(violazione dell'articolo 6.1 (diritto ad un equo processo) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in ipotesi di exequatur ad una sentenza (di nullità del matrimonio concordatario) della Sacra Romana Rota concesso dai giudici italiani. Lo Stato Italiano deve versare alla ricorrente 10 milioni di lire italiane per il danno morale sofferto, oltre le spese legali.
(traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Maurizio de Stefano del comunicato stampa della cancelleria)
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha deciso in data 20 luglio 2001 il caso Pellegrini c. Italia (n° 30882/96) ed ha stabilito all’unanimità, che vi è stata la violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto ad un equo processo) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo laddove le giurisdizioni italiane hanno mancato al loro dovere di verificare, prima di concedere l’exequatur ad una sentenza della Rota Romana, che nel quadro della procedura ecclesiastica la ricorrente avesse beneficiato di un processo equo.
Ai sensi dell’articolo 41 (equa soddisfazione ) della Convenzione, la Corte decide all’unanimità di liquidare alla ricorrente 10 000 000 di lire italiane (ITL) per danno morale e 18 253 940 ITL per spese legali.
1. Principali fatti
La ricorrente aveva sposato il sig. Gigliozzi con un matrimonio religioso avente effetti civili nel 1962. Nel 1987, essa propose davanti al tribunale di Roma una procedura di separazione personale, che si concluse con una sentenza del 2 ottobre 1990, con cui il tribunale ordinò all’ex marito della ricorrente di versarle una somma mensile a titolo di mantenimento.
Nel frattempo, il 20 novembre 1987, la ricorrente fu citata a comparire davanti al tribunale ecclesiastico regionale del Lazio presso il Vicariato di Roma « al fine di essere interrogata nella causa matrimoniale Gigliozzi-Pellegrini ». Il giorno stabilito, essa si presentò al tribunale dove fu informata che il suo marito aveva chiesto la dichiarazione di nullità del matrimonio per consanguineità . Il giudice l’interrogò a tal proposito ed essa riconobbe i suoi legami di consanguineità con il suo marito ma dichiarò di ignorare se, all’epoca del matrimonio, essa aveva ottenuto una autorizzazione speciale. Il 12 dicembre 1987, la ricorrente ricevette una notificazione dalla cancelleria del tribunale ecclesiastico che in data 6 novembre 1987 lo stesso tribunale, a seguito di una procedura abbreviata, aveva pronunciato la nullità del matrimonio per causa di consanguineità .
La ricorrente propose appello avverso la sentenza del tribunale ecclesiastico davanti alla Romana Rota allegando principalmente una violazione dei suoi diritti di difesa e del principio del contraddittorio, per il fatto che essa era stata citata a comparire davanti al tribunale ecclesiastico senza essere stata informata in precedenza né della domanda di dichiarazione di nullità del matrimonio, né delle ragioni di questa domanda ; peraltro essa non era stata assistita da un avvocato.
Con la sentenza del 13 aprile 1988, pubblicata in cancelleria il 10 maggio 1988, la Rota confermò la dichiarazione di nullità del matrimonio per causa di consanguineità . La ricorrente non ricevette che il dispositivo della sentenza, essendole stata rifiutata la sua domanda di ottenere una copia integrale della sentenza.
Nel settembre 1989, l’ex marito della ricorrente citò quest’ultima a comparire davanti la corte d’appello di Firenze al fine di ottenere l’exequatur della sentenza della Rota Romana. La ricorrente si costituì nella procedura, domandando l’annullamento della sentenza per violazione dei suoi diritti di difesa. Essa sottolineava di non aver ricevuto la copia della domanda di dichiarazione di nullità, e di non aver potuto prendere conoscenza degli atti processuali.
Con una sentenza dell’ 8 novembre 1991, la corte d’appello di Firenze dichiarò esecutiva la sentenza in questione, stimando che l’interrogatorio della ricorrente del 1° dicembre 1987 era stata sufficiente a garantire il rispetto del contraddittorio, e che, d’altra parte essa aveva liberamente scelto di proporre la procedura davanti alla Rota ed ivi aveva beneficiato dei suoi diritti di difesa, « indipendentemente dalle particolarità della procedura canonica ». La ricorrente propose ricorso per cassazione, reiterando che i suoi diritti di difesa erano stati violati nella procedura davanti i tribunali ecclesiastici, sotto il profilo che essa non era stata informata in dettaglio della domanda di dichiarazione di nullità del matrimonio e della possibilità di essere assistita da un difensore. La ricorrente criticava parimenti la circostanza che la corte d’appello sembrava aver omesso di esaminare il fascicolo della procedura davanti i tribunali ecclesiastici, da cui avrebbe potuto rinvenire degli elementi in favore della stessa ricorrente. Peraltro, la ricorrente aveva chiesto alla cancelleria del tribunale ecclesiastico di darle una copia degli atti processuali della procedura di nullità al fine di esibirli davanti alla Corte di Cassazione, ma questa richiesta le era stata rifiutata.
Con la sentenza del 10 marzo 1995, la Corte di cassazione rigettò il gravame, considerando preliminarmente che il principio del contraddittorio era rispettato nella procedura davanti i tribunali ecclesiastici. La Corte aggiungeva che peraltro, secondo una certa giurisprudenza, l’assistenza di un avvocato, anche se non necessaria per il diritto canonico, non era vietata : la ricorrente avrebbe, pertanto potuto avvalersi di questa possibilità. La Corte non si è pronunciata sul fatto che il fascicolo della procedura ecclesiastica non era stato allegato agli atti del processo civile.
3. Riassunto della sentenza
Doglianze
La ricorrente davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lamenta la violazione dell’articolo 6 della Convenzione, in quanto le giurisdizioni italiane hanno concesso l’exequatur alla dichiarazione di nullità del suo matrimonio pronunciata dai tribunali ecclesiastici al termine di una procedura in cui i suoi diritti di difesa erano stati negati.
Decisione della Corte
La Corte nota innanzi tutto che la dichiarazione di nullità del matrimonio della ricorrente è stata emessa dalle giurisdizioni del Vaticano, poi resa esecutiva dalle giurisdizioni italiane. Non avendo il Vaticano ratificato la Convenzione, ed essendo il ricorso diretto contro l’Italia, alla Corte compete non di esaminare se la procedura ecclesiastica era conforme all’articolo 6 della Convenzione, ma se le giurisdizioni italiane, prima di concedere l’exequatur alla predetta dichiarazione di nullità, abbiano debitamente verificato che la relativa procedura assolvesse alle garanzie dell’articolo 6. La Corte precisa che un simile controllo s’impone quando la decisione di cui si chiese l’exequatur promana dalle giurisdizioni di un paese a cui non si applichi la Convenzione e che un simile controllo è tanto più necessario quando la funzione dell’exequatur sia di interesse capitale per le parti.
La Corte esamina i motivi forniti dalla corte d’appello di Firenze e dalla Corte di Cassazione per rigettare le doglianze della ricorrente a proposito della procedura ecclesiastica. La Corte constata che i giudici italiani non sembrano aver attribuito importanza alla circostanza che la ricorrente non aveva avuto la facoltà di avere conoscenza degli elementi allegati dal suo ex marito e dai – pretesi – testimoni, allorquando il diritto ad una procedura in contraddittorio implica che ogni persona che sia parte in un processo, penale o civile, deve in via di principio avere la facoltà di prendere conoscenza e di discutere ogni atto del processo o delle osservazioni presentati al giudice in vista di influenzare la sua decisione. Questa facoltà non è stata rimessa in causa, come sostiene il Governo italiano, dalla circostanza che la nullità del matrimonio derivante da un fatto oggettivo e non contestato, la ricorrente non avrebbe in ogni caso potuto opporvisi : in effetti, compete soltanto alle parti del processo di valutare se un elemento allegato dalla controparte o dai testimoni richieda dei commenti.
Inoltre, la Corte considera che la ricorrente avrebbe dovuto essere messa nelle condizioni di beneficiare dell’assistenza di un avvocato, se essa lo desiderava. Le giurisdizioni ecclesiastiche avrebbero dovuto presumere che la ricorrente, che non aveva l'assistenza di un avvocato, ignorasse la giurisprudenza in materia di patrocinio nelle procedure canoniche : posto che la ricorrente era stata citata a comparire davanti al tribunale canonico senza sapere di che cosa ivi si trattasse, spettava al predetto tribunale di informarla della sua facoltà di avvalersi dell’assistenza di un avvocato prima che essa rendesse l’interrogatorio. In queste circostanze, la Corte reputa che giurisdizioni italiane hanno mancato al loro dovere di assicurarsi, prima di concedere l’exequatur alla sentenza della Rota Romana, che nel quadro della procedura ecclesiastica la ricorrente avesse beneficiato d’un processo equo. Vi è stata, dunque, la violazione dell’articolo 6 § 1.