Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo) CASO PALAU-MARTINEZ CONTRO FRANCIA. Sentenza del 16 dicembre 2003, ricorso n. 64927/01. Violazione dell’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita familiare) combinato con l’articolo 14 ( divieto di discriminazione) per l’affidamento dei figli al padre da parte del giudice nazionale che aveva discriminato in abstracto a causa della religione la madre, in quanto testimone di Geova, senza esperire una particolare indagine sulle eventuali incidenze negative della pratica religiosa della stessa madre sulla vita e sulla educazione dei figli.
(equa soddisfazione liquidata in 10.000 euro per danno morale).
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
Strasburgo 16 dicembre 2003
CASO PALAU-MARTINEZ CONTRO FRANCIA
(Ricorso no. 64927/01)
(traduzione non ufficiale del comunicato stampa a cura della dott.ssa Elena Pellicciotti)
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha comunicato oggi per iscritto la sentenza nel caso Palau-Martinez contro Francia (ricorso n° 64927/01).
La Corte dichiara:
· per sei voti contro uno, che c’è stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita familiare) combinato con l’articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo;
· per sei voti contro uno, che non è necessario deliberare sulla violazione addotta dell’articolo 8 preso isolatamente;
· all’unanimità, che non si pone nessuna questione distinta nell’ambito degli articoli 6 § 1 (diritto a un equo processo) e 9 (libertà di religione), presi isolatamente o combinati con l’articolo 14 della Convenzione.
In applicazione dell’articolo 41 (equa soddisfazione) della Convenzione, la Corte concede alla ricorrente 10 000 euro (EUR) per danno morale, così come 4 125 EUR per le spese.
1. Principali fatti
La ricorrente, Séraphine Palau-Martinez, è una cittadina francese nata nel 1963 e residente a Alcira (Spagna).
La ricorrente si sposò nel 1983 e da questa unione nacquero due bambini nel 1984 e 1989. Nel 1994, il marito dell’interessata lasciò il domicilio coniugale per stabilirsi con la sua amante. La signora Palau-Martinez presentò una domanda di divorzio.
Il 5 settembre 1996, il tribunale di Grande istanza di Nîmes emise la sentenza di divorzio per colpa esclusiva del marito; fissò la residenza dei bambini presso la madre in Spagna e concesse il diritto di visita e di ospitare i figli al padre. La signora Palau-Martinez interpose appello a tale sentenza. Il 14 gennaio 1998, la corte d’appello confermò la sentenza di divorzio, ma fissò la residenza dei bambini presso il padre in Francia, e accordò il diritto di visita e di ospitare i figli alla ricorrente. La corte rilevò che la signora Palau-Martinez non negava di appartenere ai Testimoni di Geova e precisò che le regole educative imposte da costoro ai figli dei loro adepti erano “essenzialmente criticabili a causa della loro durezza, della loro intolleranza e degli obblighi imposti ai bambini di praticare il proselitismo”. La corte ritenne che era nell’interesse dei bambini “sfuggire alle costrizioni e ai divieti imposti da una religione strutturata come una setta”.
Il ricorso in cassazione che formulò la ricorrente contro questa sentenza fu respinto nel luglio 2000.
2. Procedura e composizione della Corte
La richiesta è stata introdotta davanti alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo il 20 dicembre 2000 e dichiarata ricevibile il 4 marzo 2003.
La sentenza è stata emessa da una camera di 7 giudici composta da:
András Baka (Ungherese), presidente, Jean-Paul Costa (Francese), Gaukur Jörundsson (Islandese), Karel Jungwiert (Ceco), Volodymyr Butkevych (Ucraino), Wilhelmina Thomassen (Olandese), Mindia Ugrekhelidze (Georgiano), giudici,
ed anche da Lawrence Early, cancelliere aggiunto di sezione.
3. Riassunto della sentenza
Doglianze
La ricorrente sosteneva che la decisione di stabilire la residenza dei suoi due figli presso il padre attenta alla sua vita privata e familiare ai sensi dell’articolo 8 ed è discriminatoria ai sensi degli articoli 8 e 14 combinati. Si lamentava ugualmente della violazione discriminatoria della sua libertà religiosa ai sensi dell’articolo 9 preso isolatamente e combinato con l’articolo 14. Per di più, riteneva di non aver beneficiato di un equo processo ai sensi dell’articolo 6 § 1.
Decisione della Corte
Articolo 8 della Convenzione combinato con l’articolo 14
La Corte nota subito che quando la corte d’appello fissò la residenza dei bambini presso il padre, questi vivevano con la madre da circa tre anni e mezzo. Di conseguenza, la sentenza della corte d’appello costituisce una violazione del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita familiare.
Modificando il luogo di residenza dei bambini, la corte d’appello si è pronunciata sulle condizioni in cui ognuno dei genitori li allevava. Per far ciò, tenne conto degli elementi sottoposti dalle parti , e sembra che accordò una importanza determinante alla religione della ricorrente, criticando severamente i principi di educazione che sarebbero imposti da tale religione. Secondo la Corte, la giurisdizione d’appello operò così fra i genitori una differenza di trattamento basata sulla religione della ricorrente.
La Corte ricorda che una differenza di trattamento è discriminatoria se non riposa su una “giustificazione oggettiva e ragionevole”. Nella fattispecie, la differenza di trattamento così operata dalla corte d’appello perseguiva uno scopo legittimo, cioè la protezione dell’interesse dei bambini. In quanto a sapere se era proporzionale a tale scopo, la Corte rileva che nella sua sentenza, la corte d’appello si espresse in via generale sui testimoni di Geova. Per di più, nessun elemento concreto e diretto dimostra l’influenza della religione della ricorrente sull’educazione e sulla vita quotidiana dei figli. Inoltre, mentre la ricorrente aveva chiesto che fosse svolta una indagine sociale, come per prassi corrente in materia di custodia di bambini, la corte d’appello non ha ritenuto necessario aderire alla sua domanda; una tale indagine avrebbe senza dubbio permesso di raccogliere degli elementi concreti sulla vita dei bambini con ognuno dei loro genitori e di determinare le eventuali incidenze della pratica religiosa della madre su di loro. Secondo la Corte, la giurisdizione d’appello si è pronunciata in funzione di considerazioni generali, senza stabilire un legame fra le condizioni di vita dei figli presso la madre e il loro interesse reale. Pur pertinente, questa motivazione non è sufficiente.
Pertanto, la Corte non può pronunciarsi per l’esistenza di un rapporto ragionevole di proporzionalità fra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.
Il giudice Thomassen ha espresso una opinione dissidente il cui testo si trova allegato alla sentenza.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CASO PALAU-MARTINEZ contro FRANCIA
(Ricorso n° 64927/01)
SENTENZA
STRASBURGO
16 dicembre 2003
(traduzione non ufficiale della motivazione a cura della dott.ssa Elena Pellicciotti)
Nel caso Palau-Martinez contro Francia,
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
A. B. Baka, presidente, J.-P. Costa, Gaukur Jörundsson, K. Jungwiert, V. Butkevych, W. Thomassen, M. Ugrekhelidze, giudici,
e da T. L. Early, cancelliere aggiunto di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 4 marzo e il 25 novembre 2003,
Emette la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:
PROCEDURA
1§ All’origine del caso si trova un ricorso (n° 64927/01) diretto contro la Repubblica francese e che una cittadina di questo Stato, Séraphine Palau-Martinez (“la ricorrente”), ha portato dinanzi alla Corte il 20 dicembre 2000 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la tutela dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2§ La ricorrente è rappresentata da P. Goni, avvocato iscritto all’albo professionale di Parigi. Il governo francese (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, R. Abraham, Direttore degli Affari giuridici al ministero degli Affari esteri.
3§ La ricorrente sosteneva che la decisione delle giurisdizioni francesi di fissare la residenza dei suoi due figli minori presso il loro padre ledeva la sua vita privata e familiare ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione ed era discriminatoria ai sensi degli articoli 8 e 14 combinati. Si lamentava ugualmente dell’attacco discriminatorio portato alla sua libertà religiosa ai sensi dell’articolo 9 preso isolatamente e combinato con l’articolo 14 della Convenzione e di non aver beneficiato di un equo processo ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
4§ Il ricorso è stato attribuito alla seconda sezione della Corte (articolo 52 § 1 del Regolamento). In seno a questa, la camera incaricata di esaminare il caso (articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del Regolamento.
5§ Con una decisione del 4 marzo 2003, la camera ha dichiarato il ricorso ricevibile.
6§ Sia la ricorrente sia il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito del caso (articolo 59 § 1 del regolamento).
FATTO
I. LE CIRCOSTANZE NELLA FATTISPECIE
7§ La ricorrente, Séraphine Palau-Martinez, è una cittadina francese, nata nel 1963 e residente ad Alcira, vicino Valencia (Spagna).
8§ La ricorrente si sposò nel gennaio 1983. Da questa unione nacquero due bambini nel 1984 e 1989.
9§ Nell’agosto o settembre 1994, il marito della ricorrente lasciò il domicilio coniugale per installarsi con la sua amante. Nel dicembre 1994, la ricorrente presentò una domanda di divorzio.
10§ Con una sentenza del 5 settembre 1996, il tribunale di grande istanza di Nîmes si pronunciò sulla domanda di divorzio. Rilevò dapprima che alla lettura dei documenti presentati, non era accertato che l’appartenenza della ricorrente ai Testimoni di Geova fosse stata la causa della rottura della coppia, ma che era provato che suo marito aveva lasciato il domicilio familiare per vivere con la sua amante, impedendo inoltre alla ricorrente di lavorare nella pizzeria che essi gestivano. Pronunciò quindi il divorzio per colpa esclusiva del marito.
11§ Per quanto riguarda i figli, il tribunale fissò la loro residenza presso la madre in Spagna, essendo l’autorità parentale congiuntamente esercitata. Il padre beneficiava del diritto di visita e di ospitare i figli che si esercitava liberamente e, in caso di disaccordo, durante l’interezza delle vacanze scolastiche dei bambini, a patto per lui di andare a prendere e di riaccompagnare i bambini al domicilio della madre. Fissò l’ammontare del contributo alimentare del padre a 1500 FF al mese per ogni bambino.
12§ Il 21 novembre 1996, la ricorrente fece appello a questa sentenza. Ella chiedeva di poter beneficiare di un mese di vacanze dei bambini durante l’estate e di una settimana durante le vacanze di Natale e di Pasqua. Ella rinnovava per di più la sua richiesta di prestazione remuneratoria. Nelle conclusioni in replica, la ricorrente si lamentava del fatto che il suo ex-marito non le aveva riportato i bambini alla fine delle vacanze estive dell’estate del 1997 e li aveva iscritti in una scuola di Aigues-Mortes dove abitava con la sua nuova compagna. Ella sosteneva che il padre aveva condizionato i bambini affinché dichiarassero di voler vivere con lui, e allegava delle testimonianze e delle fotografie con lo scopo di dimostrare che ella allevava i figli con molta cura e che essi potevano esercitare liberamente tutte le attività che piacevano loro. Ella chiedeva che una indagine sociale fosse eseguita.
13§ La corte d’appello di Nîmes si pronunciò con la sentenza del 14 gennaio 1998. Confermò la sentenza concernente il dispositivo di divorzio e concesse alla ricorrente una prestazione remuneratoria di 1500 FF al mese per tre anni. Per quanto riguarda la residenza dei bambini, la corte rilevò:
“che i due bambini minori C. di tredici anni e M. di otto anni risiedono attualmente presso il padre a Aigues-Mortes dove proseguono nella loro scolarità;
(…) che si tratta qui di una situazione instaurata di fatto dal padre che contrariamente alle disposizioni della sentenza deferita non ha riaccompagnato i bambini al domicilio della madre alla fine della vacanze estive;
(…) che per giustificare il suo atteggiamento, R. sostiene di aver agito nell’interesse dei bambini per sottrarli all’influenza nefasta della madre e del suo ambiente che li costringevano a praticare la religione detta “dei Testimoni di Geova”;
Che per di più R. produsse una lettera del bambino C. che parlava del suo desiderio di risiedere presso il padre così come un certificato medico redatto dal Dottor D., medico psichiatra, il 7 gennaio 1997, che attesta che il bambino C. “vive le proibizioni di sua madre per i Testimoni di Geova come dolorose e frustranti e che il bambino M. soffre delle costrizioni religiose che gli sono imposte ed esprimeva già all’inizio dell’anno 1997 il suo desiderio di vivere a Aigues-Mortes con il padre”;
Che infine, numerose altre testimonianze allegate al dibattimento menzionano il desiderio espresso dai bambini di non ritornare in Spagna;
Considerato che Séraphine Palau-Martinez non nega la sua appartenenza ai Testimoni di Geova né che i due bambini ricevono presso di lei una educazione conforme alle pratiche di questa religione;
Che ella produce certo numerose prove che menzionano l’amore per i suoi bambini e il benessere che assicura loro, e allega al dibattimento fotografie di gruppo dove figurano, felici, i suoi bambini;
Che tuttavia l’insieme dei documenti prodotti non è in contraddizione con l’argomentazione di R. che non pretende di smentire le qualità materne della madre, limitandosi a criticare l’educazione rigida di cui i bambini sono oggetto a causa delle convinzioni religiose della madre;
Considerato che le regole educative imposte dai Testimoni di Geova ai figli dei loro adepti sono essenzialmente criticabili a causa della loro durezza, della loro intolleranza e degli obblighi imposti ai bambini di praticare il proselitismo;
Considerato che l’interesse dei bambini è di sfuggire alle costrizioni e agli interdetti imposti da una religione strutturata come una setta;
Considerato che non è il caso di procedere a una indagine sociale che, nelle circostanze, potrebbe solamente turbare i bambini;
Considerato che, visti gli elementi precedentemente analizzati, la corte ritiene che contrariamente a quanto ha deciso il primo giudice, conviene stabilire la residenza dei due bambini minori presso il domicilio del loro padre, rimanendo l’autorità parentale congiuntamente esercitata;
Considerato che Séraphine Palau-Martinez beneficerà di un diritto di visita e di ospitare liberamente i figli e in mancanza di ogni accordo:
- durante la totalità delle vacanze di febbraio e di Ognissanti,
- per un mese durante le vacanze estive,
- durante la metà delle vacanze di Pasqua e di Natale a patto per la madre di venire a prendere i bambini al domicilio del padre e a patto per quest’ultimo di andare a prenderli al domicilio della madre; (…) ”
14§ La ricorrente presentò un ricorso in cassazione contro questa sentenza. Ella si lamentava particolarmente del fatto che la corte d’appello aveva invalidato la sentenza di prima istanza con la motivazione principale che le regole educative imposte dai Testimoni di Geova ai figli dei loro adepti erano essenzialmente criticabili a causa della loro durezza, della loro intolleranza e degli obblighi imposti ai bambini di praticare il proselitismo, contentandosi così di un motivo generale e astratto e omettendo di indagare se in realtà, concretamente, l’educazione dei bambini era turbata al punto di giustificare il cambiamento della loro residenza. Ella riteneva che questo giudizio di valore sul modo di vivere la sua religione presa in abstracto non poteva giustificare la soluzione adottata. Ella aggiungeva che era in modo ugualmente astratto che la corte enunciava che l’interesse dei bambini era di sfuggire alle costrizioni e agli interdetti imposti da una religione strutturata come una setta. Ella si lamentava ugualmente del fatto che la corte d’appello aveva rifiutato di accogliere la sua richiesta di indagine sociale. Riferendosi alla libertà di coscienza e di religione e alle regole di un equo processo, ella invocava gli articoli 9 e 6 della Convenzione.
15§ La Corte di cassazione rese la sua sentenza il 13 luglio 2000. Dopo aver ricordato i motivi della sentenza della corte d’appello, si pronunciò come segue:
“Risulta da queste constatazioni ed enunciazioni che la corte d’appello, che ha risposto alle conclusioni senza contraddirsi, che non aveva l’obbligo di ordinare una indagine sociale e che non ha leso la libertà di coscienza della Signora Palau-Martinez ha, con una valutazione sovrana degli elementi di prova, ritenuto che l’interesse dei bambini imponeva di stabilire la loro residenza abituale presso il padre; (…)”
II. DIRITTO INTERNO PERTINENTE
16§ Codice civile
Articolo 287 (quale in vigore all’epoca dei fatti)
“L’autorità parentale è esercitata in comune dai due genitori. Il giudice designa, in mancanza di accordo amichevole o se questo accordo gli appare contrario all’interesse del bambino, il genitore presso il quale i bambini hanno la loro residenza abituale.
Se l’interesse del bambino lo esige, il giudice può affidare l’autorità parentale a uno dei due genitori.
I genitori possono di propria iniziativa o alla richiesta di un giudice presentare le loro osservazioni sulle modalità di esercizio dell’autorità parentale.”
Articolo 287-2 (quale in vigore all’epoca dei fatti)
“Prima di ogni decisione, provvisoria o definitiva, che stabilisce le modalità dell’esercizio dell’autorità parentale e del diritto di visita o che affida i bambini a un terzo, il giudice può dare il compito a ogni persona qualificata di effettuare una indagine sociale. Questa ha lo scopo di raccogliere delle informazioni sulla situazione materiale e morale della famiglia, sulle condizioni in cui vivono e sono allevati i bambini e sulle misure che è stato il caso di prendere nel loro interesse.
Se uno degli sposi contesta le conclusioni dell’indagine sociale, può chiedere una contro-indagine.
L’ indagine sociale non può essere utilizzata nel dibattimento sulla causa di divorzio.”
DIRITTO
I SULLA VIOLAZIONE ALLEGATA DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE, PRESO ISOLATAMENTE E COMBINATO CON L’ARTICOLO 14
17§ La ricorrente si lamenta in primo luogo del fatto che la decisione di stabilire la residenza dei suoi bambini presso il padre ha leso il suo diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, e questo in modo discriminatorio. Ella invoca gli articoli 8 e 14 della Convenzione che, nelle loro parti pertinenti, si leggono rispettivamente:
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, (…).
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (…) alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”
“Il godimento dei diritti e libertà riconosciuti nella (…) Convenzione deve essere assicurato, senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione.”
A Sulla violazione allegata dell’articolo 8 combinato con l’articolo 14 della Convenzione
18§ La ricorrente si riferisce in primo luogo al caso Hoffman contro Austria (sentenza del 23 giugno 1993, serie A n° 255-C). Ella ritiene che lo stesso ragionamento deve applicarsi e che il fatto che le si ritiri l’affidamento dei suoi due bambini che ella assumeva da due anni deve essere vista come una ingerenza nel suo diritto al rispetto della sua vita familiare.
19§ Ella sottolinea che, per giustificare l’ingerenza, il Governo si fonda quasi esclusivamente sulle affermazioni del suo ex-marito, le testimonianze delle persone a lui vicine, il parere di uno psichiatra consultato solamente da lui e il parere dei bambini che è necessariamente dipendente dal contesto in cui è raccolto.
20§ La ricorrente afferma ancora che la corte d’appello di Nîmes, avendo rifiutato di ordinare una indagine sociale, ha apprezzato in abstracto la situazione e ha reso una sentenza di stigmatizzazione sociale basata essenzialmente e in maniera determinante sulla sua appartenenza religiosa. Ella sostiene ugualmente che l’utilizzazione dei soli mezzi di prova forniti dal suo ex-marito è solamente un pretesto al giudizio di valore contro le convinzioni dei Testimoni di Geova nell’ambito familiare, essendo il reale motivo dei giudici nazionali l’appartenenza religiosa della ricorrente.
21§ La ricorrente ritiene di avere buone ragioni per valersi di una grave ingerenza nei suoi diritti e doveri di madre, da un lato, per essere stata l’oggetto di una decisione basata su motivi discriminatori e, dall’altro lato, per la decisione di designare la residenza del padre come residenza abituale dei bambini malgrado l’atteggiamento di quest’ultimo. Ella sottolinea che egli si era reso colpevole di un abbandono di famiglia e che aveva, in seguito, rifiutato di riportare i bambini al domicilio della madre in violazione di una sentenza del giudice delle cause familiari.
22§ Ella contesta poi l’affermazione secondo la quale l’interesse dei bambini sarebbe stato l’oggetto di un esame scrupoloso e nega, quindi, ogni giustificazione a questa ingerenza. La ricorrente ritiene, infatti, che la corte d’appello si è basata su pareri erronei e non contraddittori, ha sbilanciato la procedura rifiutando di ordinare una perizia psicologica e ha giustificato, in modo discriminatorio, la sua sentenza del 14 gennaio 1998 con la sua appartenenza religiosa.
23§ Il Governo non contesta che la doglianza della ricorrente entri nel campo d’applicazione dell’articolo 8 della Convenzione.
Ritiene tuttavia che nel quadro di un divorzio, “l’intervento” del giudice era necessario ma che non potrebbe essere considerato un “ingerenza” ai sensi dell’articolo 8 § 2.
Se, tuttavia, dovesse essere considerato che c’è stata ingerenza nei diritti della ricorrente, il Governo considera che era prevista dalla legge, in questo caso il codice civile, rispondeva ad uno scopo legittimo, l’interesse dei bambini, ed era proporzionata poiché l’interesse dei bambini può, e deve a volte, prevalere su quello dei genitori.
24§ Il Governo sostiene che i giudici interni hanno potuto legittimamente ritenere, a partire da elementi oggettivi e dopo aver raccolto il parere dei bambini, che l’educazione imposta dalla loro madre li obbligava a rispettare delle costrizioni poco compatibili con una educazione equilibrata, costringendoli in particolare a praticare il proselitismo.
25§ Esso considera inoltre che le condizioni di applicazione dell’articolo 14 della Convenzione non sono raccolte.
Ritiene che la ricorrente e l’ex-marito si trovano in situazioni analoghe, potendo, entrambi, ottenere che la residenza dei figli sia stabilita presso i rispettivi domicili.
26§ Esso espone ancora che nel presente caso, differentemente alla situazione stigmatizzata dalla Corte nel caso Hoffman contro Austria, sono le conseguenze di una pratica religiosa sulla salute e l’equilibrio dei bambini che sono state prese in considerazione, e non il solo fatto dell’appartenenza della ricorrente ai Testimoni di Geova.
27§ Il Governo ammette che la sentenza della corte d’appello denuncia in termini generali le conseguenze dei precetti educativi dei Testimoni di Geova, ma afferma che la sola appartenenza religiosa della ricorrente non è il fondamento di questa decisione. Secondo il Governo, il fondamento della sentenza della corte d’appello, che ha caratterizzato i pregiudizi subiti dai bambini, risiede negli inconvenienti già subiti da questi nella misura in cui il certificato medico sottolinea l’esistenza di certe frustrazioni dovute alla religione imposta dalla madre, non venendo nessun certificato medico contrario a invalidare il parere del medico psichiatra. In oltre, la sentenza menziona il fatto che la ricorrente porta con sé i suoi bambini quando cerca di diffondere la sua fede, così come numerose testimonianze che menzionano il desiderio dei bambini di vivere con il padre. Il Governo ritiene quindi che la corte d’appello ha deliberato in concreto e ha giustificato oggettivamente e ragionevolmente la sua decisione.
28§ In secondo luogo, il Governo considera che una eventuale distinzione operata riguardo alla ricorrente, a causa delle sue convinzioni religiose, è proporzionata e giustificata in modo oggettivo e ragionevole, vale a dire l’interesse superiore dei bambini che i giudici nazionali hanno valutato concretamente alla vista di elementi oggettivi.
29§ La Corte ricorda che l’articolo 14 della Convenzione completa le altre clausole normative della Convenzione e dei Protocolli. Esso non ha esistenza indipendente, poiché vale unicamente per “il godimento dei diritti e delle libertà” che esse garantiscono. Certo, esso può entrare in gioco anche senza un mancamento alle loro esigenze, e in questa misura, possiede una portata autonoma, ma non può applicarsi se i fatti del litigio non cadono sotto il dominio di almeno una delle suddette clausole (vedere, fra molte altre, le sentenze Van Raalte contro Paesi-Bassi del 21 febbraio 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-I, p. 184, § 33, e Camp e Bourimi contro Paesi-Bassi, n° 28369/95, CEDH 2000-X, § 34).
30§ La Corte nota subito che nella fattispecie i due bambini vivevano con la madre da quasi tre anni e mezzo – dalla partenza del padre dal domicilio familiare – quando la sentenza della corte d’appello di Nîmes stabilì la loro residenza presso il domicilio del padre. Pertanto, la Corte considera che la sentenza così resa si analizza in una lesione del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita familiare e non può essere considerata come un semplice “intervento” del giudice necessario in ogni divorzio, come lo sostiene il Governo. La causa rientra dunque nel campo dell’articolo 8 della Convenzione (vedere la sentenza Hoffman contro Austria, precitata, § 29).
31§ Peraltro, ai sensi dell’articolo 14, una distinzione è discriminatoria se “manca di giustificazione oggettiva e ragionevole”, cioè se non persegue “uno scopo legittimo” o se non c’è “rapporto ragionevole di proporzionalità fra i mezzi impiegati e il fine mirato”. Inoltre, gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento per determinare se e in quale misura differenze fra situazioni per altri versi analoghe giustificano distinzioni di trattamento (vedere Karlheinz Schmidt contro Germania, sentenza del 18 luglio 1994, serie A n° 291-B, pp. 32 – 33, § 24 e Camp e Bourimi contro Paesi-Bassi, sentenza precitata, § 37).
32§ La Corte ha dunque il dovere di esaminare innanzitutto se la ricorrente può lamentarsi di una tale distinzione di trattamento.
33§ Per invalidare la sentenza resa in prima istanza e stabilire la residenza dei bambini presso il domicilio del padre, la corte d’appello si è pronunciata sulle condizioni in cui la ricorrente e il suo ex-marito allevavano rispettivamente i figli.
34§ Per far ciò, essa disponeva, da un lato, di una corrispondenza scritta da uno dei bambini, prodotta dal padre, in cui il bambino menzionava “il suo desiderio di risiedere presso il padre” e di un certificato medico di uno psichiatra, redatto nel gennaio 1997, che indicava che il bambino C. “vive le proibizioni di sua madre per i Testimoni di Geova come dolorosi e frustranti e che il bambino M. soffre delle costrizioni religiose che gli sono imposte e esprimeva già all’inizio dell’anno 1997 il suo desiderio di vivere a Aigues-Mortes con suo padre”. La corte d’appello menziona ugualmente “numerose altre testimonianze” allegate al dibattimento che parlavano del desiderio dei bambini di non ritornare in Spagna.
35§ D’altra parte, la ricorrente aveva prodotto davanti alla corte d’appello “numerose prove che menzionavano l’affetto che ella porta ai figli e del benessere che assicura loro” e “fotografie di gruppo dove figurano, felici, i bambini”.
36§ La corte d’appello ritenne che l’insieme dei documenti prodotti dalla madre non era “in contraddizione con l’argomentazione di R. che non pretende di smentire le qualità materne della madre, limitandosi a criticare l’educazione rigida di cui i bambini sono oggetto a causa delle convinzioni religiose della madre”.
37§ Risulta dal resto della sentenza che la corte d’appello ha accordato una importanza determinante alla religione della ricorrente. Infatti, dopo aver rilevato precedentemente che la ricorrente “non nega la sua appartenenza ai Testimoni di Geova né che i due bambini ricevevano presso di lei una educazione conforme alle pratiche di questa religione”, la corte d’appello si espresse come segue
“Considerato che le regole educative imposte dai testimoni di Geova ai bambini dei loro adepti sono essenzialmente criticabili per la loro durezza, la loro intolleranza e per gli obblighi imposti ai bambini di praticare il proselitismo;
Considerato che l’interesse dei bambini è di sfuggire alle costrizioni e agli interdetti imposti da una religione strutturata come una setta; (…)”
38§ Non c’è quindi nessun dubbio, agli occhi della Corte, che la corte d’appello operò fra i genitori una differenza di trattamento che poggiava sulla religione della ricorrente, in nome di una critica severa dei principi educativi che sarebbero imposti da questa religione.
39§ Simile differenza di trattamento è discriminatoria in assenza di “giustificazione oggettiva e ragionevole”, cioè se non riposa su uno “scopo legittimo” e se non c’è “rapporto ragionevole di proporzionalità fra i mezzi impiegati e lo scopo mirato” (vedere particolarmente la sentenza Darby contro Svezia del 23 ottobre 1990, serie A n° 187, p. 12, § 31, e Hoffman contro Austria precitata, p. 59, § 33).
40§ La Corte è del parere che nella fattispecie, lo scopo perseguito, proteggere l’interesse dei bambini, è legittimo.
41§ Resta da stabilire se c’era un rapporto ragionevole di proporzionalità fra i mezzi impiegati, cioè la decisione di stabilire la residenza dei bambini presso il domicilio del padre, e lo scopo legittimo perseguito.
42§ La Corte rileva innanzitutto che, nella sua sentenza, la corte d’appello enunciò solamente, nei due paragrafi precitati, dei principi generali relativi ai testimoni di Geova.
Essa nota l’assenza di ogni elemento concreto e diretto che dimostri l’influenza della religione della ricorrente sull’educazione e la vita quotidiana dei suoi figli e particolarmente la menzione che, secondo il Governo, figurerebbe nella sentenza della corte d’appello, del fatto che la ricorrente porta i bambini con sé quando cerca di diffondere la sua fede. In questo quadro, la Corte non saprebbe contentarsi della constatazione fatta dalla corte d’appello quando essa ha rilevato che la ricorrente “non nega la sua appartenenza ai testimoni di Geova né che i due bambini ricevevano presso di lei una educazione conforme alle pratiche di questa religione”.
Essa constata ugualmente che la corte d’appello non ha ritenuto di dover aderire alla richiesta della ricorrente di far procedere a una indagine sociale, prassi corrente in materia di affidamento dei bambini; ora questa avrebbe senza dubbio permesso di raccogliere degli elementi concreti sulla vita dei bambini con l’uno e l’altro dei genitori, e sulle eventuali incidenze della pratica religiosa della madre sulla loro vita e sulla loro educazione, durante gli anni in cui essi avevano vissuto con lei dopo la partenza del padre. La Corte ritiene quindi che nella fattispecie la corte d’appello si è pronunciata in abstracto e in funzione di considerazioni di carattere generale, senza stabilire un legame fra le condizioni di vita dei bambini presso la madre e il loro interesse reale. Questa motivazione, sebbene pertinente, non appare sufficiente agli occhi della Corte.
43§ In queste condizioni, la Corte non può concludere per l’esistenza di un rapporto ragionevole di proporzionalità fra i mezzi impiegati e lo scopo mirato. Quindi, c’è stata violazione dell’articolo 8 combinato con l’articolo 14 della Convenzione.
B. Sulla violazione addotta dell’articolo 8 preso isolatamente
44§ Data la conclusione che figura nel paragrafo precedente, la Corte ritiene che non è necessario deliberare sulla violazione addotta dell’articolo 8 preso isolatamente, poiché gli argomenti presentati su questo punto sono già stati esaminati nel contesto dell’articolo 8 combinato con l’articolo 14.
II. SULLA VIOLAZIONE ALLEGATA DEGLI ARTICOLI 6 § 1 E 9, PRESO ISOLATAMENTE E COMBINATO CON L’ARTICOLO 14
45§ La ricorrente si lamenta di non aver beneficiato di un equo processo ai sensi dell’articolo 6 § 1, del fatto che la corte d’appello ha rifiutato di ordinare una indagine sociale. Ella si lamenta ugualmente dell’attacco portato alla sua libertà di religione ai sensi dell’articolo 9, del fatto che tale attacco era discriminatorio ai sensi dell’articolo 9 combinato con l’articolo 14, e invoca nelle sue osservazioni, a sostegno della sua argomentazione, l’articolo 2 del Protocollo n° 1.
46§ La Corte ritiene che non si pone nessuna questione distinta nel campo dell’articolo 6, dell’articolo 9, considerato isolatamente o combinato con l’articolo 14, o dell’articolo 2 del Protocollo n° 1, essendo le circostanze invocate le stesse dell’articolo 8 combinato con l’articolo 14, di cui la presente sentenza ha constatato la violazione.
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
47§ Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno della Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda, se del caso, , una equa soddisfazione alla parte lesa.”
A. Danno
48§ La ricorrente domanda 10.000 euro (EUR) a titolo di pregiudizio morale.
49§ Il Governo considera che una constatazione di violazione sarebbe sufficiente per riparare il pregiudizio morale subito.
50§ La Corte ha concluso per una violazione degli articoli 8 e 14 combinati dal fatto della discriminazione che la ricorrente ha subito nel quadro dell’attacco portato al rispetto della sua vita familiare. Essa ritiene che la ricorrente ha subito un certo pregiudizio morale dal fatto della violazione constatata. Deliberando in equità, essa accorda i 10.000 euro (EUR) richiesti a questo titolo dalla ricorrente.
B. Spese legali
51§ La ricorrente richiede 3.125 euro (EUR) a titolo di spese legali sostenute davanti alla Corte di cassazione e 6.000 euro a titolo di onorari del suo avvocato davanti alla Corte.
52§ Su questo punto, il Governo considera che solo le spese legali sostenute davanti alla Corte potranno eventualmente essere prese in considerazione con la riserva di essere debitamente giustificate.
53§ La Corte constata innanzitutto che il ricorso formulato dalla ricorrente davanti alla Corte di cassazione portava essenzialmente sulla violazione precedentemente constatata. Quindi, essa le accorda l’interezza delle spese sostenute per formare questo ricorso, ossia 3.125 euro.
Per quanto riguarda la presentazione del ricorso davanti a lei la Corte nota che le spese si dividono fra una consultazione di un professore universitario per un ammontare di 4.573, 47 euro e l’onorario dell’avvocato stesso, non giustificati, per un ammontare di 1 426,53 euro.
La Corte ritiene che, tenuto conto della natura del caso e del precedente giurisprudenziale esistente, la consultazione richiesta ad un universitario non era necessaria e che l’avvocato della ricorrente avrebbe potuto procedere egli stesso alle ricerche necessarie. Inoltre, non figura nel dossier nessuna giustificazione dell’ammontare dell’onorario di quest’ultimo.
In queste condizioni, la Corte accorda alla ricorrente 1.000 euro per la sua rappresentanza davanti alla Corte.
La Corte accorda dunque in totale alla ricorrente 4 125 euro per le spese.
C. Interessi moratori
54§ La Corte giudica appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso marginale d’interesse praticato dalla Banca centrale europea aumentato di tre punti di percentuale.
PER QUESTI MOTIVI , LA CORTE,
1. Dichiara, per sei voti contro uno, che c’è stata violazione dell’articolo 8 combinato con l’articolo 14 della Convenzione;
2. Dichiara, per sei voti contro uno, che non è necessario deliberare sulla violazione addotta dell’articolo 8 preso isolatamente;
3. Dichiara, all’unanimità, che non si pone nessuna questione distinta nel campo dell’articolo 6 § 1 e dell’articolo 9, preso isolatamente o combinato con l’articolo 14 della Convenzione;
4. Dichiara, all’unanimità,
a) che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a partire dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
i. 10.000 EUR (diecimila euro) per danno morale;
ii. 4.125 EUR (quattromilacentoventicinque euro) per le spese legali;
iii. ogni ammontare che possa essere dovuto a titolo di imposta sulle suddette somme;
b) che a partire dalla scadenza del predetto termine e fino al versamento, tali somme saranno maggiorate di un interesse semplice ad un tasso marginale d’interesse pari a quello praticato dalla Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti di percentuale;
5. Respinge, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il surplus.
Redatta in francese, poi comunicata per iscritto il 16 dicembre 2003 in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento.
T. L. EARLY A. B. BAKA
Cancelliere aggiunto Presidente
Alla presente sentenza si trova aggiunta, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione dissidente della Signora Thomassen.
OPINIONE DISSIDENTE DEL GIUDICE THOMASSEN
Non posso seguire la maggioranza che ritiene che la decisione della corte d’appello concernente la residenza dei figli costituisce una discriminazione fra il padre e la madre, a causa della religione della madre, testimone di Geova.
Se è vero che la corte d’appello si è pronunciata sulle implicazioni negative delle credenza dei testimoni di Geova per l’educazione dei bambini in termini molto generali, nondimeno essa ha stabilito un legame con le conseguenze negative che, secondo uno psichiatra, le convinzioni religiose della madre avevano sui figli. Inoltre, la corte d’appello ha basato la sua decisione su una lettera di uno dei bambini che parlava del suo desiderio di dimorare presso il padre e sulle dichiarazioni dei testimoni, che confermavano che i bambini avevano dichiarato che preferivano abitare con il padre.
Secondo la giurisprudenza costante della Corte, il principio direttivo che deve guidare le decisioni giudiziarie riguardo a un bambino, è l’interesse di quest’ultimo. Se necessario, l’interesse di un genitore deve esservi sottomesso.
Ogni decisione giudiziaria che interviene dopo un divorzio e che riguarda la residenza di un bambino, crea in principio una distinzione fra i due genitori, nella misura in cui possono essere determinanti per la scelta che deve essere fatta elementi quali le capacità educative e affettive, i mezzi finanziari, le condizioni di alloggio o il luogo di residenza di ognuno dei genitori. È evidente che una tale distinzione che, in un certo modo, esclude l’altro genitore dalla vita quotidiana del figlio può essere sentita da questo come ingiusta.
L’intervento di un giudice per fare una scelta fra i due genitori può essere paragonato a un giudizio di Salomone. Questo intervento è la conseguenza inevitabile della decisione delle parti di separarsi e costituisce sempre una ingerenza nella vita familiare di uno dei genitori.
In tale contesto, un tribunale può essere obbligato, nell’interesse del bambino, a guardare più da vicino le qualità e le condizioni di vita di un genitore per basare la sua decisione, anche se certe argomentazioni non basterebbero a giustificare ogni altra ingerenza dello Stato nella vita familiare di un genitore, per esempio trattandosi della protezione dei bambini.
È in tale quadro, cioè nel quadro della scelta di uno dei genitori, che la corte d’appello ha preso in considerazione le conseguenze negative delle convinzioni religiose della madre per i suoi figli.
Secondo il mio parere, questa distinzione, fatta dalla corte d’appello fra la madre e il padre basandosi sugli effetti della religione della madre, non costituisce una discriminazione contraria all’articolo 14.
In compenso, ritengo che la decisione della corte d’appello è criticabile per un’altra ragione.
Dopo che il padre ha lasciato la madre e la sua famiglia, la madre si è occupata da sola dei figli per tre anni e mezzo, sulla base della decisione giudiziaria che era stata presa. Il padre ha ignorato tale decisione impedendo, dopo le vacanze, che i figli tornassero in Spagna presso la madre.
Secondo il mio parere, la conferma di questo atto illegale che ha privato la madre del suo diritto alla vita familiare con i figli, non poteva giustificarsi senza ascoltare i bambini e/o ordinare una indagine sociale ai fini di verificare che era nell’interesse dei figli non continuare ad abitare con la madre.
L’assenza di una tale indagine che vertesse sulle relazioni fra la madre e i figli nelle circostanze di questo caso ha misconosciuto la vita familiare della madre con i figli. Sarebbe stato lo stesso se la corte d’appello avesse basato la sua decisione su considerazioni legate alle interdizioni e alle costrizioni imposte dalla madre ai bambini senza alcun legame con delle convinzioni religiose.
Ritengo che la ricorrente è stata privata di una partecipazione adeguata al processo decisionale, ciò che rende la decisione della corte d’appello arbitraria e costituisce una violazione dell’articolo 8 nei suoi confronti.
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