41) de STEFANO Maurizio, “L’Italia risarcisce male le vittime dei lunghi processi” in Rivista “La Previdenza Forense”, periodico della Cassa Nazionale Previdenza Assistenza Forense, (anno 2002, n. 4 pag. 351). |
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“L’Italia risarcisce male le vittime dei lunghi processi” La legge Pinto ha istituito la competenza del giudice italiano a decidere sulla indennità per l’eccessiva lunghezza dei giudizi. La sua applicazione è risultata disomogenea nei vari distretti e spesso non rispettosa delle norme europee da applicare. L’Italia è ancora una “vigilata speciale” da parte del Consiglio d’Europa. Molti avvocati italiani hanno segnalato la deludente se non addirittura catastrofica (per le aspettative dei loro clienti) applicazione della cosiddetta legge Pinto, n.89/2001, che ha posto a carico dello Stato italiano il risarcimento del danno per la durata non ragionevole dei processi in Italia. La tendenza generale delle Corti d'Appello italiane è stata purtroppo negativa. Infatti, i giudici italiani si sono rifiutati di considerarsi essi stessi una <<sezione distaccata in Italia della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo>>, spesso per ignoranza, talvolta per un supposto (erroneo) loro primato; questo atteggiamento ha indotto i giudici italiani a creare dei loro propri principi ermeneutici circa il superamento del limite ragionevole di durata di un processo e soprattutto circa il quantum debeatur da corrispondere alla vittima, ignorando che i siffatti principi erano stati affermati da una costante e consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, proprio con riguardo a migliaia di condanne già emesse contro l’Italia[1]. I giudici italiani, purtroppo, ancora non hanno compreso che essi stessi sono i primi tutori delle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e che la Corte di Strasburgo è chiamata a svolgere, solo in via sussidiaria ed eccezionale, il compito di correggere gli eventuali errori dei giudici italiani nella applicazione delle medesime norme della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. I giudici italiani, purtroppo, ancora non sanno che l’Italia è obbligata a conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo , non solo riparando ex post il danno arrecato ai singoli, ma soprattutto adottando le misure generali per migliorare l’efficienza del proprio sistema giudiziario per riformare le leggi ritenute incompatibili ed evitare nuove violazioni. Per una panoramica della giurisprudenza delle Corti d'Appello italiane sulla legge Pinto, n.89/2001 si rinvia alla ampia documentazione contenuta in un recente libro[2]. Tra le decisioni più aberranti si segnala un decreto della Corte d’appello di Roma[3], con cui si è affermato <<che possono valutarsi solo le situazioni di ritardo verificatesi successivamente all’entrata in vigore del ricordato testo normativo (18 aprile 2001), atteso che la legge in esame –a carattere sostanziale- ha fatto nascere una nuova fattispecie di danno>>. La Corte d’appello di Roma ignorava che la legge Pinto n. 89/2001, non ha fatto nascere un nuovo diritto (perché esso era stato già riconosciuto dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) e neppure ha fatto nascere una nuova fattispecie di danno, ma ha solo dato attuazione all’articolo 13(tredici) della Convenzione[4], che impone allo Stato di predisporre un ricorso davanti ai giudici nazionali per rimuovere le conseguenze della violazione dei diritti umani, e proprio in difetto di tale ricorso interno, prima della legge n.89/2001 era possibile adire direttamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In questo sconfortante quadro però va segnalata “in positivo” la Corte d'Appello di Perugia che ha statuito testualmente che " la durata ragionevole del processo di cui al cennato articolo 6 della Convenzione … deve essere calcolata di regola, alla luce anche della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in anni tre per il primo grado, in anni due per il secondo e in anni uno per ciascuna fase successiva", sia pure espungendo da tale periodo quello addebitabile al comportamento processuale delle parti private e per quanto concerne i criteri di determinazione del danno <<non patrimoniale>> la stessa Corte d'Appello di Perugia ha anche riconosciuto che questo sia "derivante ex se dall'ingiustificato ritardo nella definizione della causa per ogni anno eccedente la durata ragionevole come sopra determinata"[5]. È vero che il “danno patrimoniale” non è stato quasi mai riconosciuto dalle Corti d’Appello italiane, ma anche la Corte Europea di Strasburgo era stata sempre molto restrittiva sotto tale profilo. Con riferimento al quantum debeatur per ogni singolo anno di ritardo, tutte le Corti d'Appello italiane si sono attestate a livelli di gran lunga inferiori a quelli riconosciuti dalla Corte Europea di Strasburgo e solo per questo motivo le vittime potrebbero ricorrere ulteriormente a Strasburgo. Sono finalmente intervenute nell’agosto 2002 le primissime sentenze della Corte di Cassazione italiana, che hanno deciso i ricorsi presentati avverso i primi decreti delle Corti d'Appello, e purtroppo i principi quivi espressi dalla Cassazione hanno costretto, in molti casi, i ricorrenti a proporre un ulteriore ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a Strasburgo, per impugnare le stesse sentenze della Cassazione italiana, oppure , senza necessità di transitare davanti alla Corte di Cassazione, per impugnare direttamente a Strasburgo, i decreti delle Corti d’appello ritenuti insoddisfacenti. E’ auspicabile e prevedibile una pronta reazione della Corte Europea per stigmatizzare tale atteggiamento dei giudici italiani. Infatti, la Cassazione Italiana con la sentenza 08 agosto 2002 n.11987/2002 [6] ha statuito che grava sul ricorrente, anche se persona fisica, l’onere della prova, sia pure in maniera non rigorosa, della sussistenza del danno “non patrimoniale” per l’eccessiva durata del processo. Inoltre, la Cassazione Italiana con la sentenza 02 agosto 2002 n.11573/2002 [7] ha escluso in via generale che tale danno “non patrimoniale” possa essere rivendicato dalle persone giuridiche. Siffatte statuizioni appaiono in controtendenza rispetto alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Siffatta ottusa rigidità sembra però già attenuata dalla successiva sentenza del 22 ottobre 2002 n. 14885 della stessa Cassazione[8], che sembra più rispettosa della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se non ne riconosce una diretta vincolatività. Ed ancora un segnale in positivo si rinviene in una successiva sentenza della Cassazione che fornisce una più favorevole interpretazione per la vittima della durata di un processo penale[9]. Questa significativa evoluzione della Cassazione lascia quasi sperare che si possa giungere per via giurisprudenziale interna ad una piena applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, anche tramite una evolutiva interpretazione della legge Pinto, senza necessità di una sua modifica legislativa, ma solo applicando i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Come abbiamo sempre sostenuto[10], però, il bilancio della legge Pinto, n.89/2001 non è negativo sul piano generale, perché per la prima volta la generalità dei giudici italiani ha scoperto l'importanza delle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, il ruolo e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e, soprattutto, ha dovuto considerare come un vero ed autonomo diritto quello della durata ragionevole del processo. Ma della violazione di questo diritto abbiamo sempre sostenuto che i giudici italiani sono in minima parte responsabili, perché la carenza degli organici della magistratura e del personale ausiliario o di cancelleria è una responsabilità totalmente addebitabile ai Ministri della Giustizia, ai Governi ed al Parlamento italiani degli ultimi venti anni. L’importante è che, anche dopo la legge Pinto n.89/2001, il Consiglio d'Europa continua a tenere sotto osservazione il comportamento dello Stato italiano sotto il profilo delle riforme della macchina della giustizia in Italia e ciò lo fa periodicamente, a cadenza quasi semestrale. Il Governo italiano deve presentare al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa documentate relazioni sui tempi e modalità e sull’avanzamento delle riforme e soprattutto i dati statistici sulla durata dei processi, che da soli possono comprovare l'efficienza o meno della giustizia in Italia[11]. L’Italia è ancora una “vigilata speciale” ed il Governo italiano non può più sottrarsi a tale “vigilanza europea”, pena la sua esclusione dal Consiglio d'Europa[12]. Sotto questo profilo, squisitamente politico e di carattere generale, possiamo concludere che non è neppure necessario che la legge Pinto, n.89/2001 soddisfi interamente le aspettative delle vittime della durata non ragionevole del processo, perché il Consiglio d'Europa ha già dichiarato ufficialmente che questo strumento, se pure in parte attenua il danno individuale, non ha comportato misure per risolvere il problema generale della durata dei processi[13]. Alla fine dell’anno 2002 il Governo italiano ha dovuto dimostrare al Consiglio d'Europa i passi compiuti in questa direzione[14]. A questo importante appuntamento politico, lo Stato italiano si è presentato in maniera deludente, perché le riforme sulla giustizia non hanno riguardato minimamente l’efficienza del sistema logistico, ma solo aspetti particolari e con il dubbio intento di adeguare il processo italiano ai parametri dell’equo processo quale voluto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma su questo evento squisitamente politico, per la prima volta vi è stata la vigilanza anche degli avvocati italiani. Infatti, l’Organismo Unitario dell’Avvocatura (O.U.A.) il 28 novembre 2002 aveva presentato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, un proprio <<controrapporto>> sullo stato della giustizia in Italia, specie della giustizia civile, la più disastrata, per evitare che le pietose bugie del Governo italiano potessero trovare ancora credito in Europa, dopo quindici anni dalla prima condanna della Corte Europea di Strasburgo sulla lentezza di un processo civile in Italia, ottenuta anche grazie all’intervento dell’Ordine degli Avvocati di Roma[15]. E’ necessario dunque che gli avvocati italiani proseguano nella denuncia delle violazioni sulla durata dei processi, sia davanti alle Corti d’appello italiane, sia davanti alla Cassazione ed eventualmente ancora davanti alla Corte Europea di Strasburgo perché grazie alla legge Pinto n. 89/2001 vi è ora un termometro che consente di monitorare costantemente la giustizia malata ed i risultati vanno costantemente portati sia all’esame del Consiglio d’Europa, sia alla Corte Europea perché questi due organismi europei possono imporre al Governo italiano le vere riforme. Avv. Maurizio de Stefano (Segretario emerito della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo)
*** [1] de Stefano Maurizio <<Tabella di valutazione del danno morale per la durata non ragionevole dei processi, secondo la recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, elaborata dall’avv. Maurizio de Stefano>> (in “Impresa” n. 12 del 31 dicembre 2001, pag. 1903/1927) (ETI-De Agostini Professionale) (vedi anche http://www.dirittiuomo.it/Bibliografia/Tabella01.htm ). <<Tabella di valutazione del danno morale per la durata non ragionevole dei processi, secondo la giurisprudenza dell’anno 2002 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo>>, elaborata dall’avv. Maurizio de Stefano (http://www.dirittiuomo.it ) [2] Romano Giovanni, Parrotta Domenico Antonio, Lizza Egidio, Il diritto ad un giusto processo tra Corte internazionale e Corti nazionali. L’equa riparazione dopo la legge Pinto. Giuffrè Editore. Milano 2002. [3] Corte d’Appello di Roma, decreto del 1 luglio/ 4 ottobre 2002, n.1543/2002. [4] Confronta Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 20 dicembre 2001 Ricorso n° 25639/94 caso F. L. contro Italia. [5] Corte d’Appello di Perugia, decreto del 28 gennaio/ 13 febbraio 2002 , n.417/01. [6] Cassazione, sentenza 08 agosto 2002 n.11987/2002, Adamo più 60 - contro Ministero Grazia Giustizia, Presidenza del Consiglio dei Ministri. (in http://www.dirittiuomo.it ) [7] Cassazione, sentenza 02 agosto 2002 n.11573, S.r.l. Samantha Immobiliare contro Ministero Giustizia. (inhttp://www.dirittiuomo.it ). [8] Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza del 22 ottobre 2002 n. 14885: <<… se può convenirsi con la tesi secondo cui la legge 89/2001 non ha determinato il recepimento in blocco nel nostro ordinamento della giurisprudenza europea si deve anche affermare che i principi elaborati da quella giurisprudenza vanno considerati nell'interpretazione della citata legge, la quale, per assicurare concreta attuazione agli impegni assunti con la Convenzione, va interpretata in modo da garantire una tutela effettiva sia del termine ragionevole di durata dei procedimenti (secondo la nozione di questi elaborata dalla Corte di Strasburgo) sia del diritto all'equa riparazione in caso di sua violazione.>>. Vedi anche Cassazione, Sezione prima civile, sentenza del 29 ottobre 2002, n. 15233. [9]Cassazione, sentenza del 5 novembre 2002, n.15449. [10] de Stefano Maurizio, Lentezza del processo ed equa riparazione” ( Rivista “La Previdenza Forense”, anno 2001, n. 4 pag. 290). [11] Malagoni Elena "I processi vanno più veloci ma l'Italia sarà di nuovo sotto esame a febbraio". In Diritto & Giustizia (supplemento settimanale al quotidiano giuridico on line), numero 38 del 3 novembre 2001 « Il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle misure adottate dall’Italia per risolvere il problema della durata eccessiva dei procedimenti giudiziari » (vedi anche http://www.dirittiuomo.it ) La grande innovazione della Risoluzione interinale ResDH (2000) 135, adottata il 25.10.2000, sta nell’aver istituzionalizzato un sistema di controllo periodico a lungo termine attraverso la decisione di “continuare l’esame attento del problema fino a quando la riforma del sistema giudiziario italiano non abbia acquisito piena efficacia e fino a quando l’inversione di tendenza a livello nazionale non sia completamente confermata” e di “continuare l’esame dei progressi realizzati, almeno su base annuale, alla luce di un rapporto completo presentato ogni anno dalle autorità italiane”. [12] In virtù dell’articolo 46, paragrafo 2, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa controlla l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Peraltro, l’articolo 52 della Convention dispone: «Ogni Alta Parte contraente, su domanda del Segretario Generale del Consiglio d’Europa, fornirà le spiegazioni richieste sul modo in cui il proprio diritto interno assicura l’effettiva applicazione di tutte le disposizioni della presente Convenzione.» In caso di persistente rifiuto di esecuzione può applicarsi la misura dell’espulsione dello Stato membro prevista dall’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa. [13] Vedi comunicato del 03 ottobre 2001 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (http://www.dirittiuomo.it ) [14] Vedi comunicati del 20 febbraio 2002 e del 10 luglio 2002 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (http://www.dirittiuomo.it ). [15] Nel processo celebratosi il 26 gennaio 1987 davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Capuano c. Italia (sentenza del 25 giugno 1987), l’Ordine degli Avvocati di Roma era intervenuto quale amicus curiae per far sentire la voce dell’avvocatura italiana sulle responsabilità politiche del Governo italiano. |