caso Ouajil

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

CASO  OUAJIL contro ITALIA

DECISIONE del 31 maggio 2001 SULLA RICEVIBILITA’  del Ricorso n°  38764/1997

NON ammissibilità dell’esame nel merito, della violazione allegata dal ricorrente circa la durata eccessiva (un anno e nove mesi) della sua custodia cautelare. Manifestamente infondata ai sensi dell'articolo 5 § 3 della Convenzione. Rigetto in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

NON ammissibilità dell’esame nel merito, della violazione allegata dal ricorrente circa la  non sussistenza dei requisiti di legge della sua custodia cautelare (articolo 5 § 1 c) della Convenzione).  Mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, per non aver proposto ricorso per Cassazione; rigetto in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

 

La decisione così motiva

(traduzione non ufficiale a cura della dott. Fabiola Zolotti )

SECONDA SEZIONE

DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ

Del ricorso n° 38764/1997
presentato da  Bouabid OUAJIL

contro l’Italia

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi il  31 maggio 2001in una camera composta da

C.L. Rozakis, presidente,  G. Bonello,, V. Strážnická, M. Fischbach, M. Tsatsa-Nikolovska, E. Levits,  giudici, G. Raimondi, giudice ad hoc e dal Sig. E. Fribergh, cancelliere di sezione,

 Visto il ricorso suddetto presentato davanti alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo il 25 luglio 1997 e registrato il 26  novembre 1997,

Visto l’articolo 5 § 2 del Protocollo n° 11 alla Convenzione, che ha  trasferito alla Corte la competenza per  l’esame del ricorso,

 Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle presentate in replica dal ricorrente,

Dopo  averla deliberata,  rende la seguente decisione:

IN FATTO

     Il ricorrente, Bouabid Ouajil, è un cittadino marocchino, nato nel 1967 che ha scontato la sua pena nella prigione di Brescia. Egli è rappresentato di fronte alla Corte dall'avvocato R. Vico di Bergamo.

A Le circostanze   della fattispecie.

     I fatti della causa, così come esposti dalle parti, possono riassumersi come segue.

     Nel quadro di un'inchiesta riguardante un traffico di stupefacenti, il 21 settembre 1996 21 i carabinieri effettuarono una perquisizione nell'appartamento in cui un'altra persona di nazionalità marocchina era assegnata agli arresti domiciliari nel quadro di un'altra azione giudiziaria per traffico di  stupefacenti. In questo appartamento, i carabinieri trovarono notevoli quantitativi  di droga,  nonché le chiavi di più autovetture. Il ricorrente si recò presso l'appartamento di questa persona durante lo svolgimento della perquisizione. Fu a sua volta perquisito e trovato in possesso di due mazzette di banconote del valore complessivo di 18.700.000 di lire italiane. Tale somma gli fu sequestrata e il ricorrente venne subito arrestato.

     Investigazioni ulteriori permisero di scoprire che l'accusato principale disponeva di un altro appartamento, nel quale furono trovati altri quantitativi di  stupefacenti.

     Il ricorrente chiese a più riprese la sua scarcerazione. Spiegò in particolare che il possesso  di tale somma di denaro era giustificato in parte dalla raccolta di una somma destinata alla famiglia di un connazionale recentemente deceduto e per il resto dalla vendita della sua autovettura destinata a raccogliere denaro per la sua famiglia. Con l'ordinanza dell'11 ottobre 1996, il tribunale di Milano rigettò la richiesta di riesame depositata il 3 ottobre 1996.

     In particolare, secondo il tribunale gli elementi seguenti provavano, fra l'altro, l'esistenza di gravi sospetti contro il ricorrente:

-         il fatto che al momento del suo arresto, questi  si stesse recando presso la persona che occupava l'appartamento nel quale i carabinieri avevano trovato la droga;

-         il ricorrente conosceva bene la persona occupante l'appartamento perquisito, e nel quale per di più era stata assegnata agli arresti domiciliarinel quadro di altre azioni giudiziarie per traffico di  stupefacenti;

-          il ricorrente era senza un lavoro;

-          le spiegazioni da lui avanzate apparivano poco credibili.

     Il tribunale fece valere anche il pericolo di fuga, derivante dalla nazionalità straniera del ricorrente e dalla sua disponibilità di ingenti somme di denaro. Tenuto conto delle investigazioni sempre in corso, era necessario considerare anche il pericolo che il ricorrente, nel caso in cui fosse stato liberato, avrebbe potuto cercare di contattare dei testimoni. Il tribunale sottolineò infine la gravità del reato.

 Poco dopo ebbe luogo  l'audizione di un coimputato, che aveva deciso di collaborare con la giustizia, accusato di procurarsi la droga presso l'imputato principale.

     Il caso fu in seguito trasferito al tribunale di Brescia per ragioni di competenza.

     In assenza di qualsiasi nuovo elemento, con l'ordinanza del 23 dicembre 1996, il tribunale di Brescia respinse la prima  richiesta di scarcerazione (richiesta di revoca) del ricorrente.

     L'appello interposto dal ricorrente il 10 gennaio 1997 fu a sua volta rigettato dal tribunale di Brescia il 29 gennaio 1997. Il tribunale notò che la stessa giustificazione della raccolta di denaro per la famiglia di un connazionale deceduto era stata avanzata anche da un altro coimputato anch'egli recatosi presso l'appartamento perquisito. Del resto, non si capiva il motivo per cui il ricorrente si fosse recato presso la persona occupante l'appartamento in questione per far spedire alla sua famiglia il denaro proveniente dalla pretesa vendita della sua autovettura, mentre il ricorrente  avrebbe potuto spedirlo lui stesso. Per di più, il ricorrente non aveva prodotto alcun elemento che provasse l'effettiva vendita della sua autovettura.

   In questa stessa decisione il tribunale addusse di nuovo il pericolo di fuga, aggiungendo che dal fascicolo risultava che il ricorrente aveva mantenuto dei legami con il paese d'origine, dove del resto aveva soggiornato per due mesi poco prima del suo arresto. Si richiamò anche il pericolo di collusione con dei testimoni, tenuto conto dei legami tra il ricorrente e l'imputato principale del caso, nonché la gravità del reato. Su quest'ultimo punto, il tribunale sottolineò il fatto che soltanto una misura detentiva poteva rispondere al turbamento sociale suscitato dall'infrazione in causa e l’impossibilità  che la detenzione subita sino a quel momento dal ricorrente potesse dispiegare un effetto dissuasivo, tenuto conto del tempo limitato trascorso dalla sua incarcerazione.

     Il 28 marzo 1997, la procura di Brescia si dichiarò a sua volta incompetente ed il fascicolo  fu restituito alla Procura presso il tribunale di Milano.

     Il 10 aprile 1997 il tribunale rigettò una nuova richiesta di scarcerazione (richiesta di revoca), motivando che si fondava sulle stesse ragioni già considerate prive di fondamento nelle precedenti decisioni.

   In data non ben precisata, la procura effettuò alcune verifiche presso il Consolato del Marocco. Il 21 maggio 1997, richiese il rinvio a giudizio del ricorrente.

     Nel frattempo, il ricorrente aveva di nuovo interposto appello. A sostegno di questo nuovo tentativo  aveva in particolare prodotto una dichiarazione del padre del cittadino marocchino deceduto nel settembre del 1996, secondo la quale il ricorrente aveva effettivamente organizzato una colletta di denaro in suo favore.

     Con ordinanza del 16 giugno 1997 il tribunale rigettò questo nuovo appello. Il tribunale  osservò che non si capiva il perché il ricorrente avesse chiesto al padre della persona deceduta di rilasciare la suddetta dichiarazione anziché ai connazionali che gli avevano presumibilmente versato il denaro della colletta. Del resto, la dichiarazione in questione appariva generica e non conteneva alcuna precisazione quanto alla somma raccolta; anche volendo   supporre che una colletta avesse effettivamente avuto luogo.

     Al termine dell'udienza preliminare del 24 giugno 1997, il ricorrente fu rinviato a giudizio  contestualmente  ad altri coimputati e l'udienza dibattimentale fu fissata al 4 febbraio 1998.

     Per altro, neppure un'ultima richiesta di scarcerazione (richiesta di revoca) del ricorrente, in data 4 luglio 1997, ebbe esito favorevole. In questa richiesta  il ricorrente faceva valere tra l'altro che le testimonianze raccolte nel corso dell'istruzione del fascicolo non lo avevano riguardato in  modo specifico.

     Il ricorrente non presentò ricorso in cassazione contro le decisioni che avevano rigettato i suoi appelli.

   All'udienza del 4 febbraio 1998, il tribunale procedette in particolare all'audizione dei carabinieri coinvolti nell'operazione. In altre udienze, dedicate tra l'altro all'audizione di testimoni a carico e di un coimputato oltre che alla designazione di un perito d'ufficio, ebbero luogo il 17 febbraio, il 18 marzo, il 7 e 16 aprile 1998. All'udienza del 18 maggio 1998 furono ascoltati i testimoni a discarico .

     Il dibattimento proseguì nelle udienze del 27 maggio, 5, 11 e 17 giugno 1998.

     Il 17 giugno 1998, il tribunale di Milano condannò il ricorrente alla pena di 5 anni e 4 mesi di  reclusione, oltre che al pagamento di una multa di 140.000.000 di lire. Il ricorrente interpose appello.

     Con sentenza del 15 aprile 1999, la Corte d'Appello di Milano riduceva questa pena a 4 anni e 6 mesi di   reclusione.

B Il diritto e la  prassi interni pertinenti

     Il primo comma dell'articolo 273 del codice di  procedura penale (di seguito CPP) prevede che «nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza».

     Ai sensi dell'articolo 274 CPP, misure cautelari possono essere disposte: «a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova (…); b) quando l'imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione; c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (…)».

     L'articolo 303 CPP prevede dei termini massimi di custodia cautelare in funzione dello stato del procedimento. Nel caso del ricorrente (perseguito per il reato punito dall'articolo 73 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 9 ottobre 1990), questi termini erano rispettivamente di :

-         un anno a partire dall'inizio della detenzione se la decisione di rinvio a giudizio non era ancora intervenuta (articolo 303 1.a.3 CPP);

-         un anno a partire dal rinvio a giudizio se il giudizio di primo grado non era stato ancora pronunciato (articolo 303 1.b.2 CPP);

-         un anno a partire  dalla sentenza di primo grado se la sentenza del giudice d'appello non era ancora stata pronunciata (articolo 303 1.c.2 CPP);

-         non ci sono termini dopo la sentenza della corte d'appello  tenuto conto che il ricorrente   è stato condannato in primo grado (articolo 303 1.d. CPP).

     Se la decisione di rinvio a giudizio o le diverse sentenze  non sono rese prima della scadenza di questi termini, la custodia cautelare  cessa di essere legale e l'imputato deve essere rimesso in libertà .

    L'articolo 304 CPP prevede alcune ipotesi di sospensione dei termini previsti dall'articolo 303 CPP. Tuttavia, secondo lo stesso articolo 304 in caso di sospensione dei termini la custodia cautelare non può in ogni caso superare i due terzi del massimo della pena prevista per il reato contestato all'imputato o irrogata  dalla sentenza di primo grado.

     Ai sensi del comma 2 dell'articolo 305 CPP, «nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero può chiedere la proroga dei termini di custodia cautelare che siano prossimi a scadere, quando sussistono  gravi   esigenze cautelari che, in rapporto  ad accertamenti  particolarmente complessi, rendano indispensabile a scopo preventivo il protrarsi della custodia cautelare (…) ». Una simile proroga non può essere rinnovata che una sola volta e, in ogni caso, i termini previsti dall'articolo 303 non possono essere superati oltre la metà. Inoltre, in base al comma 4 dell'articolo 303 CPP, la durata complessiva della custodia cautelare non può in ogni caso superare certi termini in funzione  della pena prevista per il reato addebitato all’interessato anche nel caso  di proroga  ai sensi  dell'articolo 305 CPP (nel caso del ricorrente il limite massimo era così di quattro anni).

     Per altro, ai sensi dell'articolo 309 CPP, la decisione che ordinasse l'incarcerazione può essere oggetto di un ricorso davanti al tribunale competente (richiesta di riesame).

     Contro una decisione sfavorevole del tribunale l'interessato può ricorrere in Cassazione (articolo 311 CPP). In effetti, l'articolo 111 della Costituzione prevede che  <<Contro  le  sentenze  e  contro  i  provvedimenti  sulla  libertà personale,  pronunciati  dagli  organi  giurisdizionali  ordinari  o speciali,  è  sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge.>>. Traendo tutte le conseguenze dall'articolo 111 della Costituzione, il secondo comma dell'articolo 311 CPP prevede che l'interessato può anche adire direttamente la Corte di cassazione contro la misura dell'incarcerazione ma in questo caso, il ricorso che eventualmente sia stato nel frattempo proposto parallelamente davanti al Tribunale diventa inammissibile.

   Successivamente, l'interessato può chiedere in ogni momento la revoca della misura detentiva e la sua scarcerazione  (richiesta di revoca). Questa richiesta deve indirizzarsi al giudice che conduce il processo in un determinato momento (articolo 299 CPP). L'interessato può in seguito interporre appello davanti al tribunale competente contro una decisione negativa del giudice, ai sensi dell'articolo 310 CPP. Ai sensi dell'articolo 311 CPP precitato la decisione del tribunale in appello può a sua volta essere oggetto di un ricorso in cassazione.

     La Corte di cassazione è giudice di diritto ed è dunque competente per esaminare il carattere pertinente della motivazione delle decisioni dei giudici e dei tribunali riguardanti in particolare le misure di privazione della libertà personale e la loro conformità ai parametri legali del diritto italiano (in questo senso si veda ad esempio la sentenza della Corte di cassazione n. 4670 del 3 gennaio 1991, terza sezione), ma non per riesaminare le circostanze di fatto alla base delle suddette decisioni.

 C La giurisprudenza della Corte di cassazione penale sull'(in)applicabilità nel diritto italiano    di alcune parti dell'articolo 5 della Convenzione

     Con la sentenza n. 15 dell'8 maggio 1989 (caso Polo Castro), la Corte di cassazione, a sezioni unite, enunciava il principio dell'applicabilità  diretta della Convenzione nel diritto italiano. La Corte di cassazione, chiamata ad applicare nel caso di specie l'articolo 5 § 4 della Convenzione, traeva questo principio da quello dell'adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale. Tuttavia  essa subordinava  l'applicazione diretta della Convenzione alla condizione che  la disposizione concretamente invocata corrispondesse ad un atto normativo interno  completo, cioè idoneo a creare obbligazioni e diritti. Questo approccio escludeva, quindi, secondo la Corte di cassazione, l'applicabilità diretta delle disposizioni troppo generali.

     Con la sentenza n. 10693 del 27 luglio 1989 (caso Verdiglione), la seconda sezione della Corte di cassazione affermava tuttavia che le violazioni della Convenzione non potevano essere alla base di un  ricorso in cassazione in quanto le sue disposizioni non erano applicabili ai rapporti giuridici interni.

  Con la sentenza n. 2823 del 20 maggio 1991 (caso Cruciani), la stessa sezione sosteneva, con riferimento all'articolo 5 § 5 della Convenzione, che questa disposizione  si limitava a prevedere in modo generico un diritto al risarcimento, di modo che ne conseguiva unicamente un obbligo per gli Stati di darvi applicazione mediante propri strumenti interni e non  la  diretta applicabilità  della disposizione in questione.

     In una sentenza del 1° agosto 1991 n. 2404 (caso Azzurrini), la sesta sezione escludeva del resto una violazione dell'articolo 5 § 4 della Convenzione in un caso concernente il carattere non perentorio del termine imposto alle autorità giudiziarie per la trasmissione del fascicolo al tribunale in caso di ricorsi contro una misura di detenzione .

     Con la sentenza n. 2549 del 28 maggio 1996 (caso Persico), la prima sezione della Corte di cassazione riteneva questa volta che l'articolo 5 § 3 della Convenzione non fosse applicabile nel diritto italiano e che la situazione denunciata dal ricorrente potesse essere considerata soltanto alla luce delle disposizioni di diritto interno, cioè dell'articolo 303 e seguenti del CPP. Rigettava quindi il ricorso, il quale denunciava il carattere irragionevole della durata della custodia cautelare sulla base delle esigenze dell'articolo 5 § 3 della Convenzione e invitava la Corte di cassazione a valutare la situazione al di là delle regole formali previste dal codice italiano.

     Allo stesso modo, la sentenza n. 2550 del 31 maggio 1997 (caso Esposito) resa dalla stessa sezione sottolineava la natura programmatica dell'articolo 5 § 3 della Convenzione.

     Con la sentenza n. 1439 del 21 maggio 1998 (caso Scattolin), la quarta sezione della Corte di cassazione considerava l'articolo 5 § 3 della Convenzione inapplicabile alla fase del dibattimento ed affermava di nuovo la natura programmatica di questa disposizione.

     Con la sentenza n. 5611 del 2 dicembre 1999 (caso Piscopo), la prima sezione della Corte di cassazione si pronunciava  sulla questione  relativa a quale doveva essere la scelta della procedura di notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza in vista del riesame di una misura detentiva, nel caso di una persona già detenuta all'estero ed  optava per la soluzione a suo avviso più conforme all'articolo 5 della Convenzione.

     Con la sentenza n. 2748 del 4 agosto 2000 (caso Aguneche B.O.), la quarta sezione della Corte di cassazione considerava la procedura di notifica dell'ordinanza di incarcerazione ad un imputato straniero conforme all'articolo 5 della Convenzione.

DOGLIANZE

     Il ricorrente si lamenta in primo luogo della durata della sua custodia cautelare,  invocando a questo riguardo l'articolo 5 § 3 della Convenzione e adducendo la debolezza degli elementi prodotti contro di lui nonché i termini relativi sia alla durata dell'istruttoria che del dibattimento.

     Egli   deduce in secondo luogo che il suo arresto non avrebbe mai dovuto essere convalidato, in quanto le circostanze non potevano qualificarsi come «flagranza di reato».

IN DIRITTO

1§ Il ricorrente si lamenta innanzitutto della durata della sua custodia cautelare, invocando a

     questo riguardo l'articolo 5 § 3 della Convenzione.

     Ai sensi di questa disposizione:

                    «Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 c ) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all'udienza».

 

2§ Il Governo solleva una eccezione di irricevibilità della richiesta dovuta al non esperimento delle vie di ricorso interne, in ragione del fatto che il ricorrente non ha presentato  ricorso in cassazione.

     A questo proposito, il ricorrente sostiene che nessuna disposizione del diritto italiano gli impedisce di far valere la garanzia enunciata all'articolo 5 § 3 della Convenzione e di ottenere la scarcerazione  nel corso dell'istruttoria. Contesta quindi l'efficacia di un  ricorso in cassazione al fine di far valere una violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione.

     Quanto al fondamento di questa doglianza, il Governo deduce  che la durata della detenzione del ricorrente non dovrebbe considerarsi siccome irragionevole.

     Il ricorrente si oppone a questa tesi.

3§ La Corte osserva che potrebbe porsi la questione di sapere se il ricorso in cassazione costituisca nel diritto italiano un rimedio efficace per lamentarsi di una durata della  di una custodia cautelare contraria  all'articolo 5 § 3 della Convenzione, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di cassazione penale italiana che afferma la non applicabilità nel diritto interno di questa disposizione della Convenzione. Tuttavia, la Corte non ritiene necessario dover decidere  questa questione in quanto anche supponendo che alcun problema di esperimento delle vie interne di ricorso sussista, questa parte del  ricorso è in ogni caso irricevibile per i motivi che seguono.

4§ La Corte rileva che la custodia cautelare controversa ha avuto inizio il 21 settembre 1996, data in cui il ricorrente è stato arrestato, ed è terminata il 17 giugno 1998, data in cui il tribunale di Milano ha condannato il ricorrente. A questo proposito, la Corte ricorda che il termine finale del periodo a cui si riferisce l'articolo 5 § 3 è «il giorno in cui si statuisce sulla fondatezza dell'accusa, anche se soltanto in primo grado» (si veda la sentenza Wemhoff c. Germania del 27 giugno 1968, serie A n. 7, p. 23, § 9). Pertanto, il periodo da considerare comprende  circa un anno e nove mesi.

     La Corte ricorda che «il termine ragionevole della detenzione non si presta ad una valutazione astratta. Il carattere ragionevole del mantenimento in stato di  detenzione di un accusato deve in ogni caso apprezzarsi secondo le particolarità del caso. Il prolungamento dell'incarcerazione non si giustifica, in una data fattispecie, se non sulla base di indici concreti che rivelino  una reale esigenza di interesse pubblico  che prevale, nonostante la presunzione d'innocenza, sulla regola del rispetto della libertà individuale»  (Labita c. Italia [GC], precitata, § 152; si veda, anche, tra le altre, la sentenza W.  c. Svizzera del 26 gennaio 1993, serie A n. 254-A, p. 15, § 30).

     Spetta innanzitutto alle autorità giudiziarie nazionali vigilare affinché, in un dato caso, la durata della custodia cautelare di un accusato non superi il limite della ragionevolezza. Il compito della Corte consiste in seguito nel determinare, sulla base dei motivi che figurano nelle decisioni delle autorità e dei fatti non controversi indicati dall'interessato nei suoi ricorsi, se la durata della custodia cautelare si giustifichi o no alla luce delle esigenze dell'articolo 5 § 3 della Convenzione.

     Come dalla Corte affermato a più riprese, se la persistenza di ragioni plausibili per sospettare che la persona arrestata abbia commesso una infrazione costituisce una condizione sine qua non che giustifica il mantenimento in detenzione, dopo un certo periodo essa non è più sufficiente. La Corte è quindi chiamata ad esaminare se gli altri motivi invocati dalle autorità continuino a legittimare la privazione della libertà e quando questi si rivelino «pertinenti» e «sufficienti», se le autorità nazionali hanno apportato una «diligenza particolare»   nella conduzione della procedura (Labita c. Italia [GC], precitata, § 152; si veda anche la sentenza Contrada c. Italia del 24 agosto 1998, Recueil 1998-V, p. 2185, § 54, e I.A. c. Francia del 23 settembre 1998,Recueil 1998-VII, p. 2978, § 102).

   La Corte osserva innanzitutto che il provvedimento di custodia cautelare del ricorrente si fondava su degli elementi sostanziali a suo carico e che nel corso di tutta la custodia cautelare nessun altro elemento ha attenuato in maniera significativa questi sospetti.

    Non essendo tuttavia la persistenza di ragioni plausibili per sospettare del ricorrente  un elemento decisivo con lo scorrere del tempo, occorre ancora che la decisione del mantenimento in  stato di detenzione si fondi su altri motivi che possano considerarsi «pertinenti e sufficienti».  A questo riguardo, la Corte fa notare che la decisione di mantenere la misura privativa della libertà contro il ricorrente si fondava essenzialmente sul pericolo di fuga, sul pericolo di pressione sui testimoni e sulla gravità dell'infrazione contestata al ricorrente.

     Quanto al pericolo di fuga, la motivazione fornita dai tribunali italiani sembrava   sufficientemente pertinente, tenuto conto della situazione del ricorrente (straniero e senza lavoro in Italia) e del persistere dei legami con il suo paese d'origine, circostanza rilevata dal tribunale di Brescia.

     Per contro, la Corte giudica meno convincenti le altre due ragioni richiamate dai tribunali, cioè il pericolo di pressione sui testimoni e la gravità dell'infrazione. La prima ragione sembra in effetti poco motivata, dato che i tribunali non hanno fornito alcun'altra spiegazione quanto al pericolo di pressione sui testimoni al di fuori del fatto che il ricorrente conoscesse l'imputato principale. Questa ragione ha del resto inevitabilmente perso la sua pertinenza a mano a mano che  progredivano le investigazioni. Quanto alla gravità dell'infrazione, la Corte ricorda che per la reazione pubblica al loro compimento certe infrazioni possono suscitare un turbamento sociale  tale da  giustificare una custodia cautelare, almeno per un periodo di tempo. Tuttavia, si potrebbe considerare questo elemento pertinente e sufficiente soltanto se riposasse su dei fatti tali da mostrare che la scarcerazione del detenuto turberebbe l'ordine pubblico. Inoltre, la detenzione rimane una misura legittima solo se l'ordine pubblico resta effettivamente minacciato; il suo protrarsi non dovrebbe servire ad anticipare una pena privativa della libertà (sentenza Letellier c. Francia del 26 giugno 1991, serie A n. 207, p. 18, § 35). Alla luce di questi principi, non convince la Corte l'affermazione fatta dal tribunale di Brescia nella sua ordinanza del 29 gennaio 1997, secondo la quale la detenzione subita fino a quel momento dal ricorrente non poteva ancora aver dispiegato un effetto dissuasivo. Le decisioni dei tribunali su questo punto sembrano in ogni caso poco motivate, nella misura in cui si limitano a ricordare in maniera generale la gravità del reato come elemento tale da giustificare il protrarsi della detenzione.

 Quindi, soltanto il pericolo di fuga sembra essere stato sufficientemente motivato. Tuttavia, a questo proposito, è il caso di ricordare che un tale pericolo si attenua necessariamente nel tempo (sentenza I.A. c. Francia, precitata, p. 2980, § 105). Pertanto, è opportuno considerare anche la questione se le autorità nazionali competenti hanno apportato  nella conduzione della procedura la diligenza richiesta in questo campo .

     La Corte  fa notare che la procura della repubblica ha richiesto il rinvio a giudizio del ricorrente il 21 maggio 1997, cioè otto mesi dopo l'arresto di quest'ultimo. Se gli elementi del fascicolo non permettono di stabilire con precisione quali atti istruttori siano  stati compiuti durante questo periodo e in quali date, alcune investigazioni hanno  effettivamente avuto luogo, in particolare la perquisizione di un altro appartamento, l'audizione del coimputato che aveva deciso di collaborare con la giustizia  ed alcune verifiche presso il Consolato del Marocco. Inoltre, nel corso di questo stesso periodo la causa era stata trasferita dal tribunale di Milano a quello di Brescia e viceversa.

     Tuttavia, anche se in seguito l'udienza preliminare ha avuto luogo il 24 giugno 1997, quindi soltanto un mese dopo il rinvio a giudizio del ricorrente, il dibattimento non è iniziato che il 4 febbraio 1998, cioè sette mesi dopo, lasso di tempo considerevole durante il quale il ricorrente è restato unicamente nell'attesa dell'inizio del processo.

     D'altra parte, a partire da quest'ultima data il dibattimento si è svolto in tempi contenuti durante i quali non è stato segnalato nessun lungo periodo di inattività. In effetti, fino alla conclusione del processo di primo grado, il 17 giugno 1998, alcune udienze, che comportavano in particolare l'audizione di più testimoni, hanno avuto luogo ogni mese.

     In conclusione, la Corte ritiene che la durata complessiva della custodia cautelare subìta dal ricorrente non risulta contraria alle esigenze dell'articolo 5 § 3 della Convenzione. Questa prima parte della richiesta è quindi manifestamente infondata e deve essere rigettata in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

5§ Il ricorrente si lamenta in secondo luogo del fatto che il suo arresto non avrebbe mai dovuto

essere  convalidato, in quanto le sue circostanze non potevano qualificarsi come «flagranza di reato» .

     La Corte ritiene che il ricorrente si lamenti in sostanza del fatto che il suo arresto non  era stato conforme alle condizioni che nel diritto italiano giustificano una custodia cautelare e conseguentemente che essa fosse illegale .  Quanto a questo profilo, la Corte ricorda che la Convenzione «esige la 'regolarità di ogni privazione di libertà.  E ciò vale anche quando ad essere invocato è l'articolo 5 § 1 c), anche se la versione francese di quest'ultimo, contrariamente alla versione inglese, non si riferisce espressamente a questa nozione. Si tratta in effetti di una nozione di carattere generale che vale per l'articolo 5 § 1 nel suo complesso  (…). La regolarità presuppone la conformità con le norme interne   sia sostanziali che di procedura nonché con lo  scopo dell'articolo 5: proteggere l'individuo contro l'arbitrio (…)»   (sentenza Kemmache c. Francia (n. 3) del 24 novembre 1994, serie A n. 296-C, p. 88, § 42). Ne consegue che questa seconda doglianza  del ricorrente deve essere esaminata sotto l'angolo  dell'articolo 5 § 1 c) della Convenzione, il quale dispone che:

        «1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge:

        (…)

<<c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso;

                (…)».

      Tenuto conto dei termini generali nei quali è formulata l'eccezione di non esperimento delle vie di ricorso interne sollevata dal Governo, essa, secondo la Corte, deve essere interpretata estendendola  parimenti a questa seconda parte della richiesta. Il ricorrente non ha preso posizione a tale riguardo .

     La Corte ricorda che «è innanzitutto alle autorità nazionali, e in particolare ai tribunali, che spetta di interpretare ed applicare il diritto interno. Tuttavia, dato che riguardo all'articolo 5 § 1, l'inosservanza del diritto interno comporta violazione della Convenzione, ne consegue che la Corte può e deve verificare se questa  legislazione è stata rispettata»  (sentenza Scott c. Spagna del 18 dicembre 1996, Recueil 1996,VI, p. 2396, § 57). La Corte nota tuttavia che in materia di libertà personale il diritto italiano attribuisce alla Corte di cassazione il controllo supremo della legalità delle misure di privazione della libertà (articoli 111 della Costituzione e 311 CPP). Il principio di sussidiarietà richiederebbe quindi che una questione di legalità relativa ad una misura detentiva sia sottoposta in ultima istanza alla Corte di cassazione prima che la stessa Corte europea ne sia adìta.

     Nella misura in cui questa doglianza del ricorrente verte essenzialmente sulla legalità della messa in detenzione dal punto di vista del diritto italiano, tale questione avrebbe potuto essere sollevata in quanto tale davanti alla Corte di cassazione. Pertanto, il ricorrente non poteva considerarsi come esonerato dall'obbligo di ricorrere in cassazione relativamente alla legalità della sua detenzione in quanto tale, dopo l'esito negativo del suo primo ricorso al tribunale di Milano contro il proprio arresto.

     E' quindi il caso di accogliere l'eccezione di non esaurimento  delle vie di ricorso interne quanto alla  doglianza    tratta dall'illegalità dell'arresto del ricorrente. Questa seconda parte  del ricorso deve quindi essere rigettata in applicazione dell'articolo 35 § 1 e 4 della Convenzione.

Per questi motivi, la Corte, all'unanimità,
Dichiara  il ricorso irricevibile.

C.L. ROZAKIS (Presidente)
E. FRIBERGH (Cancelliere)