Durata dei processi in italia

La lunghezza della durata dei processi in Italia condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

<<Tabella di valutazione del danno morale per la durata non ragionevole dei processi, secondo la recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo>>, elaborata dall’avv. Maurizio de Stefano.

 

· Per lunghi anni i giudici italiani hanno negato l’applicabilità diretta della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 4.11.1950 all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale, costringendo le vittime di potenziali ed eventuali violazioni alla stessa Convenzione a far ricorso (a decorrere dall’agosto 1973) alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, presso il Consiglio d’Europa (1).


· E’ vero che la quasi totalità di questi ricorsi individuali contro l’Italia aveva come oggetto la denuncia della lentezza dei processi davanti ai giudici nazionali (il termine non ragionevole della loro durata), e le migliaia di ricorsi e le migliaia di condanne del Governo Italiano da parte degli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa hanno costituito uno strumento politico eccezionale di denuncia, al fine di richiamare l’attenzione dell’Europa sulle disfunzioni della giustizia in Italia.


· La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a decorrere dal 1999 aveva constatato in numerose cause (vedere, per esempio, la sentenza del 28 luglio 1999, caso Bottazzi c. Italia, n° 34884/97), l’esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione risultante da un cumulo di trasgressioni all’esigenza del « termine ragionevole ». Non solo, ma stessa Corte allorquando successivamente ha constatato il ripetersi di tale trasgressione, ha ravvisato anche nel cumulo delle trasgressioni una circostanza aggravante della violazione dell’articolo 6 § 1 (sotto il profilo del termine non ragionevole della durata dei processi italiani).


· Dopo tali condanne il Governo italiano ha dovuto dimostrare al Consiglio d’Europa di voler rimediare in qualche modo a tale prassi illecita e di voler riformare il sistema giustizia.


· Nell’attesa, però, che le riforme strutturali della macchina della giustizia italiana andassero a regime (ma poco si è fatto con questo fine in Italia), i buoni propositi dello Stato italiano si possono ravvisare nella riforma dell’art. 111 della Costituzione, dove con la legge di revisione costituzionale n° 2 del 23 novembre 1999, il Parlamento italiano ha deciso d’inserire il principio dell’equo processo nella stessa Costituzione. L’articolo 111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione e nelle sue parti pertinenti, recita testualmente : « 1.  La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. 2.  Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. ».


· Non per accelerare il processo, ma solo al fine di rendere effettivo a livello interno il principio del risarcimento del danno derivante all’utente della giustizia a seguito della « durata non ragionevole », ormai iscritto nella Costituzione, il Parlamento ha successivamente deliberato, il 24 marzo 2001, la cosiddetta legge Pinto, n.89/2001, che ha previsto che la parte che lamenti la eccessiva durata dei processi davanti ai giudici italiani possa presentare in Italia un ricorso alla Corte d'appello per ottenere, a carico del Governo italiano, il risarcimento dei danni morali o patrimoniali conseguenti alla eccessiva durata del suo processo (2). 


· Questa legge prevede anche che, per quanto riguarda i ricorsi già presentati davanti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a Strasburgo ed aventi ad oggetto la eccessiva durata dei processi e che non siano ancora stati dichiarati <<ricevibili>> dalla stessa Corte Europea, il ricorrente deve (3) ripresentare lo stesso ricorso alla Corte d'Appello in Italia, entro il 18 aprile 2002 (4), allegando una fotocopia del ricorso e della documentazione già inviata alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a Strasburgo, precisando la data dell'avvenuta spedizione a Strasburgo. 
· La legge Pinto, n.89/2001 è molto imperfetta, specie sotto il profilo della mancata esenzione dagli oneri fiscali e tasse della procedura. Infatti, anche se nella prevalenza dei casi in cui i ricorsi vengono accolti a favore della vittima, la soccombenza alle spese sarà posta a carico del Governo italiano e si risolve in una mera partita di giro-conto, unitamente al pagamento del risarcimento del danno per la durata del processo oggetto della procedura di controllo, il semplice fatto dell’anticipazione delle spese, bolli e tasse di registro e del rischio della soccombenza nelle spese ed onorari in ipotesi di rigetto della domanda, costituisce un serio ostacolo nel ricorso delle persone meno abbienti, ancorché non totalmente indigenti .


· Sotto questo profilo, appare evidente l’inconfessato lo scopo della legge italiana di creare un ostacolo per scoraggiare le vittime di lungaggini processuali a chiedere il giusto risarcimento, ma va ricordato che il procedimento davanti alla Corte d’appello in Italia, previsto dalla legge Pinto, n.89/2001, costituisce una via obbligatoria al fine di poter successivamente adire la Corte Europea ai sensi dell’art. 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come è stato anche recentemente statuito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Brusco contro Italia, decisione del 06 settembre 2001 sulla ricevibilita’ del ricorso n° 69789/2001.


· Pertanto, la legge Pinto non ha sottratto alcuna delle garanzie di cui già godevano le vittime italiane in tema di lentezza dei processi, anzi ha introdotto uno strumento di ricorso nazionale che era già obbligatorio ai sensi dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Articolo 13 - <<Diritto ad un ricorso effettivo. Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali.>>


· Proprio in tema di lentezza dei processi in Italia, prima della legge Pinto, la Corte Europea aveva consentito la deroga alla regola generale dell’esaurimento delle vie di ricorso interne prevista dall’Articolo 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: <<- Condizioni di ricevibilità. 1.La Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, qual'è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva.>>


· Infatti, era noto che, prima della legge Pinto, non fosse necessario attendere la fine del processo davanti ai giudici nazionali, per poter inoltrare il ricorso alla Corte Europea, ma soltanto perché difettava uno strumento interno effettivo per denunciare la lentezza dei processi in Italia.


· Pertanto, la legge Pinto n.89/2001, anche se aveva tra gli scopi immediati quello di riportare in Italia l’esame di questi ricorsi già pendenti alla Corte Europea, non impedisce che, dopo il vaglio della Corte d’appello italiana e della Corte di Cassazione in sede di impugnazione, si possa nuovamente tornare davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo.


· Questa ipotesi è molto probabile, viste le prime decisioni delle Corti d’appello italiane chiamate ad applicare la legge Pinto n.89/2001, che dimostrano la totale “disinformazione” dei giudici italiani circa le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sia sull’an debeatur, che sul quantum debeatur nella fattispecie della condanna del Governo italiano al risarcimento dei danni per un processo non ragionevole, quanto alla sua durata.


· Infatti, ancorché questa nuova legge Pinto preveda che la Corte d'Appello valuti il danno conseguente alla eccessiva durata dei processi ai sensi dell'art.2056 codice civile italiano , il ricorrente deve invocare i criteri enunciati in subiecta materia nella consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a cui anche i giudici italiani sono vincolati. In difetto, come si è detto, è sempre possibile un ulteriore e successivo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo , a Strasburgo (entro i sei mesi successivi alla sentenza della Corte di Cassazione) per lamentare l'inadeguatezza del risarcimento ottenuto oppure il mancato pagamento del risarcimento da parte del Governo italiano.


· Inoltre, anche se per il momento la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non dovrà più emettere sentenze di condanna per la lentezza dei processi in Italia ed anche se per il futuro saranno limitate le impugnazioni dei provvedimenti dei giudici italiani davanti alla stessa Corte Europea, non verranno meno al riguardo l’attenzione ed il controllo politico del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nei confronti del Governo italiano (ai sensi degli articoli 46, 52 e 54 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).


· Nelle finalità della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per il suo carattere di sussidiarietà, ha funzione di controllo circa le violazioni compiute dagli Stati ed a cui i giudici nazionali non abbiano potuto porre rimedio.


· Con riferimento ai criteri enunciati in subiecta materia nella consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a cui anche i giudici italiani, lo si ripete ancora una volta, sono vincolati, occorre dare agli avvocati ed ai giudici gli strumenti di lettura e di interpretazione di siffatta giurisprudenza.


· La presente pubblicazione della <<Tabella di valutazione del danno morale per la durata non ragionevole dei processi, secondo la recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo>>, congiuntamente alla lettura delle sentenze nel loro testo integrale dimostrano alcuni principi fondamentali.


· Innanzitutto si precisa che la Tabella, quivi pubblicata, raccoglie tutte le sentenze emesse nei confronti dell’Italia nel periodo di diciotto mesi, compreso dal luglio 2000 al dicembre 2001, per un totale di cinquecento quarantuno sentenze, tutte mirate alla durata dei processi.


· Tra queste ve ne sono cinquantacinque in cui la Corte ha cancellato la causa dal ruolo per intervenuta conciliazione tra la vittima ed il Governo italiano che, riconoscendo la violazione del termine ragionevole, ha liquidato alla vittima un importo prima di rischiare la condanna della Corte.


· Delle residue quattrocentottantasei sentenze, per solo quattro casi vi è stato il rigetto della domanda di risarcimento. Delle residue quattrocento ottantadue sentenze, per solo quindici casi, pur essendovi stato l’accoglimento della domanda sull’an debeatur, vi è stato il rigetto sul quantum debeatur,  per la mancata o tardiva presentazione della richiesta di condanna al pagamento di somme. Si tratta di casi dovuti alla scarsa dimestichezza del ricorrente o del suo avvocato con la procedura europea.


· In tutte le altre quattrocentosessantasette sentenze il Governo italiano è stato condannato a pagare alla singola vittima ricorrente somme variabili a titolo di equa soddisfazione. Un’altra notazione è possibile, ben trecentosessanta casi di condanna riguardano processi con un solo grado di giudizio


· Per una lettura ragionata della Tabella, quivi pubblicata, devono escludersi sette casi totalmente anomali, per difetto o per eccesso (vi è anche un caso da duecentomila lire, un caso da duemila EURO, un caso da lire duemilioni, un caso da tre milioni ed un caso da quattromilioni, come pure vi è un caso da lire centocinquantamilioni ed un caso da centocinque milioni di lire).


· Ma per tutte le altre quattrocentosessanta sentenze, le condanne del Governo italiano a favore di ogni singola vittima, sono variabili da un minimo di lire cinquemilioni fino ad un massimo di lire novantasette milioni, sempre e soltanto per il danno morale.


· Rarissimi sono i casi in cui la Corte Europea ha liquidato anche il danno materiale, di talché si pone evidente una prima conclusione: la Corte di Strasburgo ravvisa sempre la lesione del danno morale a fronte della violazione circa la durata del termine ragionevole del processo italiano.


· Per tale danno morale, nel contesto italiano della prassi illecita già accertata dalla Corte Europea, non vi è necessità di alcuna prova o allegazione specifica del ricorrente, essendo connaturata la sofferenza, l’ansia per l’attesa di una decisione del giudice nazionale, sia da parte dell’attore che del convenuto, sia da parte dell’imputato che della parte civile nel processo penale, sia per il vincitore che per il soccombente.


· Il principio che abbiamo enunciato, cioè che per la sussistenza della lesione del danno morale non sia necessaria alcuna allegazione o prova da parte della vittima, anche davanti alla Corte d’appello investita del caso dalla legge Pinto n.89/2001, si evince dalla lettura della motivazione delle quattrocentosessanta sentenze di condanna del Governo italiano a favore di ogni singola vittima emesse dalla Corte Europea che recano TUTTE la seguente testuale motivazione, sicuramente apodittica: << La ricorrente chiede XXY= di lire italiane (ITL) a titolo di danno materiale e XXYZZ di lire italiane( ITL) per i danni morali subiti. La Corte non ravvisa il nesso di causalità tra la violazione constatata e la richiesta di danno materiale e rigetta questa domanda. Per contro, la Corte considera che ci siano i presupposti per concedere alla ricorrente XYZ = (ITL) a titolo di danno morale. >>.


· Come si può arguire, soltanto per il danno materiale la Corte Europea esige il nesso di causalità, ma per il danno morale è la Corte che decide secondo equità e senza enunciare neppure i suoi parametri e criteri. Questi ultimi, potranno desumersi dalla lettura della Tabella quivi pubblicata, laddove il numero degli anni di durata va ragguagliato al numero dei gradi del processo, essendo intuibile che un processo di primo grado non possa durare quanto quello che si è svolto per tre o quattro gradi di giudizio.


· La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha mediamente valutato il danno non patrimoniale derivante dalla lentezza della procedura, nella misura da tre a quattro milioni per ogni anno, successivo a quello entro il quale la procedura si sarebbe dovuta concludere, fissando la durata ragionevole normale e media di un processo di primo grado in tre anni e di un processo d’appello o di cassazione, rispettivamente in un anno. La Corte di Strasburgo, inoltre ha determinato con maggiore severità il valore di ogni singolo anno, in ragione della progressione temporale del ritardo ed ha modulato tale durata media, ovviamente, in ragione dell’oggetto della lite e della natura dei diritti in contestazione. Ad esempio la soglia minima di tre anni e tre mesi per un grado di giudizio, in materia di previdenza, è stata ritenuta sufficiente per liquidare al sig. Ciccardi c. Italia (n° 46521/99 sentenza del 16.11.2000) la somma di lire undicimilioni, laddove un periodo di tre anni sette mesi per un grado di giudizio (caso Gemignani n. 47772/99 del 06.12.2001), è stato ritenuto compatibile con la Convenzione.


· Superata la soglia dei quattro anni di durata di un processo civile, per un solo grado di giudizio, in nessun caso, delle quattrocentosessanta sentenze di condanna quivi esaminate, gli importi a favore di ogni singola vittima, sono state inferiori a lire cinquemilioni oppure a tremila EURO.


· La Tabella quivi pubblicata è stata <<ordinata>> in base alla durata decrescente del processo nazionale, per anni e per mesi in modo da offrire un primo approccio comparativo con le fattispecie all’esame degli avocati e dei giudici italiani. All’interno di tale classificazione, è possibile poi valutare sia il numero dei gradi e l’oggetto (molto approssimativo) della lite; all’uopo si precisa che nella categoria <civile>> sono state comprese anche le cause proposte davanti ai giudici amministrativi o alla Corte dei Conti. Solo per le cause di sfratto, al danno morale è stato aggiunto il danno materiale, per tutte gli altri casi l’importo liquidato riguarda il solo danno morale; non vi è menzione, infine, delle spese legali liquidate dalla Corte Europea per la procedura internazionale.


· Per una più dettagliata verifica dell’oggetto della lite (la parte in fatto è variegata, ma quella in diritto è sempre identica), è necessario leggere la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel testo integrale reperibile nel sito INTERNET http://www.echr.coe.int/ alla cartella HUDOC, con l’avvertenza che le dette sentenze sono pubblicate solo in francese o in inglese (lingue ufficiali del Consiglio d’Europa). Tale barriera linguistica spiega, ma non giustifica la “disinformazione” degli avvocati e dei giudici italiani in subiecta materia.


· Si segnala, infine, che nel sito INTERNET della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo http://www.dirittiuomo.it / sono pubblicate in lingua italiana alcune delle più significative sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 
  
Maurizio de Stefano 
(avvocato in Roma) 
 

NOTA (1) de STEFANO Maurizio, La diretta applicabilità dei diritti umani nell'ordinamento giuridico italiano, (in "il fisco" n. 12 del 26 marzo 2001, pag. 4689/4694).


NOTA (2) All’uopo vedi le norme di procedura ed i formulari di ricorso, nel sito INTERNET della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo http://www.dirittiuomo.it /


NOTA (3) La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sua decisione del 6 settembre 2001 (caso Brusco contro Italia) e quella dell’ 11 ottobre 2001 (caso Di Cola contro Italia), ha confermato l’obbligo e quindi la perentorietà del termine per la riassunzione.


NOTA (4) Termine così prorogato dal Decreto Legge n. 370 del 12.10.2001, convertito in legge 14.12.2001, n. 432

      

Tabella Correlata:

de STEFANO Maurizio, <<Tabella di valutazione del danno morale per la durata non ragionevole dei processi, secondo la recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, elaborata dall'avv. Maurizio de Stefano>> (in "Impresa" n. 12 del 31 dicembre  2001, pag. 1903/1927) (ETI / DE AGOSTINI PROFESSIONALE) .