era suicidato; vedi anche la sentenza Kudla c.Polonia (GC) n. 30210/96, CEDH 2000-XI, paragrafo 94). 52. In riferimento ai tipi di “trattamenti” che rientrano nell’articolo 3 della Convenzione, la giurisprudenza della Corte parla di “maltrattamenti” che raggiungono un minimo di gravità e che provocano lesioni fisiche effettive, oppure una intensa sofferenza fisica o della mente (vedi le sentenze Irlanda c. Regno Unito precitata, pagina 66, paragrafo 167, e V. c. Regno Unito (GC) n.24888/94, CEDH 1999-IX, paragrafo 71). Un trattamento può essere qualificato degradante e ricadere nel divieto dell’articolo 3 se umilia o svilisce un individuo, se dimostra un’assenza di rispetto per la sua dignità umana, addirittura la sminuisce, o suscita nell’interessato sentimenti di paura, di angoscia o di inferiorità atti a fiaccare la sua resistenza fisica e morale (vedi, tra le più recenti , le sentenze Price c.Regno Unito, n. 33394/96 (3 sezione), CEDH 2001-VIII, paragrafo 117). La sofferenza dovuta ad una malattia che sopraggiunge naturalmente, sia essa fisica o psichica, può rientrare nell’articolo 3 se viene o rischia di essere aggravata da un trattamento – che consegue a talune condizioni di detenzione, ad una espulsione o ad altre misure - del quale le autorità possono essere ritenute responsabili (vedi le sentenze D. c. Regno Unito e Keenan c. Regno Unito precitate e la sentenza Bensaid c. Regno Unito n. 44599/98 (terza sezione), CEDH 2001-I). 53. Nella fattispecie, senza dubbio il Governo convenuto non ha inflitto, in prima persona, il minimo maltrattamento alla ricorrente. Quest’ultima non si duole nemmeno di non avere ricevuto cure adeguate da parte delle autorità sanitarie dello Stato. La sua situazione non può, dunque, essere comparata con quella del ricorrente nel caso D. c. Regno Unito, nel quale un malato di AIDS rischiava l’espulsione verso l’isola di Saints Kitts, dove non avrebbe potuto beneficiare di un adeguato trattamento sanitario o di cure palliative e dove sarebbe stato esposto al rischio di morire in circostanze molto penose. La responsabilità dello Stato sarebbe scaturita dall’atto (“trattamento”) consistente nell’espellere l’interessato in siffatte condizioni. Nella fattispecie, non si individua nessun atto o “trattamento” comparabile da parte del Regno Unito. 54.La ricorrente sostiene che il rifiuto da parte del DPP di impegnarsi a non perseguire il marito se questi l’avesse aiutata a suicidarsi e che il divieto di suicidio assistito previsto dal diritto penale rivelano un trattamento inumano e degradante di cui lo Stato e’ responsabile, nella misura in cui omette di proteggerla dalle sofferenze che sopporterà se la sua malattia giunge allo stadio finale. Tale doglianza contiene , tuttavia, un’interpretazione nuova ed estensiva della nozione di trattamento che, come ha ritenuto la Camera dei Lords, travalica il significato ordinario del termine. Benché la Corte debba adottare un approccio elastico e dinamico nell’interpretare la Convenzione, che e’ uno strumento vivente, occorre anche sorvegliare che ogni interpretazione che essa fornisce coincida con gli obiettivi fondamentali perseguiti dal trattato e salvaguardi la coerenza che quest’ultimo deve avere in quanto sistema di protezione dei diritti dell’uomo. L’articolo 3 deve essere interpretato in armonia con l’articolo 2, che gli e’ sempre stato associato dato che rispecchia i valori fondamentali osservati dalle società democratiche. Cosi’ come e’ stato sottolineato supra, l’articolo 2 della Convenzione sancisce anzitutto e soprattutto un divieto di ricorso alla forza o a qualsiasi altro comportamento idoneo a provocare la morte di un essere umano, e non conferisce affatto all’individuo un diritto di esigere dallo Stato che consenta o faciliti la sua morte. 55. La Corte non può non essere comprensiva del timore della ricorrente di dover affrontare una morte dolorosa se non le si da’ l’opportunità di mettere fine ai suoi giorni. E’ consapevole che l’interessata versa nell’impossibilita’di suicidarsi a causa del suo handicap fisico e che lo stato del diritto e’ tale che il marito rischia di essere perseguito se le presta assistenza. Tuttavia, l’adempimento dell’obbligo positivo evocato nella fattispecie non comporterebbe la soppressione o l’attenuazione del danno subito ( effetto che può scaturire da una misura consistente, per esempio, nell’impedire ad organi pubblici o a privati di infliggere maltrattamenti o nel migliorare una situazione o delle cure). Esigere dallo Stato che accolga la domanda, equivale ad obbligarlo ad approvare atti volti ad interrompere la vita. Siffatto obbligo non può farsi derivare dall’articolo 3 della Convenzione. 56. La Corte conclude, quindi, che l’articolo 3 della Convenzione non impone allo Stato convenuto nessun obbligo positivo di impegnarsi a non perseguire il marito della ricorrente se aiuta la moglie a suicidarsi o di istituire un sistema legale per qualsiasi altra forma di suicidio assistito. Pertanto, non vi e’ stata violazione dell’articolo 3. III. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE 57. La parte pertinente nella fattispecie dell’articolo 8 della Convenzione e’ cosi’ formulata: “1 Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2 Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, e’ necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine o alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. A Tesi delle parti1 La ricorrente 58. La ricorrente sostiene che se il diritto all’autodeterminazione traspare in filigrana in tutta la Convenzione e’ nell’articolo 8 che più esplicitamente viene riconosciuto e garantito. Tale diritto comporterebbe certamente quello di disporre del proprio corpo e di decidere cosa farne. Implicherebbe il diritto di scegliere quando e come morire, e niente sarebbe più intimamente legato al modo in cui un individuo conduce la propria esistenza che le modalità ed il momento del suo passaggio a miglior vita. Ne conseguirebbe che il rifiuto da parte del DPP di prendere l’impegno sollecitato e il divieto generale di suicidio assistito previsto dallo Stato ignorerebbero nei confronti della ricorrente i diritti garantiti dall’articolo 8, paragrafo 1, della Convenzione. 59. La ricorrente osserva che occorrono ragioni particolarmente gravi per giustificare un pregiudizio ad un aspetto cosi’ intimo della sua vita privata. Ora il Governo non avrebbe dimostrato la giustificazione dell’ingerenza poiché le circostanze particolari del caso non sono state prese in considerazione. L’interessata rinvia qui alle argomentazioni già formulate nel contesto dell’articolo 3 della Convenzione (paragrafi 45-46 supra). 2 Il Governo 60. Il Governo sostiene, dal canto suo, che i diritti garantiti dall’articolo 8 non sono qui in discussione, poiché, a suo giudizio, il diritto alla vita privata non comporta un diritto di morire. Il diritto sancito dall’articolo 8 contempla la maniera in cui una persona conduce la sua vita, non la maniera in cui se ne distacca . Diversamente, il preteso diritto comporterebbe l’estinzione del beneficio stesso sul quale si fonda. Il Governo aggiunge che se dovesse avere torto su questo punto, il pregiudizio eventualmente arrecato ai diritti garantiti alla ricorrente dall’articolo 8 sarebbe comunque ampiamente giustificato. Avendo lo Stato il diritto, nei limiti del proprio potere discrezionale, di stabilire la misura in cui gli individui possono consentire a farsi infliggere ferite, esso sarebbe in effetti a maggior ragione legittimato a decidere se una persona possa consentire ad essere uccisa. B Valutazione della Corte1. Applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione 61. Come la Corte ha già avuto occasione di osservare, la nozione di “vita privata” è una nozione ampia, non suscettibile di una definizione esaustiva. Essa ricomprende l’integrità fisica e morale della persona ( sentenza X. e Y. c. Paesi Bassi del 26 marzo 1985, Serie A n. 91, pagina 11, paragrafo 22). Può perfino inglobare aspetti dell’identità fisica e sociale di un individuo ( Mikulic c. Croazia, n. 553176/99 ( prima sezione), sentenza del 7 febbraio 2002, paragrafo 53). Elementi quali, per esempio, l’identificazione sessuale, il nome, l’orientazione sessuale e la vita sessuale rientrano nella sfera personale protetta dall’articolo 8 ( vedi, per esempio, le sentenze B. c. Francia del 25 marzo 1992, Serie A n. 232-C, paragrafo 63, Burghartz c. Svizzera del 22 febbraio 1994, Serie A n. 280—B, paragrafo 24, Dudgeon c.Regno Unito del 22 ottobre 1991, Serie A n. 45, paragrafo 41 e Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito del 19 febbraio 1997, Raccolta 1997-1, paragrafo 36). Tale disposizione tutela altresì il diritto allo sviluppo personale e il diritto di instaurare e intrattenere relazioni con altri esseri umani e il mondo esterno ( vedi, ad esempio, Burghartz c. Svizzera, rapporto della Commissione, precitato, paragrafo 47 e Friedl c.Austria, Serie A n. 305-B, rapporto della Commissione, paragrafo 5). Benché non sia stato accertato in nessuno dei casi precedenti che l’articolo 8 della Convenzione implichi un diritto all’autodeterminazione in quanto tale, la Corte osserva che la nozione di autonomia personale rispecchia un principio importante sotteso all’interpretazione delle garanzie dell’articolo 8. 62. A giudizio del Governo, il diritto alla vita privata non può inglobare un diritto alla morte assistita, che comporterebbe la negazione della protezione che la Convenzione tende ad offrire. La Corte osserva che la facoltà per ognuno di condurre la propria esistenza come vuole può anche includere la possibilità di dedicarsi ad attività fisicamente e moralmente pregiudizievoli o pericolose per la propria persona. La misura in cui uno Stato può ricorrere alla coercizione o al diritto penale per premunire gli individui dalle conseguenze dello stile di vita scelto è da lungo tempo dibattuta, sia sotto il profilo morale sia in giurisprudenza, e il fatto che l’ingerenza venga spesso percepita come un’intrusione nella sfera privata e personale aggiunge vigore al dibattito. Tuttavia, anche quando il comportamento in oggetto costituisce un rischio per la salute o quando si può ragionevolmente ritenere che abbia natura potenzialmente letale, la giurisprudenza degli organi della Convenzione considera l’imposizione da parte dello Stato di misure coercitive o di carattere penale siccome lesive della vita privata ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, e che richiedono una giustificazione conforme al secondo paragrafo del suddetto articolo ( vedi, per esempio, relativamente alla partecipazione a pratiche sadomasochiste consensuali, che comportano colpi e ferite, la sentenza Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito precitata, e, in merito al rifiuto di un trattamento sanitario, n. 10435/83, decisione della Commissione del 10 dicembre 1984, D.R. 40, pagina 251). 63. Si potrebbe certo far osservare che la morte non era la conseguenza voluta dal comportamento dei ricorrenti nei casi summenzionati. La Corte, tuttavia, ritiene che ciò non possa costituire un elemento decisivo. In ambito sanitario, il rifiuto di accettare un trattamento particolare potrebbe, inevitabilmente, condurre ad un esito fatale, ma l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente se è un adulto e sano di mente costituirebbe un attentato all’integrità fisica dell’interessato che può mettere in discussione i diritti protetti dall’articolo 8, paragrafo 1, della Convenzione. Come ha affermato la giurisprudenza interna, un individuo può rivendicare il diritto di esercitare la scelta di morire rifiutando di consentire ad un trattamento che potrebbe avere l’effetto di prolungargli la vita (vedere i paragrafi 17 e 18 qui sopra). 64. Nella fattispecie non si tratta di trattamenti sanitari, la ricorrente subisce gli effetti devastanti di una malattia degenerativa che comporta un deterioramento graduale della sua condizione e un aumento della sua sofferenza fisica e mentale. L’interessata desidera attenuare tale sofferenza esercitando una scelta che consiste nel mettere fine alla sua esistenza con l’assistenza del marito. Come ha affermato Lord Hope, il modo in cui ha scelto ella di trascorrere gli ultimi istanti della sua esistenza fa parte dell’atto di vivere ed ella ha il diritto di chiedere che venga rispettato (vedere il paragrafo 15 qui sopra). 65. La dignità e la libertà dell’uomo sono l’essenza stessa della Convenzione. Senza negare in nessun modo il principio della sacralità della vita protetto dalla Convenzione, la Corte rileva che è sotto il profilo dell’articolo 8 che la nozione di qualità di vita si riempie di significato. In un’epoca in cui si assiste ad una crescente sofisticazione della medicina e ad un aumento delle speranze di vita, numerose persone temono di non avere la forza di mantenersi in vita fino ad un’età molto avanzata o in uno stato di grave decadimento fisico o mentale agli antipodi della forte percezione che hanno di loro stesse e della loro identità personale. 66. Nel caso Rogriguez c. Procuratore generale del Canada ( 1994) 2 LRC 136), che riguardava una situazione comparabile a quella della fattispecie in esame, l’opinione maggioritaria della Corte Suprema del Canada aveva osservato che il divieto di farsi aiutare a suicidarsi imposto alla parte attrice contribuiva al suo sconforto e le impediva di gestire la sua morte. Del momento che tale misura privava l’interessata della propria autonomia, richiedeva una giustificazione sotto il profilo dei principi di giustizia sostanziale. Benché la Corte Suprema del Canada avesse dovuto esaminare la situazione sotto il profilo di una disposizione della Carta canadese, formulata diversamente dall’articolo 8 della Convenzione, la causa sollevava questioni analoghe relativamente al principio dell’autonomia personale, nel senso del diritto di effettuare scelte riguardanti il proprio corpo. 67. Nella fattispecie, alla ricorrente viene impedito dalla legge di compiere una scelta per evitare ciò che, ai suoi occhi, costituirà un epilogo della vita indegno e doloroso. La Corte non può escludere che ciò costituisce una lesione del diritto dell’interessata al rispetto della sua vita privata, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della Convenzione. Esaminerà, di seguito, la questione se tale lesione sia conforme ai requisiti del secondo paragrafo dell’articolo 8. 2. Rispetto dell’articolo 8 paragrafo 2 della Convenzione 68. Per conciliarsi col paragrafo 2 dell’articolo 8, un’ingerenza nell’esercizio di un diritto garantito da tale articolo deve essere “prevista dalla legge”, ispirata da uno o più scopi legittimi, secondo tale paragrafo e “necessaria, in una società democratica” per il perseguimento di questo o di quegli scopi (sentenza Dudgeon c. Regno Unito del 22 ottobre 1981, Serie A n. 45, pagina 19, paragrafo 43). 69. La sola questione che si deduce dall’argomentazione delle parti è quella della necessità dell’ingerenza, non contestando nessuna di esse la circostanza che il divieto di suicidio assistito nella fattispecie era imposto dalla legge e perseguiva lo scopo legittimo di tutelare la vita, quindi di proteggere i diritti altrui. 70. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, la nozione di necessità implica che l’ingerenza corrisponda ad un bisogno sociale imperativo e, in particolare, che sia proporzionata allo scopo legittimo perseguito. Per accertare se un’ingerenza sia “necessaria una società democratica” occorre tener conto del fatto che un potere discrezionale è conferito alle autorità nazionali, la cui decisione rimane sottoposta al controllo della Corte, competente per verificarne la conformità ai requisiti della Convenzione. Il summenzionato potere discrezionale varia funzionalmente alla natura delle questioni e all’importanza degli interessi in causa. 71. La Corte ricorda che, relativamente alle ingerenze nell’ambito intimo della vita sessuale degli individui, il potere discrezionale e’ limitato ( vedi le sentenze Dudgeon c. Regno Unito, precitata, pagina 21, paragrafo 52 e A.D.T. c. Regno Unito, n. 35765/97 (3 sezione) CEDH 2001-IX, paragrafo 37). Benché la ricorrente sostenga che lo Stato convenuto deve, di conseguenza, attestare le ragioni particolarmente imperative per giustificare l’ingerenza di cui si duole, la Corte ritiene che la questione sollevata nella fattispecie non possa essere considerata della medesima natura o nel senso che richiami il medesimo ragionamento. 72. Le parti imperniano la loro argomentazione sulla questione della proporzionalità dell’ingerenza, messa in luce dai fatti di causa. La ricorrente contesta, in particolare, la natura generale del divieto di suicidio assistito, in quanto trascura di prendere in considerazione la sua condizione di persona sana di mente, che sa quel che vuole, che non è sottoposta ad alcuna pressione, che ha preso la sua decisione deliberatamente e con perfetta cognizione di causa e che non può, dunque, essere considerata vulnerabile e bisognosa di protezione. Tale rigidità significa, a giudizio dell’interessata, che è obbligata a subire le conseguenze della sua malattia penosa e incurabile, circostanza che per lei costituisce un costo personale molto elevato. 73. La Corte osserva che, nonostante il Governo sostenga che la ricorrente, persona desiderosa di suicidarsi e gravemente menomata, debba essere considerata vulnerabile, tale affermazione non è stata supportata dalle prove prodotte davanti ai tribunali interni né dalle decisioni della Camera dei Lords che, pur sottolineando che il diritto del Regno Unito protegge le persone vulnerabili, hanno concluso che la ricorrente non rientrava in questa categoria. 74. La Corte rileva tuttavia, unitamente alla Camera dei Lords e alla maggioranza della Corte suprema del Canada nel caso Rogriguez, che gli Stati hanno il diritto di controllare, tramite l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli per la vita e la sicurezza dei terzi (vedi anche la sentenza Laskey, Jaggard e Brown precitata, paragrafo 43). Più grave è il danno subito e maggiore sarà il peso che avranno sulla bilancia le considerazioni di salute e di sicurezza pubblica di fronte al principio concorrente dell’autonomia personale. La disposizione legislativa contestata nella fattispecie, vale a dire all’articolo 2 della legge del 1961, è stata concepita per salvaguardare la vita, proteggendo le persone deboli e vulnerabili – specialmente quelle che non sono in grado di adottare decisioni con cognizione di causa – contro gli atti che mirano a porre fine alla vita o ad aiutare a morire. Certamente la condizione delle persone che soffrono di una malattia in fase terminale varia di caso in caso. Ma molte di tali persone sono fragili, ed è proprio la vulnerabilità della categoria a cui appartengono che fornisce la ratio legis della disposizione in oggetto. Spetta, in primo luogo, agli Stati di valutare il rischio di abuso e le probabili conseguenze degli abusi eventualmente commessi che un’attenuazione del divieto generale di suicidio assistito o la creazione di eccezioni al principio implicherebbe. Esistono rischi manifesti di abuso, nonostante le argomentazioni sviluppate in merito alla possibilità di prevedere barriere e procedure di protezione. 75. Gli avvocati della ricorrente hanno tentato di convincere la Corte che una constatazione di violazione nella fattispecie non creerebbe un precedente generale, né un qualsivoglia rischio per altri. Ora se l’articolo 34 della Convenzione attribuisce effettivamente alla Corte il compito di non formulare pareri in astratto, ma di applicare la Convenzione ai fatti concreti del caso per il quale viene adita, le sentenze rese nei casi individuali costituiscono, in misura più o meno ampia, precedenti, e la decisione nella fattispecie non può, né in teoria né in pratica, essere articolata in modo tale da impedire che sia applicabile ad altre fattispecie. 76. Anche la Corte considera che la natura generale del divieto di suicidio assistito non è sproporzionata. Il Governo sottolinea che una certa elasticità è possibile in casi particolari: anzitutto, potrebbero essere aperti procedimenti solo con il consenso del DPP; inoltre, sarebbe previsto solo il massimo della pena, circostanza che permetterebbe al giudice di comminare pene meno severe, laddove lo ritiene opportuno. Il rapporto del comitato ristretto della Camera dei Lords precisava che tra il 1981 e il 1992, nei ventidue casi nei quali era stato sollevato il problema “dell’omicidio per compassione”, i giudici avevano pronunciato una sola condanna per omicidio per cui avevano irrogato la pena del carcere a vita, mentre qualificazioni meno gravi erano state prese in considerazione in altri casi, nei quali era stata comminata la pena con la libertà vigilata o con il beneficio della condizionale (paragrafo 128 del rapporto citato al paragrafo 21 qui sopra). Alla Corte non sembra arbitrario che il diritto rispecchi l’importanza del diritto alla vita vietando il suicidio assistito e prevedendo un sistema di applicazione e di valutazione da parte della giustizia che consente di valutare in ciascun caso concreto tanto l’interesse pubblico ad avviare un’azione giudiziaria quanto le esigenze giuste e adeguate del castigo e della dissuasione. 77. Tenuto conto delle circostanze della fattispecie, la Corte non ravvisa nulla di sproporzionato nemmeno nel rifiuto del DPP di impegnarsi anticipatamente ad esonerare da ogni azione penale il marito della ricorrente. Solidi argomenti fondati sullo stato di diritto potrebbero esser opposti ad ogni pretesa da parte dell’esecutivo di sottrarre degli individui o delle categorie di individui all’applicazione della legge. Ad ogni modo, considerata la gravità dell’atto per il quale era richiesta l’immunità, non si può ritenere arbitraria o priva di ragionevolezza la decisione adottata dal DPP nella fattispecie di rifiutarsi di assumere l’impegno sollecitato. 78. La Corte conclude che l’ingerenza in contestazione può passare per giustificata in quanto “necessaria, in una società democratica”, alla protezione dei diritti altrui. Pertanto, non c’è stata la violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
IV. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 9 DELLA CONVENZIONE
79. L’articolo 9 della Convenzione è cosi’ formulato: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, cosi’ come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza di riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
A. Tesi delle parti
1. La ricorrente
80.La ricorrente invoca anche l’articolo 9 della Convenzione, relativo al diritto alla libertà di pensiero, che sarebbe stato ritenuto applicabile a convinzioni quali quelle del vegetarismo e del pacifismo. L’interessata afferma che sollecitando l’aiuto del marito per suicidarsi credeva e dava il suo sostegno alla nozione di suicidio assistito per essa stessa. Rifiutando di impegnarsi a non perseguire il marito, il DPP avrebbe leso tale diritto, e il Regno Unito avrebbe fatto lo stesso imponendo un divieto generale che non consente alcuna considerazione della sua situazione particolare. Per le ragioni esposte nel contesto dell’articolo 8 della Convenzione, tale lesione non può essere ritenuta giustificata sotto il profilo dell’articolo 9, paragrafo 2.
2. Il Governo
81. Il Governo contesta che il caso sollevi questioni attinenti all’articolo 9 della Convenzione. Quest’ultimo tutelerebbe la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, nonché il diritto di ciascuno di manifestare le proprie convinzioni, e non conferirebbe agli individui un diritto generale di dedicarsi a qualsivoglia attività di loro scelta nel perseguire le loro convinzioni quali esse siano. In subordine, nel caso in cui la Corte concludesse per l’esistenza di una lesione al diritto sancito dall’articolo 9, paragrafo 1, della Convenzione, il Governo sostiene che tale lesione sarebbe giustificat a in relazione al secondo paragrafo dell’articolo 9, per i medesimi motivi esposti a proposito degli articoli 3 e 8 della Convenzione.
B. Valutazione della Corte
82. La Corte non dubita della serietà delle convinzioni della ricorrente in merito al suicidio assistito, ma osserva che non tutte le opinioni o convinzioni rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, della Convenzione. Le doglianze dell’interessata non concernono una forma di manifestazione di una religione o di una convinzione mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche o il compimento di riti, ai sensi della seconda frase del paragrafo 1 dell’articolo 9. Come ha dichiarato la Commissione, il termine “pratiche” utilizzato nell’articolo 9, paragrafo 1, non include qualsiasi azione motivata o influenzata da una religione o da una convinzione ( Arrowsmith c. Regno Unito, n. 7050/77, rapporto della Commissione del 12 ottobre 1978, D.R. 19, pagina 19, paragrafo 71). Nella misura in cui le argomentazioni della ricorrente riflettono la sua adesione al principio dell’autonomia personale esse non sono altro che riformulazione della doglianza sostenuta sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione. 83. La Corte conclude, pertanto, che l’articolo 9 della Convenzione non è stato violato.
V. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE
84. L’articolo 14 della Convenzione cosi’ dispone:
“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”
A.Tesi delle parti
1. La ricorrente
85. La ricorrente si dichiara vittima di una discriminazione nella misura in cui ella è stata trattata nella medesima maniera di persone la cui situazione è nettamente differente. Benché il divieto generale di suicidio assistito si applichi anche a tutti gli individui, l’effetto della sua applicazione nei suoi confronti, che è talmente menomata da non potersi suicidare senza assistenza, sarebbe discriminatorio. All’interessata sarebbe impedito di esercitare un diritto di cui godrebbero le altre persone, in grado di suicidarsi senza assistenza per il fatto che nessuna menomazione le priva di tale possibilità. Sarebbe, quindi, trattata in maniera sostanzialmente diversa e meno favorevole di queste ultime. L’unica spiegazione fornita dal Governo per giustificare il suddetto divieto generale consisterebbe nella necessità di proteggere le persone vulnerabili. Ora ricorrente non sarebbe vulnerabile e non avrebbe necessità di essere protetta, non sussisterebbe, dunque, nessuna giustificazione ragionevole e obiettiva per tale differenza di trattamento.
2. Il Governo
86. Il Governo sostiene che l’articolo 14 della Convenzione non deve entrare in gioco nella fattispecie, poiché le doglianze formulate dalla ricorrente non rivelano nessuna violazione delle disposizioni normative da quest’ultima evocate. In subordine, nel caso in cui la Corte dovesse decidere diversamente, eccepisce l’assenza di discriminazione. Anzitutto, non si potrebbe ritenere che la ricorrente si trovi in una situazione analoga a quella delle persone in grado di suicidarsi senza assistenza. Inoltre, l’articolo 2, paragrafo 1, della legge del 1961 sul suicidio non sarebbe discriminatorio perché il diritto interno non conferirebbe un diritto di suicidarsi e la filosofia sottesa alla legge sarebbe fermamente contraria al suicidio. La politica del diritto penale consisterebbe nel dare importanza alle situazioni individuali sia nella fase dell’esame dell’opportunità di perseguire penalmente sia, in caso di condanna, nel contesto della valutazione della pena da comminare. Del resto, sussisterebbe una chiara giustificazione ragionevole obiettiva per ogni pretesa differenza di trattamento, il Governo rinvia in proposito alle argomentazioni formulate in merito agli articoli 3 e 8 della Convenzione.
B. Valutazione della Corte
87. La Corte ha ritenuto supra che i diritti garantiti alla ricorrente dall’articolo 8 della Convenzione fossero in causa ( paragrafi 61-67). E’ opportuno, quindi, esaminare la doglianza dell’interessata, nella quale sostiene di essere vittima di una discriminazione nel godimento dei suddetti diritti nella misura in cui il diritto interno consente alle persone autosufficienti di suicidarsi ma impedisce a quelle che sono menomate di farsi aiutare per compiere tale atto. 88. Ai fini dell’articolo 14, una differenza di trattamento tra individui posti in situazioni identiche o analoghe è discriminatoria se non si fonda su una giustificazione obiettiva e ragionevole, vale a dire se non persegue uno scopo legittimo o non vi è un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. Peraltro, gli Stati contraenti godono di un certo potere discrezionale per stabilire se, e in quale misura, differenze tra situazioni per altri aspetti analoghe giustifichino distinzioni di trattamento ( vedi la sentenza Camp e Bourimi c. Paesi Bassi, n. 28369/95, paragrafo 37, CEDH 2000-X, § 37). Può sussistere parimenti una discriminazione quando uno Stato, senza giustificazione obiettiva e ragionevole, non tratta in maniera differente persone che si trovano in delle situazioni sostanzialmente differenti (vedere la sentenza Thlimmenos c. Grecia [GC], n° 34369/97, CEDH 2000-IV, paragrafo 44). 89. Tuttavia, anche se si applica il principio che si deduce dalla sentenza Thlimmenos alla situazione della ricorrente nella fattispecie, vi è, per la Corte, una giustificazione obiettiva e ragionevole all’assenza di distinzione giuridica tra le persone che sono fisicamente capaci di suicidarsi e quelle che non lo sono. Nel contesto dell’articolo 8 della Convenzione, la Corte ha concluso per l’esistenza di buoni motivi per non introdurre nella legge eccezioni che consentissero di valutare la situazione di persone considerate non vulnerabili ( paragrafo 74 supra). Esistono, nell’ottica dell’articolo 14, analoghe convincenti ragioni per non cercare di fare distinzione tra le persone che sono in grado di suicidarsi senza aiuto e quelle che non ne sono capaci. La linea di confine tra le due categorie è spesso molto labile, e tentare di introdurre nella legge un’eccezione per le persone ritenute incapaci di suicidarsi da sole comprometterebbe seriamente la protezione della vita che la legge del 1961 ha inteso consacrare e aumenterebbe in maniera significativa il rischio di abuso. 90. Pertanto non vi è stata violazione dell’articolo 14 nella fattispecie. PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL’UNANIMITA’ 1. dichiara il ricorso ricevibile; 2. dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione; 3. dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione; 4. dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione; 5. dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 9 della Convenzione; 6. dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 14 della Convenzione. Redatta in inglese, comunicata per iscritto il 29 aprile 2002, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento. Michael O’ Boyle (Cancelliere) Matti Pellonpaa (Presidente) |