Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Non ammissibilità dell’ esame nel merito della violazione allegata dai ricorrenti circa la non equità del processo, qualificato dalla Corte europea di natura civile, anche se riguardante le misure di prevenzione patrimoniali a carico di persone sospettate di appartenere ad organizzazioni criminali di stampo mafioso. |
La decisione così motiva (traduzione non ufficiale a cura dell’ Avv. Paola Ripa) PRIMA SEZIONE del ricorso n° 52439/99 presentato da Lorenzo RIELA ed altri La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi il 4 settembre 2001 in una camera composta da E. Palm, presidente, L. Ferrari Bravo, Gaukur Jörundsson, R. Türmen, B.Zupančič, T. Panţîru, V. Zagrebelsky, giudici e dal Sig. O’Boyle, cancelliere di sezione, Visto il ricorso suddetto presentato il 22 giugno 1999 e registrato l’ 8 novembre 1999, Dopo averla deliberata, rende la seguente decisione: IN FATTO I ricorrenti sono nove cittadini italiani i cui nomi e le date di nascita sono indicati nella lista in allegato. Essi risiedono a Misterbianco (Catania) e sono rappresentati davanti la Corte da M. Del Re, avvocato a Roma. A. Le circostanze della fattispecieI fatti della causa, come sono stati esposti dai ricorrenti, possono sintetizzarsi nei seguenti termini. A causa dei sospetti che pesavano sui primi quattro ricorrenti e che suggerivano l’idea che gli stessi appartenessero ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso, la Procura della Repubblica di Catania iniziò contro costoro un procedimento in vista dell’applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge n. 1423 del 27 dicembre 1956 e dalla legge n. 575 del 31 maggio 1965, come modificata dalla legge n. 646 del 13 settembre 1982. Con un’ordinanza del 20 dicembre 1995, il tribunale di Catania decise di sottoporre i primi due ricorrenti alla misura della libertà vigilata, imponendo nel frattempo agli stessi l’obbligo di soggiorno nel comune di Misterbianco per una durata di tre anni. Il tribunale rigettò la domanda della Procura d’applicare le misure di prevenzione personali a carico della terza e della quarta ricorrente. Il tribunale ordinò, inoltre, la confisca di numerosi beni appartenenti ai ricorrenti, in particolare dei terreni, degli immobili, delle macchine, così come delle quote di alcune società commerciali, e ciò in applicazione dell’articolo 2 ter, terzo comma, della legge n. 575 del 1965. Il tribunale sottolineò dapprima che la pericolosità sociale dei primi due ricorrenti doveva essere ritenuta sulla base di fatti precisi e dei sospetti obiettivamente giustificati, avendo riguardo in particolare al modo di vivere ed al casellario giudiziale delle persone interessate, così come agli atti di alcuni procedimenti penali. Orbene, molti indizi inducevano a credere che i primi due ricorrenti facevano parte di un’organizzazione criminale radicata in Sicilia, la cui l’evoluzione aveva potuto essere stabilita grazie alle dichiarazioni d’un mafioso pentito, M.S. Il tribunale si basava in particolare sui seguenti elementi: -M.S. aveva da tempo indicato il primo ricorrente come consigliere particolare di un capo di un clan mafioso. Questa circostanza, peraltro, era stata confermata dagli stessi interessati; -il primo ricorrente, che era formalmente un modesto impiegato del comune, era proprietario di numerosi immobili e veicoli, che utilizzava per esercitare un’attività a scopo di lucro nel settore dei trasporti; -una lettera anonima ritrovata dalla polizia accusava il primo ricorrente di essere un traditore e di stare per organizzare lo sterminio di un’intera famiglia mafiosa; -un altro pentito, M.P., aveva dichiarato che il primo ricorrente rivestiva un ruolo importante all’interno della mafia di Misterbianco; -i primi due ricorrenti erano stati condannati in primo grado per favoreggiamento personale, avendo accolto nella loro casa un mafioso ricercato dalla polizia; -il secondo ricorrente, che era stato incarcerato per riciclaggio di denaro e frequentava un ambiente mafioso, era il vero alter ego del primo ricorrente, e gestiva le attività economiche della famiglia Riela; -i primi due ricorrenti, dopo aver cominciato le loro attività commerciali senza disporre di alcun capitale di partenza, si erano enormemente arricchiti nel giro di circa dieci anni, e ciò, secondo lo stesso perito da loro scelto, era un fatto del tutto straordinario; -secondo il perito nominato d’ufficio, non c’era nessun rapporto ragionevole di proporzionalità fra il patrimonio della famiglia Riela e le legali risorse finanziarie di questa; -l’attività economica degli interessati era dello stesso tipo di quelle normalmente gestite dalla mafia, che se ne serviva per riciclare il denaro ed utilizzava la sua forza d’intimidazione per creare una situazione di monopolio. Quanto alla terza e quarta ricorrente, nessun elemento dimostrava che quest’ultime facevano parte di un’associazione criminale. Peraltro, il semplice fatto d’appartenere ad una famiglia di cui certi membri erano mafiosi non giustificava, di per sé, l’adozione di misure di prevenzione personali. Il tribunale considerò inoltre che i beni di cui i primi due ricorrenti disponevano erano il profitto di attività illecite od il loro reimpiego. Era vero che una parte delle attività economiche degli interessati era formalmente gestita dagli altri ricorrenti, membri della famiglia Riela, e che alcuni beni erano stati loro trasmessi; tuttavia, risultava dalla relazione del perito nominato dall’ufficio che le attività in questione erano in realtà una sola impresa diretta dai primi due ricorrenti, all’interno della quale non esisteva nessuna reale separazione dei ruoli e delle funzioni. I primi tre ricorrenti e la quinta e la settima ricorrente proposero appello contro l’ordinanza del 20 dicembre 1995. Con un’ordinanza del 19 marzo 1998, la corte d’appello di Catania confermò la decisione impugnata. Essa osservò che il tribunale aveva a giusto titolo valutato che i primi due ricorrenti erano persone socialmente pericolose fondandosi su fatti precisi, alcuni dei quali non erano stati contestati dagli interessati. Peraltro, la perizia compiuta nel corso della procedura di primo grado, le cui conclusioni erano logiche e credibili, aveva accuratamente ricostruito le attività economiche della famiglia Riela, confrontando, per ogni periodo, i profitti realizzati con le risorse finanziarie disponibili. Risultava da questa analisi che il primo ricorrente aveva acquisito un considerevole patrimonio senza disporre, dall’inizio, di alcun capitale legittimo per fare fronte alle spese della messa in opera di un’impresa di trasporti. Era dunque ragionevole credere che il patrimonio in questione era stato creato e consolidato grazie ai frutti di attività illecite od al loro reimpiego. I primi tre ricorrenti, così come la quinta, la sesta e la settima ricorrente presentarono ricorso in cassazione. Essi eccepivano, in particolare, la nullità della decisione impugnata, per il motivo che l’apertura della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione non era stata comunicata né all’ottava ricorrente, che aveva gestito l’impresa familiare a partire dal 1989, né alla sesta ricorrente. Essi precisarono inoltre che l’ordinanza del 19 marzo 1998 indicava, nella sua intestazione, solo i nomi dei signori Lorenzo, Francesco, Filippo e Giovanni Riela e delle signore Francesca Cannone e Giovanna Consoli, quando invece il dispositivo menzionava anche i signori Luigi e Rosario Riela. Secondo i ricorrenti, questa circostanza costituiva una incertezza sostanziale circa i destinatari della decisione impugnata. La procedura davanti la Corte di Cassazione si svolse in camera di consiglio. Gli avvocati dei ricorrenti non furono ammessi a partecipare all’udienza. Con una sentenza del 22 marzo 1999, il cui il testo fu depositato in cancelleria il 6 luglio 1999, la Corte di Cassazione, considerando che la Corte d’appello di Catania aveva motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi, respinse il ricorso. Essa osservava in particolare che una volta dimostrato ragionevolmente che una persona faceva parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso, la sua pericolosità sociale doveva essere presunta. Quanto all’eccezione di nullità dei ricorrenti, la Corte di Cassazione rilevò che questa era stata sollevata solo nei nuovi motivi di gravame, e quindi tardivamente. Peraltro, ai sensi di una giurisprudenza consolidata, la non comunicazione dell’apertura del procedimento a dei terzi interessati non comportava la nullità delle decisioni adottate nel corso di quello, costituendo al contrario una semplice irregolarità. I terzi, in questione, avevano in ogni caso la possibilità di presentare le loro difese opponendosi all’esecuzione della misura di prevenzione patrimoniale che colpiva i loro beni. Per ciò che concerne la non indicazione, nell’intestazione dell’ordinanza del 19 marzo 1998, dei nomi dei signori Luigi e Rosario Riela, la Corte di cassazione osservò che questo errore materiale non intaccava menomamente la validità della decisione in questione, la motivazione e il dispositivo di questa identificava chiaramente i nomi dei proprietari dei beni confiscati. In seguito alla sentenza della Corte di cassazione del 22 marzo 1999, la confisca dei beni dei ricorrenti divenne definitiva. Tuttavia, secondo le informazioni fornite dagli interessati nel giugno 2001, questa misura di prevenzione non era, in quella data, ancora stata eseguita. B. Il diritto interno pertinente Conformemente all’articolo 2 ter della legge n. 575 del 31 maggio 1965, nel corso della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di una persona sospettata d’appartenere a delle associazioni di stampo mafioso, “il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Con l’applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia dimostrata la legittima provenienza.(…) Il sequestro è revocato dal tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza.” DOGLIANZE1. I ricorrenti considerano che la misura di prevenzione della confisca ha violato il loro diritto al rispetto dei loro beni, come garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1. 2. Invocando l’articolo 6 §§ 1, 2 e 3 della Convenzione, i ricorrenti lamentano la non equità della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione. IN DIRITTO 1. I ricorrenti considerano che la misura di prevenzione della confisca ha violato il loro diritto al rispetto dei beni, come garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1. Questa disposizione così sancisce: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende” I ricorrenti osservano che la misura in questione ha colpito un insieme di beni differenti e precisano che essa costituisce una sanzione indeterminata ed eccessiva. La Corte constata che la confisca ha costituito senza alcun dubbio un’ingerenza nel godimento del diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (vedere Rocco Arcuri e tre altri c. Italia, ricorso n. 52024/99, decisione della Corte (seconda sezione) del 5 luglio 2001, non pubblicata; M. c. Italia, ricorso n. 12386/86, decisione della Commissione del 15 aprile 1991, Decisioni e Rapporti (DR) 70, pp. 59, 78). Essa osserva che la confisca ha colpito dei beni di cui i tribunali hanno constatato l’origine illegale ed ha lo scopo di evitare che i primi due ricorrenti, che, secondo i giudici italiani, potevano direttamente o indirettamente disporne, possano utilizzarli per realizzare ulteriormente dei benefici a loro profitto od a profitto dell’associazione a delinquere alla quale essi sono sospettati di appartenere, e ciò a pregiudizio della collettività. Così, anche se la misura in questione ha comportato una privazione della proprietà, quest’ultima rientra in una regolamentazione dell’uso dei beni ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n.1, che lascia agli Stati il diritto di adottare “le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale” (sentenze Agosi c. Regno Unito del 24 ottobre 1986, serie A n.108, p.17, § 51 e seguenti; Handyside c. Regno Unito del 7 dicembre 1976, serie A n. 24 , pagine 29 e 30, §§ 62-63). Per quel che concerne il rispetto delle condizioni del secondo comma, la Corte constata di primo acchito che la confisca di beni dei ricorrenti è stata ordinata in modo conforme all’articolo 2 ter della legge del 1965. Si tratta dunque di un’ingerenza prevista dalla legge. La Corte constata, poi, che la confisca tende ad impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui la provenienza legittima non è ancora stata dimostrata. Essa considera quindi che l’ingerenza che ne consegue mira ad uno scopo che corrisponde all’interesse generale (sentenza Raimondo c. Italia del 22 febbraio 1994, serie A n. 281-A, p.17, § 30; decisione della Commissione nella causa M. c. Italia, già citata, pp. 59 e 79). Resta nondimeno da verificare se questa ingerenza è proporzionata allo scopo legittimo perseguito. A questo proposito, la Corte sottolinea che la misura in contestazione rientra nel quadro di una politica criminale e considera che, nell’attuazione di tale politica, il legislatore deve godere di un ampio margine di discrezionalità per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema d’interesse pubblico che richiede una regolamentazione sia sulla scelta delle modalità d’applicazione di quest’ultima. Essa osserva peraltro che il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, delle proporzioni molto preoccupanti. I profitti smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui l’esistenza richiama in causa il primato del diritto nello Stato. Così, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, particolarmente la confisca in contestazione, possono apparire come indispensabili per lottare efficacemente contro le predette associazioni (sentenza Raimondo, già citata, p. 17 § 30; decisione della Corte nella causa Arcuri, già citata). Di questo fatto, la Corte non saprebbe disconoscere le circostanze specifiche che hanno guidato l’azione del legislatore italiano. Incombe ad esso in ogni caso di assicurarsi che i diritti garantiti dalla Convenzione siano, in ogni caso, rispettati. La Corte constata che nel caso di specie l’articolo 2 ter della legge del 1965 stabilisce, in presenza di “indizi sufficienti”, una presunzione che i beni della persona sospettata d’appartenere ad un’associazione a delinquere costituiscono il profitto d’attività illecite o del loro reimpiego. Ogni sistema giuridico conosce delle presunzioni di fatto o di diritto. La Convenzione non vi pone evidentemente un ostacolo in via di principio. Il diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni implica, tuttavia, l’esistenza di una garanzia giurisdizionale effettiva. Pertanto, la Corte deve ricercare se il procedimento che si è svolto davanti le giurisdizioni italiane offriva ai ricorrenti, tenuto conto della gravità della misura applicabile, un’occasione adeguata di esporre la loro contestazione alle autorità competenti ( decisione della Corte nella causa Arcuri, già citata, e, mutatis mutandis, sentenza Agosi, già citata, p. 18, § 55). A questo riguardo, la Corte constata che la procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione si è svolta in contraddittorio davanti a tre giurisdizioni successive – tribunale, corte d’appello e Corte di cassazione. In particolare , i ricorrenti hanno avuto la possibilità, attraverso l’attività difensiva dell’avvocato da loro scelto, di sollevare le eccezioni e di presentare i mezzi di prova che essi hanno considerato necessari per salvaguardare i loro interessi, ciò dimostra che i diritti della difesa sono stati rispettati. La Corte osserva inoltre che le giurisdizioni italiane non potevano fondarsi su dei semplici sospetti. Esse dovevano stabilire e valutare obiettivamente i fatti esposti dalle parti e dal fascicolo nulla permette di credere che esse avessero valutato in modo arbitrario gli elementi che le sono stati sottoposti. Anzi al contrario, i giudici italiani si sono fondati sulle informazioni raccolte a carico dei primi due ricorrenti, da dove emergeva che questi erano affiliati ad un’associazione di stampo mafioso radicata in Sicilia e disponevano di risorse finanziarie sproporzionate rispetto alle loro entrate. I tribunali nazionali hanno inoltre accuratamente analizzato la situazione finanziaria degli altri ricorrenti e la natura delle loro relazioni con i primi due ricorrenti ed hanno concluso che tutti i beni confiscati non potevano che essere stati acquistati grazie al reimpiego di profitti illeciti dei signori Lorenzo e Francesco, ed erano de facto gestiti da quest’ultimi. In queste circostanze, tenuto conto del margine di valutazione che appartiene agli Stati quando regolamentano “l’uso dei beni conforme all’interesse generale”, in particolare nel quadro di una politica criminale mirante a combattere il fenomeno della grande criminalità, la Corte conclude che l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni non è sproporzionata in rapporto allo scopo legittimamente perseguito. Ne consegue che questa doglianza deve essere rigettata come manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione. 2. I ricorrenti lamentano la non equità del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione. Essi invocano l’articolo 6 §§ 1, 2 e 3 della Convenzione che, nelle parti pertinenti, è così formulato: “1. Ogni persona ha il diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale.(…). 2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa; c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.”
La Corte deve dapprima determinare se la disposizione invocata si possa applicare al caso di specie. Essa ricorda che le misure di prevenzione previste dalle leggi italiane del 1956, 1965, e 1982 non implicano un giudizio di colpevolezza, ma mirano ad impedire l’esecuzione di atti criminali (vedere la decisione della Corte nella causa Arcuri, già citata, così come, mutatis mutandis, la sentenza Raimondo, già citata, p. 20, § 43). Inoltre, la loro imposizione non è tributaria della pronuncia pregiudiziale di una condanna per un reato penale (vedere, a contrario e sotto il profilo dell’articolo 7 della Convenzione, sentenza Welch c. Regno Unito del 9 febbraio 1995, serie A n. 307-A, p. 13, §§ 28-29). Allora, esse non si potrebbero paragonare ad una pena. Allora, la procedura ad essa relativa non si riferisce alla <<fondatezza>> di una <<accusa penale>> (sentenze Raimondo, già citata, p. 20, § 43, e Guzzardi c. Italia del 6 novembre 1980, serie A n. 39, p. 40, § 108). Il secondo ed il terzo paragrafo dell’articolo 6, che garantiscono rispettivamente il principio della presunzione d’innocenza ed i diritti delle persone accusate, non trovano quindi applicazione nel caso di specie. Rimane da determinare se il procedimento iniziato contro i ricorrenti verteva su dei <<diritti e doveri di carattere civile>> ai termini del primo paragrafo dell’articolo 6. La Corte osserva a questo riguardo che l’articolo 6 si applica al civile ad ogni azione avente un oggetto <<patrimoniale>> e che si fondi su una violazione collegata a dei diritti anch’essi patrimoniali (sentenze Raimondo, già citata, p. 20, § 43, e Edizioni Periscope c. Francia del 26 marzo 1992, serie A n. 234-B, p. 66, § 40). Tale essendo il caso di specie, l’articolo 6 § 1 è applicabile al procedimento in contestazione nel suo riferimento civile. a) I ricorrenti osservano in primo luogo che l’ottava ricorrente, così come gli altri terzi interessati, non sono stati informati dell’apertura del procedimento, che ha avuto delle conseguenze importanti sui loro diritti patrimoniali. Essi rilevano inoltre che l’intestazione dell’ordinanza del 19 marzo 1998 non indicava i nomi di tutte le persone colpite dalla confisca, ciò che, a loro dire, renderebbe la decisione in questione ambigua ed equivoca. La Corte osserva di primo acchito che, come la Corte di Cassazione lo ha sottolineato nella sua sentenza del 22 marzo 1999, i ricorrenti hanno tardivamente sollevato la loro eccezione di nullità fondata sulla mancata comunicazione dell’apertura del procedimento alla settima ed all’ottava ricorrente. Comunque ne sia, essa rileva che queste ultime avranno la possibilità di far valere i loro diritti di carattere patrimoniale nel quadro del procedimento di esecuzione della confisca. La procedura in questione non essendo ancora cominciata, alla data delle ultime informazioni, la Corte ritiene che le allegazioni dei ricorrenti su questo punto sono premature. Per ciò che concerne le omissioni contenute nell’intestazione dell’ordinanza del 19 marzo 1998, la Corte considera che un tale errore materiale non inficerebbe l’equità del procedimento, tenuto conto particolarmente del fatto che la motivazione ed il dispositivo della decisione incriminata identificavano chiaramente i nomi di tutti i proprietari dei beni confiscati. Ne consegue che questa parte del ricorso deve essere rigettata come manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
b) I ricorrenti si lamentano del fatto che il procedimento davanti la Corte di Cassazione si è svolto in camera di consiglio, e dunque in modo non pubblico e senza la partecipazione del loro avvocato. La Corte riafferma che l’articolo 6 della Convenzione non costringe gli Stati contraenti a creare delle corti d’appello o di cassazione. Tuttavia, se tali giurisdizioni esistono, le garanzie dell’articolo 6 devono essere rispettate ( sentenza K.D.B. contro Olanda del 27 marzo 1998, Raccolta 1998-II, p. 630, § 38). La maniera in cui l’articolo 6 § 1 si applica dipende dalle particolarità del procedimento in causa. Per giudicarlo, bisogna tenere conto dell’insieme del processo condotto nell’ordinamento giuridico interno ed il ruolo che ha rivestito la giurisdizione di cassazione ( sentenza Brualla Gomez de la Torre c. Spagna del 19 dicembre 1997, Raccolta 1997-VII, p. 2956, § 37). In aggiunta, come la Corte ha rilevato più volte, l’assenza di un pubblico dibattimento in secondo o terzo grado può giustificarsi per le caratteristiche del procedimento di cui si tratta, purché ci sia stata un’udienza pubblica in primo grado. Così, i procedimenti consacrati esclusivamente a dei punti di diritto, possono assolvere alle condizioni poste dall’articolo 6 anche se la Corte di cassazione non ha dato all’accusato la facoltà di esprimersi davanti ad essa ( vedere, fra le altre, la sentenza Ekbatani c. Svezia del 26 maggio 1988, serie A n. 134, p. 14, § 31). La Corte nel caso di specie osserva che il ricorso in cassazione è stato presentato dopo che le differenti eccezioni e doglianze dei ricorrenti erano state esaminate dal tribunale e dalla corte d’appello di Catania, che avevano la piena giurisdizione per pronunciarsi sul merito della causa e che avevano tenuto conto delle udienze alle quali sia i ricorrenti che il loro avvocato avevano avuto la possibilità di partecipare. Per di più, i ricorrenti hanno potuto presentare, attraverso il loro avvocato, dei motivi di ricorso prima che la Suprema corte iniziasse ad esaminare la loro causa. In conclusione, tenuto conto del ruolo che spetta alla Corte di cassazione ed avuto riguardo al procedimento considerato nel suo insieme, la Corte ritiene che l’assenza di pubblici dibattimenti davanti alla Corte di Cassazione non sembra rivelare alcuna apparenza di violazione dell’articolo 6 della Convenzione ( vedere,mutatis mutandis, sentenza K.D.B contro Olanda, già citata, p.630, §41, e Ortolani c. Italia, ricorso n. 46283/99), decisione della Corte (seconda sezione) del 31 maggio 2001, non pubblicata). Ne consegue che questa parte del ricorso deve essere rigettata come manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione). c) I ricorrenti allegano infine che le decisioni pronunciate a loro carico sono state prese in violazione delle garanzie dell’equo processo, che esse si fondano su errori di fatto e di diritto, e che le giurisdizioni nazionali non hanno debitamente provato l’origine illegale dei beni confiscati, omettendo di prendere in considerazione gli elementi che avrebbero potuto condurre ad una conclusione diversa. La Corte ricorda che essa non ha il compito di sostituirsi alle giurisdizioni interne. L’ammissibilità delle prove è disciplinata in primo luogo dalle regole di diritto nazionale e compete in linea di principio alle giurisdizioni interne, e particolarmente alle corti ad ai tribunali, d’interpretare la legislazione e di valutare i fatti (vedere, fra molte altre, le sentenze Brualla Gòmez de la Torre, già citata, p. 2955, § 31, e Edificaciones March Gallego S.A. c. Spagna del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-I, p.290, § 33). Non rientra nelle attribuzioni della Corte di sostituire la propria valutazione dei fatti a quella delle giurisdizioni interne o di pronunciarsi sul punto se alcuni elementi sono stati ammessi legittimamente come prove, ma a ricercare se il procedimento considerato nel suo insieme, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo ( vedere, fra le altre, le sentenze Doorson c. Paesi Bassi del 26 marzo 1996, Raccolta 1996-II, p. 470, § 67, e Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi del 23 aprile 1997, Raccolta 1997-III, p. 711, § 50). Orbene, come la Corte lo ha appena constatato, la procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione si è svolta in contraddittorio e nel rispetto dei diritti della difesa davanti tre giurisdizioni successive. Queste non potevano fondare le loro conclusioni su dei semplici sospetti ed hanno ampiamente motivato tutti i punti controversi, ciò permette di escludere ogni rischio di arbitrarietà. Ne consegue che questa parte del ricorso deve essere rigettata come manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione. Per questi motivi, la Corte, all’unanimità. Dichiara il ricorso irricevibile. Elisabeth PALM Presidente Michael O’BOYLE Cancelliere ALLEGATO LISTA DEI RICORRENTI omissis |