Inaugurazione anno giudiziario 2004

ITALIA. ROMA. Inaugurazione anno giudiziario 2004 (duemilaquattro)
RELAZIONE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL'ANNO 2003
DEL DOTT. FRANCESCO FAVARA, PROCURATORE GENERALE
DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

12 gennaio 2004

   

estratto sui temi rilevanti per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

Signor Primo Presidente,
colleghi della Corte Suprema e della Procura Generale, 
rivolgo al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, anche a nome di voi tutti, un sentito ringraziamento per la sua ambita presenza in questa solenne cerimonia.

La Magistratura esprime, ancora una volta, il più vivo apprezzamento per avere Egli, in tante occasioni, difeso il ruolo istituzionale che ad essa compete e il valore della sua autonomia e indipendenza.

omissis

Anche il 2003 è stato un anno travagliato e di grande impegno per tutti i magistrati. Un anno scosso, però da polemiche, spesso aspre, che hanno preso a spunto anche determinate vicende giudiziarie per muovere accuse all'intera magistratura e al sistema nel suo insieme. Tali polemiche si sono poi fortunatamente stemperate, grazie anche all'atteggiamento pacato e responsabile dei magistrati e alla giusta valutazione che ne ha fatto l'opinione pubblica. La giustizia ha spesso un corso difficile, specie quando i processi sono complessi. Bisogna avere fiducia nell'opera di giudici e avvocati. Ed è sopratutto essenziale che non si metta in discussione il ruolo istituzionale della magistratura, che è e deve restare indipendente per potere decidere in modo imparziale, attenendosi alle regole del giusto processo, poste a garanzia della intera collettività, oltre che delle parti direttamente coinvolte.

La giustizia è tuttavia, innegabilmente, ancora in crisi, soprattutto a causa della sua scarsa efficienza e dalla durata eccessiva dei processi.

Il recupero dell'efficienza è l'esigenza fondamentale. L'attenzione di tutti deve essere perciò portata sui problemi concreti, al fine di studiare i rimedi idonei a superare questo preoccupante suo deficit, puntando a riforme processuali, ordinamentali e organizzative idonee a dar vita ad una giustizia moderna e essenziale, ma pur se meno buone in quello della giustizia penale.

Questa relazione costituisce una rassegna di dati e risultati, ma contiene anche riflessioni e spunti per possibili riforme e iniziative. Le considerazioni che saranno fatte sulla base di tali elementi, intendono essere per quanto possibile, propositive. 

Ogni anno di più, però, la relazione deve tener conto anche degli aspetti sovranazionali della giustizia. L'Italia, quale Stato membro dell'Unione europea, deve rispettarne le direttive e adeguare a esse il proprio ordinamento, confrontandosi con le altre realtà giudiziarie europee. Non serve più compiacersi per la derivazione romanistica del nostro ordinamento o per le nostre elevate tradizioni giuridiche. Il nostro sistema di giustizia, al confronto con le altre realtà europee, si presenta purtroppo deficitario per quanto riguarda la durata dei processi e dovrà perciò, pur nella sua nobile fisionomia, divenire compatibile con gli altri sistemi comunitari, nei quali i processi hanno una più rapida trattazione.

In tale prospettiva, è assolutamente necessario allargare la visuale anche al sistema normativo e organizzativo che va sempre meglio delineandosi, nell'Unione europea, per quanto riguarda le strutture e gli organismi comunitari, mentre delicati problemi esistono circa i rapporti tra la giurisdizione nazionale e quelle delle Corti europee. E' questa la c.d. dimensione europea della giustizia.

La dimensione europea della giustizia

Il processo di costruzione della nuova Europa che, per vari fattori, ha subito una temporanea battuta d'arresto con la mancata adozione, nel recente vertice di Bruxelles, della Carta fondamentale, ha fatto largamente ricorso al diritto quale strumento di armonizzazione dei sistemi nazionali, in vista di un nuovo diritto comune europeo. Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia è in fase di avanzata realizzazione.

Già nel vertice di Tampere dell'ottobre 1999, l'Unione aveva ravvisato la necessità di perseguire il ravvicinamento delle legislazioni, anche mediante norme minime comuni, nel campo processuale. Questo processo di accelerazione della integrazione europea, pure in previsione dell'apertura dell'Unione ad altri Paesi, ha portato all'adozione dei primi regolamenti comunitari con i quali, oltre al riconoscimento automatico delle decisioni in materia civile e commerciale, sono state fissate regole comuni in materia di competenza giurisdizionale e di notificazioni. Con un intervento complesso e articolato, che si è concluso proprio nel semestre di Presidenza italiana dell'Unione Europea, è stato altresì approvato il regolamento relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione di tutte le decisioni in materia di potestà dei genitori. Si è trattato del primo organico intervento comunitario nel settore del diritto di famiglia. Non meno significativa, nel campo del diritto sostanziale, è l'elaborazione, ancora in corso, di principi comuni in materia contrattuale.

La rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione del Consiglio dei Ministri della U.E. del 28 maggio 2001, si avvia ad essere una realtà concreta. Il Punto di contatto istituito presso la Procura generale della Corte di cassazione ha registrato le prime richieste di cooperazione giudiziaria da parte dei Paesi membri e, in collaborazione con l'altro Punto di contatto (istituito presso il Ministero della giustizia), ha fornito supporto alla Commissione Europea per la predisposizione, su un apposito sito Internet, di informazioni dirette ai cittadini della U.E. sull'organizzazione giudiziaria e sul diritto degli Stati membri, nonché sugli strumenti comunitari e internazionali in materia civile e commerciale applicabili in Italia. Trattasi di un'iniziativa diretta anche a sollecitare una più stretta cooperazione tra i magistrati della U.E., nella prospettiva della creazione dello spazio giudiziario europeo.

Si va delineando un quadro nel quale anche i giudici ordinari, e non solo quelli costituzionali, saranno chiamati ad una vera e propria costruzione di un sistema, per dirimere i possibili conflitti tra norme interne e principi comunitari. Sempre di più la cooperazione tra le autorità giudiziarie dei Paesi dell'Unione si allontana dagli schemi classici del diritto internazionale, per basarsi su concetti nuovi, il cui tratto comune è quello della progressiva considerazione degli ordinamenti giuridici nazionali come "europei", appunto, e non più "stranieri".

E' per questo che appare quanto mai necessario approfondire la già avviata riflessione sul modello di giudice europeo e sul suo status. Opportunamente, in questa fase, la riflessione si muove sul piano della formazione ed anche dell'adozione di strumenti terminologici e concettuali comuni ai fini di una corretta analisi dei modelli normativi, nella prospettiva di un sistema omogeneo dei modi di rendere giustizia.

La magistratura italiana guarda con grande interesse al processo di costruzione che è in corso, con la convinzione di poter offrire un contributo di esperienza e di elaborazione, che le deriva anche dalla pratica dei valori costituzionali di indipendenza e di autonomia. D'altro lato, l'evoluzione in atto non può fondarsi che sulla "fiducia reciproca" tra autorità e sistemi giudiziari diversi. Questa è la principale sfida negli anni a venire, soprattutto nella prospettiva dell'ormai prossimo allargamento dell'Unione a dieci nuovi Stati, che avrà luogo il 1° maggio 2004. 

Anche in ambito penale, durante la Presidenza italiana dell'Unione Europea sono stati conseguiti importanti risultati. In particolare deve ricordarsi l'accordo raggiunto sulla decisione-quadro relativa all'incriminazione del traffico illecito di stupefacenti. 

Sono in corso iniziative volte a migliorare, nell'ambito dell'U.E. la cooperazione: quella reciproca fra le autorità giudiziarie degli Stati membri e quella con gli organismi comunitari. In questo senso va salutata con soddisfazione la istituzione di Eurojust per il coordinamento delle indagini penali (con un campo d'azione non limitato alla protezione degli interessi comunitari, bensì esteso al contrasto di tutte le forme gravi di criminalità, soprattutto se organizzata) e la creazione, presso l'OLAF (l'organismo di protezione degli interessi dell'unione dalle frodi), di una unità formata da magistrati inquirenti nazionali. 

In questa stessa prospettiva è auspicabile che la nostra legislazione interna possa essere rapidamente adeguata in modo da dare esecuzione agli obblighi che il nostro Paese ha assunto con riguardo al così detto mandato di arresto europeo.

Quanto alle strategie d'azione, il contrasto ai gravi fenomeni di criminalità transfrontaliera non può essere affidato alle sole autorità interne e deve avvenire nel costante rispetto dei diritti dell'uomo. La concreta affermazione del principio di legalità implica, di fronte a questi fenomeni, la necessità di rafforzare la collaborazione fra le autorità giudiziarie, il cui intervento, peraltro, non può che essere indissolubilmente legato alle garanzie del giusto processo. 

Con riferimento a tutti questi temi ed esigenze, si è ritenuto doveroso che anche la Procura generale presso la Corte di cassazione fornisse il proprio contributo di specifica professionalità e si è istituito un Ufficio per le relazioni internazionali, cui sono affidati compiti di studio ed approfondimento. In tale contesto è stata possibile la partecipazione – che giudico assai positiva – alla Conferenza Eurojustice, che riunisce i Procuratori generali dell'Unione Europea, ed alla Conferenza dei Procuratori generali d'Europa, espressione del Consiglio d'Europa. La dimensione europea dei temi inerenti alla giustizia comprende un altro importante capitolo, incentrato sulla giurisdizione della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. 

Si tratta di un campo nel quale l'assoggettamento della legge nazionale agli obblighi internazionali, previsto dal nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione, apre un ulteriore fronte di relazioni tra i giudici nazionali e la Corte europea, con riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione dei diritti dell'uomo.

Delle implicazioni di questa, con particolare attenzione alle pronunce della CEDU che concernono l'amministrazione della giustizia nel nostro Paese, tratterò nel contesto dedicato alla giustizia civile.

Qui, invece, in chiusura di questo breve excursus proiettato in un'ottica internazionale, una parola non può non essere detta per ricordare un evento di rilievo storico: l'entrata in vigore, lo scorso anno, dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, uno strumento che ha trasferito ad un livello istituzionale le istanze di protezione della legalità e dei diritti fondamentali della persona umana. C'è da augurarsi che veda al più presto la luce la normativa interna di attuazione che consentirà, da una parte, la piena incriminazione in Italia delle fattispecie criminose prese in considerazione dallo Statuto e, dall'altra, l'effettiva cooperazione delle nostre autorità giudiziarie con la Corte internazionale.

L A G I U S T I Z I A C I V I L E

 

  1. ASPETTI GENERALI 

    La situazione della giustizia civile e le linee generali di tendenza 

    L'esame dei dati statistici riguardanti la giustizia civile nel periodo di riferimento costituisce il punto di partenza necessario per qualsiasi considerazione si voglia fare circa le linee di tendenza che si delineano e le prospettive che appaiono prevedibili.
    Tale analisi va fatta distintamente per il giudizio di primo grado (qui distinguendo ovviamente tra contenzioso davanti al giudice di pace e davanti al tribunale) e poi per quello di appello (rimandando tuttavia all'apposito capitolo quello riguardante la Corte di cassazione).

                               I.            Primo grado. In generale

I dati statistici elaborati dal Ministero della giustizia dimostrano, a livello nazionale, una contenuta riduzione delle pendenze dei giudizi di primo grado, complessivamente considerati, passate da 3.134.210 al 30 giugno 2002 a 3.036.649 alla data del 30 giugno 2003, con una diminuzione di soli 97.561 processi.
Questo dato è determinato dall'aumento delle sopravvenienze, in quanto le cause iscritte in questi dodici mesi sono state 1.795.876, contro le 1.653.004 nel periodo dal 1° luglio 2001 al 30 giugno 2002. Vi è stato quindi un incremento significativo delle cause nuove, che ha sostanzialmente compensato la relativa maggiore produttività del sistema, dimostrata dal maggior numero di cause esaurite, passate da 1.813.919 a 1.861.657, e di sentenze, salite da 1.020.038 a 1.095.417. 
Scomponendo questi dati, si delinea un quadro più preciso e più significativo, in cui le pendenze aumentano davanti al giudice di pace e si riducono invece sensibilmente davanti ai tribunali.

a.      Primo grado(segue): i processi davanti al giudice di pace

Davanti al giudice di pace le pendenze al 30 giugno 2003 erano di 759.094 processi, con un aumento, quindi, del 7,3% rispetto all'anno precedente (707.466 processi pendenti al 30 giugno 2002), che aveva registrato a sua volta un aumento del 10,4% rispetto al dato dell'anno prima. Analogo l'andamento delle sopravvenienze: nei dodici mesi tra il 1° luglio 2002 e il 30 giugno 2003, sono stati iscritti davanti ai giudici di pace 877.590 processi, con un aumento del 10,9% rispetto ai 791.099 iscritti nell'anno precedente. Anche il numero dei processi definiti dai giudici di pace è passato da 726.521 a 820.166, con un aumento del 12,9%. 

Nel 2003, come negli anni passati, si registra quindi – per il giudice di pace - una eccedenza delle sopravvenienze rispetto al numero dei processi esauriti. Il dato merita di essere segnalato in quanto determina l'aumento delle pendenze e crea, conseguentemente, il rischio di una progressiva dilatazione della durata dei processi minori, pur dovendosi tener presente che è rimasto fermo, intorno al 50%, l'indice di smaltimento dei procedimenti, rappresentato dalla percentuale dei processi esauriti in un anno rispetto al "carico" complessivo, costituito dalla somma delle pendenze esistenti all'inizio dei dodici mesi e delle sopravvenienze che si sono verificate in tale periodo. 

La durata media dei processi davanti ai giudici di pace è in progressivo, ma lieve, aumento. Essa comunque si mantiene in tempi di poco inferiori all'anno, il che corrisponde ad un terzo del tempo mediamente necessario per la definizione dei processi di primo grado davanti ai tribunali.

b.      Primo grado (segue): i processi di primo grado davanti ai tribunali 

Anche quest'anno i processi pendenti in primo grado davanti ai tribunali presentano una riduzione significativa (pari al 6,1%) rispetto all'anno precedente. I 2.415.739 procedimenti pendenti al 30 giugno 2002 sono infatti ulteriormente scesi a 2.268.236 al 30 giugno 2003, con una riduzione che si aggiunge a quelle che si erano verificate nei due anni precedenti, confermando così, da un lato, una positiva tendenza verso il progressivo smaltimento del rilevante arretrato da cui è gravata la giustizia civile e, dall'altro, l'effetto positivo dell'entrata a regime delle riforme processuali e ordinamentali della seconda metà degli anni novanta (riforma del processo civile, introduzione del giudice di pace, giudice unico di primo grado).

La riduzione delle pendenze si è infatti verificata nonostante che quest'anno vi sia stato un sensibile aumento del numero delle cause sopravvenute, passate dalle 850.847 del periodo 1° luglio 2001- 30 giugno 2002 alle 911.551 dell'ultimo periodo di riferimento.

E' di grande rilievo e suscita ottimismo per il futuro, in relazione alla possibilità di ridurre sensibilmente le pendenze arretrate, la circostanza che anche quest'anno (come già l'anno scorso) il numero dei processi definiti è stato notevolmente superiore a quello dei processi sopravvenutinel medesimo periodo: 1.033.430 contro 911.551.

Negativo è invece il dato concernente la riduzione del numero dei processi esauriti: 1.033.430 nel periodo dal 1° luglio 2002 al 30 giugno 2003, contro i 1.079.487 dell'anno precedente. A tale riguardo, dalle relazioni dei Procuratori generali emerge una corale denunzia delle difficoltà indotte dalla riduzione delle risorse, per quanto riguarda sia le strutture che il personale amministrativo. 

Il dato relativo alla durata media dei processi davanti ai tribunali registra segnali di riduzione. L'indice di durata è infatti sceso da 953 a 879 giorni, pari a due anni e cinque mesi. Dal momento che anche lo scorso anno si era registrata una riduzione della durata media dei processi rispetto all'anno precedente, può probabilmente parlarsi di una positiva inversione di tendenza.

E' necessario però precisare che il dato relativo alla durata media dei processi davanti al tribunale al quale si è fatto riferimento concerne la durata media di tutti i processi, quale che ne sia la modalità di definizione, e che la durata media dei processi definiti con sentenza è più lunga. In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, si ha che il 58% di essi si esaurisce in meno di tre anni (più precisamente: il 23% in un anno; il 20% in due anni; il 15% in tre anni). Nel restante 42% dei processi la sentenza arriva invece dopo tre anni dall'inizio del processo e precisamente entro il quarto anno dall'iscrizione nel 13,3% dei casi; entro il quinto anno nell'8,3% dei casi; entro il sesto anno per una percentuale pari al 5,3% e entro il settimo anno nell'1,7% dei casi. Vi è poi una quota pari al 13,4% del totale delle sentenze depositate nell'anno di riferimento che riguardava processi iscritti prima del 1996. La media complessiva che ne risulta è pari a quattro anni circa, ma è una media fortemente e negativamente influenzata dai casi assolutamente anomali, quali sono quelli da ultimo indicati, e che corrispondono sostanzialmente ai processi gestiti dalle sezioni stralcio. Resta comunque il fatto grave di un gran numero di processi, pari, come si è detto, al 42 per cento, che richiede più di tre anni – e a volte molto più di tre anni – per essere deciso con sentenza. E' a questi processi che deve essere prioritariamente dedicata una vigile e rigorosa azione di accertamento delle cause dei ritardi.

Dai dati risultanti dalle relazioni dei Procuratori generali, sembra potersi affermare che, nella maggior parte delle sedi, il contenzioso affidato alle "sezioni stralcio", composte dai giudici onorari aggregati, potrà essere esaurito entro il quinquennio previsto dalla legge. Le pendenze finali, per questi processi, sono passate da 503.234 del 1999 a 142.284 nel luglio 2003. Il numero dei processi definiti nell'anno da tali sezioni, peraltro, si riduce di anno in anno: sarebbe necessario vagliare attentamente le cause di questo non positivo fenomeno.

 

                             II.            I processi di appello

Le pendenze in grado di appello hanno registrato un lieve incremento, essendo passate dalle 247.268 cause del 30 giugno 2002 alle 265.386 del 30 giugno 2003. Questo dato va collegato principalmente allesopravvenienze, che sono ulteriormente e notevolmente aumentate: mentre nei dodici mesi dal 1° luglio 2001 al 30 giugno 2002 erano state di 104.608, negli ultimi dodici mesi sono salite a 121.391. A tale impennata delle sopravvenienze si è peraltro contrapposto un lieve aumento del numero dei processi esauriti, che quest'anno sono stati 104.416, rispetto ai 102.143 dell'anno scorso. E' probabile che il dato relativo alle pendenze trovi spiegazione nel ritardo con cui si è provveduto all'adeguamento delle piante organiche delle corti d'appello, dopo l'attribuzione alle stesse della cognizione in secondo grado delle controversie in materia di lavoro e previdenza. Il risultato complessivo è che anche quest'anno il numero dei processi esauriti è notevolmente inferiore a quello dei processi sopravvenuti, secondo una tendenza che si proietta pericolosamente nel futuro, creando le basi per sempre crescenti disfunzioni anche negli anni avvenire.

Quelli ora esposti sono dati complessivi, che riguardano cioè sia i giudizi davanti alle corti d'appello, che i processi di appello davanti ai tribunali, i quali sono ora competenti per l'appello contro le sentenze del giudice di pace, mentre continuano a trattare, fino ad esaurimento, le cause d'appello in materia di lavoro e previdenza iscritte prima della riforma del giudice unico. In alcune sedi la pendenza presso i tribunali di queste "vecchie" cause d'appello in materia di lavoro e previdenza presenta ancora numeri inspiegabilmente elevati, che richiederebbero di uno specifico accertamento, anche in relazione alla anomala durata dei relativi processi.

Scomponendo i dati relativi ai giudizi d'appello tra tribunali e corti d'appello, si nota che la pendenza di giudizi di secondo grado davanti ai tribunali si è ulteriormente ridotta a 50.343, rispetto ai 71.366 dell'anno precedente, mentre le sopravvenienze, nel medesimo arco di tempo sono aumentate da 7.287 a 9.203 e i processi esauriti sono scesi da 40.959 a 32.209. 

I processi d'appello davanti ai tribunali registrano una durata media elevatissima - pari a 1.073 giorni– anche se notevolmente diminuita rispetto a quella che era stata rilevata l'anno scorso. Questo dato appare influenzato dai tempi abnormi dei residui processi d'appello in materia di lavoro e previdenza. 

Molto minore è invece la durata dei processi di secondo grado davanti alle corti d'appello, pari a 774 giorni, anche se sensibilmente aumentata rispetto a quella dell'anno precedente, che ammontava a 725 giorni. 

Le corti d'appello, come si è detto, hanno visto aumentare in misura preoccupante il numero dei nuovi procedimenti (soprattutto nel periodo a cavallo tra il 1999 e il 2000), a causa della devoluzione ad esse dell'appello in materia di lavoro e di previdenza sociale. Nell'ultimo anno la sopravvenienza è stata di 112.188 nuovi processi, a fronte dei 97.321 che si erano registrati nei dodici mesi precedenti, con un aumento quindi del 15%. Di conseguenza è cresciuta anche la pendenza, pari a 215.043, corrispondente al doppio di quella di due anni fa. E' aumentato progressivamente – grazie agli interventi operati sugli organici - anche il numero dei processi esauriti annualmente dalle corti d'appello: 32.307 nel periodo 1999-2000, 47.183 nei dodici mesi successivi, 61.184 nell'anno 2001–2002 e 72.207 in quest'ultimo periodo. Ma questa capacità di esaurimento, pur aumentando, è rimasta sempre molto al di sotto delle sopravvenienze, e ciò ha determinato anche quest'anno un ulteriore rilevante aumento delle pendenze, rispetto a quello che avevo già registrato nella relazione dello scorso anno. Il dato segnala una situazione di grave rischio, alla quale è quanto mai urgente porre rimedio.


La perdurante crisi della giustizia civile

I dati sopra riassunti – ed in particolare quelli relativi ai giudizi di primo grado davanti al tribunale – mettono in luce miglioramenti significativi, ma ancora inadeguati rispetto alla gravità della crisi di efficienza che attanaglia il nostro sistema di giustizia civile. Una crisi che è avvertita quotidianamente dai cittadini, che ne soffrono le conseguenze, e dagli osservatori stranieri che, mentre apprezzano la nostra giurisdizione per il suo livello di professionalità e di indipendenza, guardano invece con preoccupazione all'abnorme lentezza dei processi nel nostro Paese.

La giustizia civile è ancora in crisi, specie per il fatto che non è in grado di affrontare il problema del progressivo aumento dei nuovi procedimenti, avendo scarsi margini di recupero in punto di produttività, soprattutto negli uffici giudiziari più importanti e non essendo perciò in grado di avviare, con l'attuale apparato normativo e organizzativo, un sia pur lento e graduale miglioramento dell'efficienza, che richiederebbe non solo di eliminare progressivamente il lavoro arretrato, destinato a produrre la durata eccessiva dei processi, ma anche di fronteggiare a pieno la sopravvenienza dei nuovi processi. 

Non è possibile, nel campo della giustizia civile, ipotizzare misure idonee a sgombrare il tavolo dal pesante arretrato che lo appesantisce, senza riforme e senza mutamenti, radicali, che tengano conto anche del principio della ragionevole durata del processo come requisito essenziale per la giustezza della decisione. 

Occorrono riforme che permettano di distinguere i procedimenti di più agevole soluzione (da avviare verso percorsi celeri e semplificati, di fast track come si qualificano nel mondo anglosassone) da quelli più complessi, per i quali la decisione dovrà essere più elaborata. Occorre una giustizia più pragmatica, meno sacrale. 

Sembra che non vi sia spazio, nel nostro Paese, per quella che è invece, da noi come altrove, la categoria maggioritaria di controversie: le controversie semplici, nelle quali il fatto non è contestato o è di facile accertamento e le questioni giuridiche sono già abbondantemente approfondite, oppure sono di immediata soluzione. 

Si potrebbe pensare a una sostanziale riduzione dei formalismi processuali e ad una altrettanto sostanziale riduzione degli scritti e dell'apparato ritualistico delle motivazioni. A tal fine sarebbe opportuno o un processo flessibile, che sappia adeguare le proprie forme alle reali necessità della controversia concreta, o l'introduzione di un processo semplificato (che però sostituisca i riti semplificati oggi esistenti e non si aggiunga ad essi: il nostro ordinamento è già sufficientemente aggravato da una anomala pluralità di riti). 

Ma occorre anche che gli operatori del diritto e soprattutto i giovani avvocati e i giovani magistrati, più aperti alle esigenze del mondo d'oggi, si abituino a scrivere in modo più essenziale e conciso, senza dilungarsi in inutili argomentazioni e dissertazioni abituandosi gli uni a proporre, e gli altri a decidere, questioni secche, facendo applicazione di principi e massime giurisprudenziali evitando di riproporre questioni già risolte. 

In questa direzione mi sembra infatti che stiano andando le riforme, come si dirà di qui a poco.

Per intanto abbiamo però il problema della giustizia presente, dei processi pendenti e arretrati. Ed è a causa di questi, principalmente, che si parla di crisi ed a causa dei ritardi che ne conseguono che ci vengono mosse le accuse, e poi pronunciate le condanne, in sede comunitaria. 

I problemi derivanti dalle decisioni della Corte di Strasburgo

La durata eccessiva dei processi civili ha costituito causa di numerose condanne dell'Italia da parte della Corte di Strasburgo, per violazione del diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, a una ragionevole durata del processo. Come è noto, a seguito di tali condanne, si è dato corso, con la c.d. legge Pinto, che prevede il riscontro della durata dei processi da parte del giudice italiano ed un sistema diretto ad ottenere il riconoscimento di un'equa riparazione del conseguente danno a carico dello Stato. 

I procedimenti promossi per ottenere tali indennizzi ammontano già a diverse migliaia: il numero di quelli pendenti al 30 giugno 2002 era di 3.762 e ad essi se ne sono aggiunti altri 3.966 nel corso dei dodici mesi successivi. Le corti d'appello in questo periodo hanno definito 5.242 procedimenti, per cui al 30 giugno 2003 restano pendenti 2.486 processi. Alla Corte di cassazione nel medesimo periodo sono pervenuti 1.222 ricorsi proposti contro decreti emessi in materia dalle corti di appello, e ne risultano definiti circa 200. La pendenza attuale davanti alla Corte di ricorsi in questa materia, e tenuto conto delle sopravvenienze ulteriori, risulta essere di 1.550 procedimenti.

Il problema più preoccupante è però che esiste anche un numero imprecisato di processi, già definiti o ancora pendenti, tra essi compresi quelli portati all'esame della Corte di cassazione (che avrà in futuro sempre più lunghi tempi per la decisione dei propri ricorsi), sulla cui eccessiva durata potrebbero essere proposte nuove istanze risarcitorie ai sensi della legge Pinto.

Questa massa di procedimenti rischia di causare una fortissima spesa pubblica, alla quale occorre ovviare al più presto. Ciò dovrebbe costituire uno stimolo pressante per lo Stato italiano a introdurre quanto prima – e almeno per il futuro - le necessarie riforme ordinamentali (normative e organizzative). 

Se siamo entrati in Europa non possiamo non tenere conto della giurisprudenza comunitaria. Stiamo oggi vivendo in pieno il travaglio giurisprudenziale derivato dal fatto che il rimedio normativo adottato (la suddetta legge Pinto), anziché risolverla, ha aggravato la situazione, determinando un ulteriore sovraccarico del sistema nazionale. C'è infatti il rischio di un ritorno dei ricorsi all'esame della Corte di Strasburgo, per effetto di una interpretazione che quella Corte ha dato circa i principi giurisprudenziali elaborati dalla Corte di cassazione in ordine ai criteri con i quali viene attribuita e determinata l'equa riparazione.

Va tenuto peraltro presente che il giudice nazionale è il primo tutore dei diritti dell'uomo, come esige il rapporto di sussidiarietà che sussiste tra la giurisdizione nazionale e quella di Strasburgo. Ed è proprio con riferimento al principio di sussidiarietà che la Corte europea, con la sua decisione del 19 maggio 2003, aveva dichiarato ricevibile un ricorso (c.d. caso Scordino), pur in carenza del previo esaurimento delle vie di ricorso interne. In tale occasione la Corte europea ha richiamato con fermezza l'attenzione delle autorità italiane sulla necessità che le somme liquidate dal giudice nazionale a titolo di equa soddisfazione siano in ragionevole rapporto con quelle liquidate in casi analoghi a Strasburgo.

Quale che sia il giudizio da dare sulla correttezza o meno della lettura che la Corte di Strasburgo ha dato dell'indirizzo giurisprudenziale italiano, non è certo auspicabile un braccio di ferro tra le due Corti e si può essere fondatamente fiduciosi che la Corte italiana saprà trovare la strada di un ragionevole e limpido chiarimento.

Si devono peraltro segnalare nuovi settori nei quali è possibile il formarsi di altri filoni di condanne risarcitorie. Oltre al settore delle controversie tributarie, per le quali si è in attesa di un intervento legislativo che valga ad escluderle dalla previsione della legge Pinto, ma che sarebbe di enorme rilevanza a causa del numero veramente imponente di procedimenti che hanno avuto durata irragionevole, va segnalata una recente decisione della Corte europea (in data 17 luglio 2003), con la quale si è deciso che l'irragionevole protrarsi della procedura fallimentare incide su una serie di diritti fondamentali spettanti al fallito (all'uso dei suoi beni, al rispetto della sua corrispondenza, alla libertà della sua circolazione, ecc.). 

Al fine di risultare in linea con le direttive e il sistema di valutazione del danno derivante dalla durata irragionevole dei processi suggerito dalla Corte di Strasburgo, che lo commisura solitamente per anno di ritardo, si dovrebbe pensare, almeno in termini orientativi, ad un giudizio di durata ragionevole, e perciò esente da censure, che non superi in media i diciotto mesi in primo grado, con punte estreme ed eccezionali mai superiori ai tre anni, e che in tre anni riesca mediamente ad esaurire tutti e tre i gradi di giurisdizione previsti, con punte di durata complessiva comunque non superiori a cinque anni. 
Ma al momento questo traguardo sembra ancora difficile da raggiungere.

omissis

ASPETTI ORGANIZZATIVI


Per superare, o almeno avviare a soluzione, la crisi della giustizia, sono necessarie riforme dell'attuale assetto organizzativo della magistratura, sia giudicante sia requirente. Questo anche al fine di coordinarci con gli ordinamenti degli altri Stati dell'Unione Europea, eliminando le nostre più vistose disfunzioni in tema di efficienza del servizio giustizia e di durata dei processi. 

Sono attualmente all'esame del Parlamento riforme incisive dell'ordinamento giudiziario, che per taluni snodi hanno suscitato forte apprensione tra i magistrati, sulle quali ovviamente mi astengo dal pronunciarmi, se non per rilevare che eventuali strutture gerarchiche di stampo burocratico non sarebbero coerenti con i principi costituzionali ed è assai dubbio che risultino adeguate allo scopo perseguito. 

Risultati concreti possono invece essere conseguiti con riforme mirate ad una più accentuata responsabilizzazione dei capi degli uffici e, nel settore penale, a una più chiara separazione delle funzioni, nel rispetto tuttavia dell'indipendenza dell'ordine giudiziario. 

Attualmente la gestione degli uffici giudiziari è rimessa allo spirito di iniziativa di coloro che li dirigono, i quali, dovendo rispettare l'autonomia giurisdizionale dei singoli magistrati che ne fanno parte, spesso si limitano a riferire passivamente – a posteriori – su dati statistici relativi a pendenze e produttività, e non, per così dire, in corso d'opera sulle misure organizzative da adottare, o adottate, in modo da consentire in ambito distrettuale, a Presidenti e Procuratori delle Corti di appello, raffronti con altre situazioni similari, suggerimenti e misure correttive. 

Questo Ufficio ha avviato già dallo scorso anno una ricognizione delle iniziative realizzate nei vari distretti in campo organizzativo, dirette al recupero di efficienza e alla contrazione dell'arretrato; nonché sui controlli previsti, e poi effettuati, circa il rispetto dei tempi ragionevoli di durata dei processi. Alcune risposte offrono indicazioni indubbiamente positive. A titolo di mera esemplificazione si possono ricordare, nel settore civile, i programmi di recupero, anticipazione di cause e taglio dei tempi morti, attuati dal tribunale di Roma, che ha conseguito un significativo accorciamento dei tempi di trattazione, ormai prossimi alla media generale indicata dalla Corte di Strasburgo. Nel settore penale, i risultati ottenuti a Torino, grazie al programma di smaltimento dei procedimenti più antichi e all'ampio impiego di risorse informatiche; l'istituzione a Palermo di unità operative composte da personale di segreteria della procura e di polizia giudiziaria, per la trattazione – sotto la supervisione del magistrato – di affari ripetitivi e di modesta gravità, secondo procedure standardizzate; la creazione di uffici-stralcio presso le procure di Bergamo e Bologna. 

Tuttavia, il quadro d'insieme che si ricava dalle risposte fornite dai Procuratori generali dei distretti per la ri-organizzazione degli uffici è quello di un impianto organizzativo generalmente poco flessibile e nel quale - in assenza di più specifici compiti di controllo - non esistono sistemi di vigilanza sulla durata dei processi, finalizzati a sviluppare nei magistrati la cultura della giustizia-servizio, da rendere in tempi brevi. Sono rari i progetti organici elaborati nella prospettiva di un (almeno parziale) ripianamento dell'arretrato e della progressiva ridefinizione dei tempi ordinari di trattazione, in termini coerenti con i principi sanciti dall'art. 111 della Costituzione. C'è ancora troppo fatalismo, troppa accettazione dell'esistente. Mi permetto perciò anche quest'anno di rinnovare ai Procuratori generali dei distretti la richiesta, auspicando che pongano l'accento, nelle loro relazioni del prossimo 17 gennaio, sulle iniziative che già oggi possono essere intraprese. 

La magistratura, con l'ausilio del suo organo di autogoverno, dovrà sempre più prendere coscienza della nuova cultura della giurisdizione, che comporta precisi compiti operativi, da portare avanti con la indispensabile collaborazione del Ministero della giustizia per quanto riguarda l'apprestamento dei mezzi – specie informatici – e delle risorse (che tuttavia al presente sembrano essere state invece ridotte). I programmi disoftware messi a punto in taluni uffici dovrebbero essere estesi a tutti gli uffici giudiziari, al fine di seguire l'andamento dei singoli processi, specie di quelli civili, nella fase istruttoria, in quella decisionale e poi in quella della esecuzione, ma anche di ottimizzare talune procedure speciali (fallimentari, societarie, di volontaria giurisdizione, ecc.). Sistemi analoghi vanno attuati per migliorare quelli già in funzione in molte procure e negli uffici g.i.p. Tutto ciò dovrebbe permettere ai magistrati preposti al controllo dei vari settori di intervenire per evitare irragionevoli rallentamenti ed agli stessi magistrati affidatari delle singole procedure di avere consapevolezza del problema, anche quando subentrano ad altro collega. 

E' indubbio che in molti casi non è possibile pretendere un impegno maggiore da parte di singoli magistrati, già fin troppo oberati; ma è pure sicuro che permangono casi, censurabili, di impegno inadeguato alla funzione. 

E' comunque necessaria una nuova prospettiva dell'organizzazione. Da chi è titolare di funzioni direttive o semi-direttive deve venire uno sforzo di analisi e di fantasia propositiva, che consenta di abbandonare l'atteggiamento di passiva rassegnazione alla situazione attuale. 

V'è necessità che in ogni ufficio si studi la situazione in rapporto alle specificità locali e si elaborino piani d'intervento che – restando intatte, ovviamente, le garanzie costituzionali di autonomia e di indipendenza, da cui l'attività giurisdizionale è assistita – tendano ad innalzare i livelli di produttività e di tempestività individuali e complessivi. Urge impostare il problema della eliminazione dell'arretrato, cioè di quei procedimenti che già hanno superato i tempi massimi di durata. Occorre poi abbandonare definitivamente i modelli di redazione delle sentenze eccessivamente articolate e prolisse: dannosi per l'economia complessiva del sistema, anche perché incrementano le impugnazioni sulle motivazioni. Né può farsi a meno di una razionale individuazione dei tempi massimi di trattazione, almeno per le procedure più frequenti, da perseguire pragmaticamente col massimo impegno. 

Occorre poi, naturalmente, una verifica dei risultati ottenuti (con tempestive segnalazioni – ove necessario – a fini disciplinari), ma è necessario in primis garantire l'impiego ottimale delle risorse strumentali e di personale, senza trascurare l'assimilazione di criteri di economicità di gestione. 

Gli interventi sul piano della programmazione, per quanto riguarda le procure, implicano altresì una nuova, più moderna ed attenta valorizzazione delle funzioni dirigenziali, sempre nel rispetto di criteri che assicurino certezza nell'applicazione del diritto ed effettività al principio di eguaglianza. Ciò anche al fine di evitare incomprensibili ed ingiuste diversità di atteggiamento, nei confronti di situazioni analoghe e di evitare che le scelte di precedenza collegate alle risorse degli uffici si tramutino in criteri di priorità che, di fatto, rendano l'azione penale non più obbligatoria. 

Il recupero dell'efficienza passa dunque anche per una rivisitazione del ruolo di indirizzo, di coordinamento e di c.d. "sorveglianza" che le norme ordinamentali assegnano ai magistrati dirigenti, come ha ricordato anche il Presidente della Repubblica nel già menzionato intervento al Consiglio Superiore della Magistratura dello scorso 29 ottobre. Particolarmente per i Presidenti di Corte d'appello e per i Procuratori generali distrettuali, ciò presuppone una particolare sensibilità per il momento organizzativo, cui dovrebbe accompagnarsi una nuova valorizzazione della loro posizione, in termini più attuali, specie per quanto concerne la più efficace gestione delle risorse, avendo tuttavia sempre come referente ultimo il Consiglio Superiore della Magistratura; al quale va riservato il compito di valutare tale gestione, come quella di tutti i capi degli uffici, in occasione delle progressioni di carriera o di domande volte ad ottenere altre funzioni. Ad essi, che dovrebbero essere vere figure di riferimento del nuovo apparato organizzativo nell'ambito dei singoli distretti di corte di appello, potrebbero essere assegnati i compiti suddetti, attuabili anche a mezzo di incontri periodici con i capi degli uffici circondariali, magari rimodulando - per quanto riguarda i compiti dei Procuratori generali distrettuali - la vigente disciplina dell'istituto della avocazione. Un'anticipazione di tali nuovi compiti dei capi dei distretti, si può rinvenire nella disciplina attuata, nel settore civile, con il d. lgs. n. 5 del 2003, relativo ai procedimenti in materia di diritto societario, che prevede un riscontro da parte del procuratore generale distrettuale dei dati relativi ai tempi di durata dei procedimenti in materia, per poi riferirne annualmente al Procuratore generale della Cassazione. 

L'eventuale temporaneità degli incarichi direttivi, con una rigorosa verifica quale presupposto per la possibile riconferma, sarebbe pienamente compatibile - credo - con il modello sopra tratteggiato; anzi, lo rafforzerebbe. 

Non ritengo sia invece possibile, dato il ruolo attuale assegnato alla Corte di cassazione, prevedere anche una supervisione da parte del Primo Presidente e del Procuratore generale della suprema Corte, rispettivamente nel settore giudicante e in quello requirente, su scala nazionale, salvo che non si voglia istituire una funzione di stimolo e di coordinamento generale sull'attività dei capi dei distretti. 

In sintesi, sembra oggi necessario introdurre, anche per la magistratura, la cultura della responsabilità, per quanto riguarda l'andamento e i risultati del servizio giudiziario, ed apprestare nel contempo un ordinamento del processo più agile ed essenziale, incidendo – come già si è detto – sulle regole e sul sistema delle impugnazioni, che oggi ne rendono ardua la gestione ed eccessiva la durata. 

In questo quadro operativo ben può essere inserita una più chiara separazione tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti, come io stesso già rilevai nella relazione del 2002, purché, tuttavia, sia conservata l'unitarietà della magistratura, per quanto riguarda l'accesso, la formazione e lo sviluppo di carriera. 

Occorre però sgombrare il terreno da quello che forse oggi comincia ad apparire come un falso problema, cioè la c.d. separazione delle carriere (che poi riguarda ovviamente il solo settore della giustizia penale). Questo perché la nostra Costituzione assicura in modo inequivoco l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario da ogni altro potere e perché tutti, compreso il potere politico, sono convinti e dichiarano che la magistratura è e deve restare indipendente, anche per quanto riguarda i pubblici ministeri. Alle accuse che, specie per il passato, vengono mosse circa abusi dovuti a una pretesa politicizzazione di certi settori della magistratura e ai timori che la classe forense formula circa il rischio di appiattimento dei giudici nei confronti dei pubblici ministeri (smentito nei fatti dai dati statistici, riportati nella tavola 12 allegata, che indicano una percentuale inferiore all'11% di annullamenti di ordinanze cautelari dei G.I.P. in sede di riesame), si può e si deve rispondere nel concreto – essendo inimmaginabile una dipendenza dei pubblici ministeri dal potere esecutivo – adottando soluzioni che garantiscano la terzietà e l'imparzialità per quanto riguarda l'attività dei giudici, ed il rigoroso rispetto dei diritti di libertà del cittadino per quanto riguarda l'attività dei pubblici ministeri. Si tratta di princìpi che sono già propri della cultura dei magistrati e che devono essere ora resi strutturali. 

Il passaggio dall'una all'altra funzione necessita tuttavia di una disciplina più rigorosa e puntuale, volta ad evitare (e il C.S.M. si è già mostrato sensibile sul punto) che il mutamento di ruolo processuale nella stessa sede possa incidere negativamente – anche nella percezione esterna – sulla credibilità della funzione e sull'immagine d'imparzialità. Va evitato, peraltro, che l'eccessiva estensione delle preclusioni mini l'effettiva comunanza culturale di tutti gli appartenenti alla magistratura. 

Separazione delle funzioni significa presa di coscienza della diversità dei compiti assegnati nel processo penale al p.m. e al giudice, i quali operano in un sano sistema binario di controlli reciproci, nel quale il giudice è chiamato a esercitare una attenta verifica sui risultati delle indagini e sulle richieste degli organi inquirenti, fornendo anche agli imputati e ai difensori la garanzia della sua effettiva imparzialità. 

Per attuare una proficua ed effettiva separazione delle funzioni, sarebbe utile forse pensare anche ad una più visibile distinzione degli uffici dei magistrati giudicanti da quelli dei magistrati del pubblico ministero. L'attuale assetto organizzativo già vede distinti Corti di appello e tribunali da Procure generali distrettuali e procure circondariali. Vede altresì, in forza dell'art. 104 della Costituzione, il Presidente e il Procuratore generale della Cassazione, in quanto membri di diritto del Consiglio superiore della magistratura, quali rappresentanti rispettivamente dei giudici e dei pubblici ministeri. 

Forse non è trascurabile, per allontanare l'idea di contiguità o accessorietà, l'opportunità di superare l'attuale denominazione delle procure, tutte istituite “presso” i rispettivi uffici giudicanti, mentre la Costituzione – seppure con riferimento, all'art. 104, al solo ufficio requirente di legittimità – parla di “procuratore generale della Corte di cassazione” (così come sarebbe corretto chiamare Procuratori distrettuali della Repubblica gli attuali Procuratori generali presso le Corti di appello). Andrebbe nel contempo meglio chiarita la posizione della Direzione nazionale antimafia, che opera sotto la sorveglianza della Procura generale della Cassazione senza farne parte organicamente e che ha rappresentato un modello utile di coordinamento non gerarchico e dall'esterno di attività investigative svolte da uffici inquirenti. 

Si tratta di mere premesse formali agli indispensabili adeguamenti normativi circa la ripartizione dei rispettivi compiti, finalizzati a dare vita ad un sistema più razionale di uffici giudiziari distinti per le funzioni, giudicanti o requirenti, loro affidate; e, al tempo stesso, ad un'organizzazione della giurisdizione per comparti territoriali, in grado di rispondere in modo più efficace e controllato all'esigenza di fondo oggi avvertita, che è quella di fornire alla collettività un servizio di giustizia moderno e responsabilizzato, il più possibile attrezzato rispetto alla (sempre crescente) domanda di giustizia. 

Per altro verso, non può comunque sottacersi il permanere di gravi carenze di dotazioni che si riverberano negativamente sull'efficienza del servizio. L'inadeguatezza quantitativa del personale amministrativo è il primo tra tali fattori di deficit, notevolmente poi accentuato dalla scarsa flessibilità d'impiego delle unità presenti e dall'assenza di incentivazioni al personale ad innovare metodi di lavoro e prassi operative così da aumentare la produttività. Taluno parla, opportunamente, di "burocratizzazione operativa", che determina un dispendio di energie altrimenti meglio utilizzabili nella gestione quotidiana del lavoro giudiziario, a tutti i livelli. I rapporti che pervengono dai distretti rimarcano la non ottimale distribuzione della forza-lavoro rispetto alle esigenze e alle priorità operative: ciò ha determinato il cristallizzarsi di attività, mentre una flessibile e oculata mobilità consentirebbe di adeguare le risorse operative alle esigenze di settori endemicamente più gravati, riequilibrando il rapporto di produttività di ciascun operatore. 
 

Omissis

CONSIDERAZIONI FINALI

Al termine di questa relazione, che ha esaminato i vari problemi della giustizia civile e di quella penale oltre che i più importanti ed attuali aspetti organizzativi, possono farsi alcune considerazioni conclusive. 

Talune riforme sono state realizzate, ma altre ancora sono necessarie, perché ogni istituzione, per vivere, deve continuamente rinnovarsi. La giustizia ha bisogno di essere seguita e aiutata a funzionare. 

La crisi del rapporto tra politica e giurisdizione ha caratterizzato profondamente questi ultimi anni. Se dovesse protrarsi, certamente aggraverebbe la crisi della giustizia. Se si contesta il ruolo istituzionale della magistratura, si negano la funzione e i valori della giurisdizione e, quindi, le fondamenta stesse dello stato democratico. 

E' giunto il momento, per il bene della collettività e delle istituzioni, di porre termine alle accuse e ai sospetti reciproci, alle polemiche e alle schermaglie. La magistratura sa di dovere operare, nel quadro di una più accentuata separazione delle funzioni e di una attenta riorganizzazione degli uffici giudiziari, rispettando rigorosamente i limiti tecnici della giurisdizione, senza farsi influenzare da contingenze, senza finalità moralizzatrici o di supplenza. I magistrati per primi intendono evitare commistioni di ruoli con la politica e comportamenti che possano indurre a dubitare della loro terzietà e sono impegnati, laddove è possibile, a migliorare l'efficienza del servizio che rendono alla collettività. 

La magistratura chiede però rispetto del suo ruolo istituzionale e delle prerogative riconosciute dalla Costituzione, cui si debbono accompagnare riforme non solo attinenti alla carriera, e in ogni caso non di stampo burocratico, ma volte a rendere possibile e proficuo il suo lavoro e più spedito il corso dei processi, per non essere poi ritenuta unica responsabile di lentezze e ritardi. Riforme coraggiose e idonee ad avviare il sistema giudiziario italiano verso gli standard europei. 

Occorre quindi, in sintesi finale, dare vita ad una giustizia moderna e funzionale, ad un processo - sia civile, sia penale - ispirato a regole essenziali, scandito da limiti di durata massima. Un processo che preveda un sistema rigoroso di impugnazioni, specie per quanto riguarda il ricorso alla Corte di cassazione, alla quale bisogna restituire il ruolo di corte suprema, chiamata a risolvere solo quesiti di legittimità ben precisati, in controversie di particolare rilevanza giuridica o economica. 
E' con questi intendimenti di operosità e nel clima di rinnovata fiducia nelle istituzioni, che Le chiedo, signor Primo Presidente, di dichiarare aperto l'anno giudiziario 2004.