Il Belgio

 

 

 


Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)
CASO ČONKA C. BELGIO

SENTENZA del 5 febbraio 2002  Ricorso n° 51564/99
espulsione collettiva di stranieri

 

·   Violazione de l’articolo 5 § 1 (diritto alla libertà ed alla sicurezza) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo,
·   non-violazione dell’articolo 5 § 2 (diritto di essere informati delle ragioni dell’arresto) ;
·   Violazione dell’articolo 5 § 4 (diritto di presentare un ricorso sulla legalità della detenzione) ; 
·   Violazione dell’articolo 4 del Protocollo n° 4 (divieto di espulsione collettiva di stranieri),
·   non-violazione dell’articolo 13 (diritto ad  un ricorso effettivo) combinato con  l’articolo 3 (divieto  di trattamenti inumani o degradanti);
.    Violazione dell’articolo 13 (diritto ad  un ricorso effettivo) combinato con  l’articolo 4 del Protocollo n° 4 (divieto di espulsione collettiva di stranieri).
·   Liquidazione di EURO 10.000 (diecimila) per danno morale , oltre ad EURO 9.000 (novemila) per spese legali .

TERZA  SEZIONE

Sentenza del 5 febbraio  2002
sul ricorso n° 51564/99
presentato da Čonka 
contro BELGIO

(traduzione non ufficiale del comunicato stampa a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)

1.  Principali fatti

 I ricorrenti Ján Čonka e Mária Čonková ed i  loro figli Nad’a Čonková e Nikola Čonková, sono  tutti cittadini slovacchi d’origine zingara.

Nel novembre 1998, essi abbandonarono la Slovacchia per il Belgio, dove  essi richiesero asilo politico  motivandolo per il fatto che erano stati più volte violentemente aggrediti dagli skinheads in Slovacchia. Il 18 giugno 1999, il Commissario generale per i rifugiati e gli apolidi confermò la decisione dell’Ufficio degli stranieri dichiarando irricevibile la loro domanda d'asilo e gli interessati ricevettero l’ordine di abbandonare il  territorio entro cinque giorni.  

Il 3 agosto 1999, i ricorrenti presentarono davanti al Consiglio di Stato dei ricorsi per far  annullare la decisione del 18 giugno 1999, unitamente ad un’istanza di sospensione ordinaria. Essi domandarono anche  il  beneficio del gratuito patrocinio.

Il 23 settembre 1999, il Consiglio di Stato rigettò le domande di gratuito patrocinio, per il motivo che esse non erano accompagnate  dal certificato di povertà richiesto ed invitò i ricorrenti a pagare i diritti entro quindici giorni dalla notifica.

Nel settembre 1999, la polizia della città di Gand convocò per il 1° ottobre molte dozzine di famiglie zingari slovacchi, tra cui quelle dei ricorrenti. La convocazione indicava che la convocazione  aveva per scopo il completamento del fascicolo relativo alla loro domanda d’asilo.

Al loro arrivo al commissariato, ai ricorrenti venne notificato  un nuovo ordine di abbandonare il territorio, unitamente alla decisione di accompagnamento alla frontiera slovacca e di privazione di libertà a tal fine. Nel corso  del loro arresto, era presente un interprete che conosceva la lingua slovacca .

Essi furono in seguito condotti, con altre famiglie di zingari, al centro di sicurezza di  transito di Steenokkerzeel, non lontano da Bruxelles. Il 5 ottobre 1999, essi furono condotti, con circa 70 altri  rifugiati d’origine zingara le cui domande d’asilo erano state parimenti rigettate, all’aeroporto militare di Melsbroek, dove furono imbarcati su un aereo con destinazione nella Slovacchia.

2.  Procedura e composizione della Corte

Il ricorso e stato presentato davanti  la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 4 ottobre 1999. Esso è stato dichiarato in parte ricevibile il 13 marzo 2001.

La sentenza e stata adottata da una camera di sette giudici composta da :

Jean-Paul Costa (Francese), presidente,
Willi Fuhrmann (Austriaco),
Pranas Kūris (Lituano),
Karel Jungwiert (Ceco),
Nicolas Bratza (Britannico),
Kristaq Traja (Albanese), giudici,
Jan Velears (Belga), giudice ad hoc,

e da Sally Dolle, cancelliere  di sezione.

3.  Riassunto della sentenza

Doglianze

I ricorrenti lamentavano in particolare, invocando gli articoli 5 e 13 della Convenzione e 4 del Protocollo n° 4, le condizioni del loro arresto e della loro espulsione verso la Slovacchia.

Decisione della Corte

Articolo 5 § 1

La Corte osserva che non è  certamente escluso  che la polizia possa legittimamente usare degli stratagemmi al fine, per esempio, di meglio sventare le attività criminali, per contro il comportamento dell’amministrazione che cerca di ottenere la fiducia di coloro che presentano le domande d’asilo, nella prospettiva di arrestarli, e poi di espellerli, non è al riparo della critica riguardo ai principi generali enunciati dalla Convenzione o connessi ad essa.

Ora a tal riguardo,  è d’uopo credere che se la redazione della convocazione in questione era « sventurata », essa non era il risultato di una qualunque inavvertenza, ma al contrario era voluta come tale, con lo scopo di stimolare il più grande numero dei destinatari della convocazione a darvi seguito. La Corte conclude che non è compatibile con l’articolo 5 che, nel quadro d’una operazione pianificata d’espulsione e con la preoccupazione di facilitarla o renderla efficace, l’amministrazione decide coscientemente di ingannare le persone, anche in  situazione illegale, sullo scopo di una convocazione, per meglio poterli privare della loro libertà. In conseguenza, vi è stata  infrazione all’articolo 5 § 1.

Articolo 5 § 2

La Corte ricorda che al loro arrivo al commissariato i ricorrenti sono stati informati delle ragioni del loro arresto e del ricorso disponibile. Un interprete che conosceva la lingua slovacca era anche presente. Anche se, di per sé sole, queste misure non erano sufficienti a porre gli interessati in grado di potere utilmente esercitare  certi ricorsi, le informazioni così fornite riempivano nondimeno le esigenze dell’articolo 5 § 2. In conseguenza, non vi è stata violazione di questa disposizione.

Articolo 5 § 4

La Corte rileva un certo numero di elementi che hanno senza alcun dubbio limitato  l’accessibilità del ricorso alla camera di consiglio. Si tratta segnatamente del fatto che le informazioni sui ricorsi disponibili figuravano in  piccoli caratteri, e in  una lingua che i ricorrenti non comprendevano, sul documento che  fu consegnato al loro arrivo al commissariato ; che per aiutare  le dozzine di famiglie di zingari presenti al commissariato a comprendere le comunicazioni orali e scritte che  loro erano fatte, vi era un solo interprete, che era presente al commissariato ma non è restato con esse al centro di sicurezza ; che in tali circostanze,  era senza dubbio difficile per i ricorrenti di sperare poter contattare un avvocato, con l’aiuto  di questo interprete, dopo il commissariato, allorché  al centro di sicurezza, i ricorrenti disponevano certamente della  possibilità di contatto telefonico con un avvocato, ma non potevano più fare appello ai servizi dell’interprete; che malgrado queste difficoltà, alcuna altra forma d’assistenza giuridica è stata  prevista dalle autorità, né  al commissariato, né al centro.

Per di più – e questo elemento appariva decisivo agli occhi  della Corte –, l’avvocato dei ricorrenti non è stato informato degli  avvenimenti  in questione e della situazione dei suoi clienti che il  venerdì 1° ottobre 1999 alle 22 h 30, ciò che rendeva vano ogni ricorso alla camera di consiglio, poiché rivolgendosi ad essa dal 4 ottobre in poi, il caso non avrebbe potuto essere discusso prima del 6 ottobre, considerato che i ricorrenti sono stati espulsi il 5 ottobre. In tal modo, il loro avvocato non ha potuto intentare un  ricorso davanti la camera di consiglio. In conseguenza, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 4.

Articolo 4 del Protocollo n° 4

La Corte osserva che le misure di detenzione e d’allontanamento in questione sono state adottate in esecuzione d’un ordine di abbandonare il territorio che era fondato unicamente sull’articolo 7, commi 1, 2° della legge sugli stranieri, senza altro riferimento alla situazione personale degli interessati che il fatto che il loro soggiorno in Belgio eccedeva i tre mesi. In particolare, il documento non faceva alcun riferimento alla domanda d’asilo dei ricorrenti né alle decisioni intervenute in materia. In queste condizioni, e considerato il grande numero di persone della stessa origine che hanno avuto lo stesso trattamento dei ricorrenti, la Corte reputa che il procedimento seguito non è tale da escludere ogni dubbio sul carattere collettivo dell’espulsione criticata.

Questi dubbi si trovano rafforzati da un insieme di circostanze quali il fatto  che prima dell’operazione in questione, le autorità politiche responsabili avevano annunciato delle operazioni di questo genere e dato delle istruzioni all’amministrazione competente in vista della loro realizzazione ; che tutti gli interessati sono stati convocati simultaneamente al commissariato ; che gli ordini di abbandonare il territorio e d’arresto che sono stati loro consegnati presentavano  una formulazione identica ; che era molto difficile per gli interessati di contattare un avvocato ; infine, che la procedura d’asilo non era  ancora terminata.

In breve, in alcun stadio del periodo che va dalla convocazione degli interessati al commissariato alla loro espulsione, la procedura seguita offriva delle garanzie sufficienti che  attestasse una presa in conto reale e differenziata della situazione individuale di ognuna delle persone interessate. In conclusione, vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n° 4.

Articolo 13

La Corte osserva che il Consiglio di Stato era chiamato ad  esaminare nel merito le doglianze dei ricorrenti nel quadro di un ricorso in annullamento presentato da essi. In previsione del tempo necessario per questo esame ed avuto riguardo al fatto che essi erano minacciati di espulsione, i ricorrenti hanno presentato  il loro ricorso in annullamento d’un ricorso in sospensione ordinaria, di cui il  Governo sottolinea pertanto il carattere inadeguato nelle circostanze della causa. Secondo il Governo, gli interessati avrebbero dovuto agire in sospensione d’estrema urgenza.

La Corte non può non rilevare, pertanto, che il ricorso in sospensione ordinaria fa parte dei ricorsi che, in base al documento contenente la decisione del Commissario generale del 18 giugno 1999, si offrivano ai ricorrenti per impugnarlo. Sapendo  che in base a questa decisione, gli interessati disponevano di cinque giorni soltanto per abbandonare il territorio nazionale, che il ricorso in sospensione ordinaria non è di per sé stesso sospensivo e che il Consiglio di Stato dispone di quarantacinque giorni per decidere su di un tale ricorso, la sola menzione di questo tra i ricorsi disponibili era, per lo meno, di natura tale da  creare la confusione nella mente dei ricorrenti.

Trattando del ricorso in sospensione d’estrema urgenza, che non è sospensivo. A tal riguardo, la Corte sottolinea che le esigenze dell’articolo 13,  come tutte le altre  disposizioni della Convenzione, sono nell’ambito della garanzia, e non del semplice buon proposito o dell’accomodamento pratico. Ora, sembra che l’amministrazione non è tenuta a soprassedere alla esecuzione della misura d’espulsione fin tanto che il procedimento  d’estrema urgenza è pendente, nemmeno durante un termine minimo ragionevole che consenta al Consiglio di Stato di pronunciarsi. Per di più, è su di lui che grava in pratica il compito di indagare sulle intenzioni dell’amministrazione quanto alle espulsioni previste e ad  agire in conseguenza, ma nulla sembra obbligarlo a farlo. Infine, è in virtù di semplici istruzioni interne che, con questo scopo, il cancelliere del Consiglio di Stato, su istruzioni dell’avvocato, prende contatto con l’amministrazione, senza che si possano conoscere le conseguenze d’una eventuale omissione in questo campo. In fin dei conti, il ricorrente non ha alcuna garanzia di vedere il Consiglio di Stato e l’amministrazione  conformarsi in tutti i  casi alla pratica abituale seguita in un simile caso, né a fortiori di vedere il Consiglio di Stato pronunciarsi, o anche riunirsi, prima della sua espulsione, o l’amministrazione rispettare un termine minimo ragionevole. Vi sono qui tanti elementi che rendono il trattamento del ricorso troppo aleatorio per poter soddisfare alle esigenze dell’articolo 13. In conclusione, i ricorrenti non disponevano d’un ricorso che assolveva alle condizioni dell’articolo 13 per fare valere la  loro doglianza sulla base  dell’articolo 4 del Protocollo n° 4. Di qui, vi è stata violazione dell’articolo 13.