Caso Ocalan

TURCHIA
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)
 CASO  OCALAN   contro TURCHIA
SENTENZA del 12 marzo 2003   Ricorso n°  46221/99

   

1  Principali fatti 

Abdullah Ocalan, un cittadino turco nato nel 1949 ed ex dirigente del Partito degli Operai del Kurdistan  (PKK), è attualmente  detenuto nel carcere di Imrali (Bursa, Turchia).

 Al  tempo degli eventi in questione, le giurisdizioni turche avevano emesso sette mandati di arresto del sig. Ocalan  ed un mandato di ricerca (avviso rosso) era stato distribuito dall’ Interpol.  Il  ricorrente era accusato di aver fondato una banda armata con l’obiettivo di distruggere  l'integrità territoriale  dello Stato  turco e di essere stato l’istigatore di atti di terrorismo che avevano comportato incidenti mortali.

 Il 9 ottobre 1998 il ricorrente è stato espulso dalla Siria,  dove aveva risieduto da molti anni. Egli pertanto se ne andò in Grecia, in Russia, in Italia ed ancora in Russia ed in Grecia prima di andare nel Kenia, dove, sulla sera del 15 febbraio 1999, nelle circostanze oggetto di controversia tra le parti è stato preso a bordo di un aereo nell'aeroporto di Nairobi ed è stato arrestato dai funzionari della polizia turca. L’aereo è decollato verso la Turchia. Il ricorrente durante la maggior parte del volo venne tenuto con gli occhi bendati.

Al suo arrivo in Turchia, il ricorrente fu costretto a portare  un cappuccio sopra la sua testa durante il suo trasferimento al carcere di Imrali, dove è stato tenuto in custodia cautelare dal 16 al  23 febbraio 1999 ed è stato interrogato dalle forze di polizia.  Il ricorrente non ha ricevuto l’assistenza legale da parte di un avvocato durante quel periodo ed ha rilasciato parecchie dichiarazioni atte alla sua incriminazione che hanno contribuito alla sua condanna. Al suo avvocato in Turchia è stato impedito dai membri delle forze di polizia di recarsi presso lo stesso  ricorrente. Ad altri 16 avvocati  è stato rifiutato il permesso di rendergli visita il 23 febbraio 1999.

Il 23 febbraio 1999 il ricorrente è comparso davanti ad un giudice della Corte  di Sicurezza  dello Stato di Ankara, che  ha ordinato la sua carcerazione preventiva.

Il primo colloquio con i suoi avvocati venne limitato a 20 minuti e si è svolto alla presenza – nella stessa stanza- dei membri delle forze di polizia  e di un giudice. I colloqui successivi fra il ricorrente ed i suoi avvocati hanno sono avvenuti sotto il controllo auditivo delle forze dell’ordine. Dopo  le prime due visite, i contatti del sig. Ocalan con i suoi avvocati  vennero limitati a due visite alla settimana, della durata di un’ora ciascuna. Le autorità della prigione non hanno autorizzato gli avvocati del ricorrente a fornirgli una copia dei documenti del fascicolo di causa, tranne il capo di imputazione. Soltanto all'udienza del 2 giugno 1999  la Corte  di Sicurezza  dello Stato ha dato al ricorrente il permesso consultare il fascicolo di causa sotto il controllo di due Cancellieri, e di consentire ai suoi  avvocati di fornirgli una copia di determinati documenti.

Con un capo di imputazione presentato il 24 aprile 1999  il Pubblico Ministero presso la Corte  di Sicurezza  della Stato di Ankara accusava il ricorrente di aver posto in essere delle azioni mirate a determinare la secessione di una parte del territorio turco e di aver formato e diretto con tale scopo una banda armata. Il Pubblico Ministero ha chiesto di applicare al ricorrente la pena di  morte secondo l'articolo 125 del codice penale turco. Il 29 giugno 1999 il ricorrente è stato ritenuto colpevole delle accuse a lui imputate e condannato a morte secondo l'articolo 125. La Corte  di cassazione ha confermato questa sentenza.

 

Il 30 novembre 1999 la Corte Europea dei diritti dell'Uomo, in applicazione dell’articolo 39 del Regolamento  della Corte europea (provvedimenti interinali), richiese alle autorità turche “di adottare tutte le misure necessarie perché la pena capitale non sia eseguita affinché la Corte possa proseguire efficacemente l’esame della ricevibilità e del merito delle doglianze che il ricorrente formula sul  terreno della Convenzione”.

Nel mese di ottobre del 2001, l'articolo 38 della Costituzione turca è stato emendato, nel senso di abolire la pena di morte tranne in tempo di guerra o della minaccia imminente della guerra o per gli atti di terrorismo. Secondo legge  no. 4771, pubblicata il 9 agosto 2002, la Grande Assemblea nazionale  turca ha deliberato di abolire la pena di morte nel tempo di pace. La Corte di Sicurezza  dello Stato di Ankara il 3  ottobre 2002 ha commutato la pena capitale inflitta al ricorrente  con quella dell’ergastolo.

La Corte  costituzionale il 27 dicembre 2002 ha rigettato un ricorso in annullamento delle disposizioni che abolivano la pena di morte in tempo di pace per le persone condannate per atti di terrorismo. Il 9 ottobre 2002 due sindacati che erano  intervenuti nel processo penale  presentarono un gravame contro la sentenza che aveva commutato la pena di morte del sig. Ocalan con quella dell’ergastolo. Questa procedura è ancora in corso.

2. Procedura e  composizione della Corte europea.

 Il ricorso è stato presentato davanti alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo il 16 febbraio 1999. Un'udienza è stata tenuta il 21 novembre 2000 ed il ricorso è stato dichiarato parzialmente ricevibile il 14 dicembre 2000.

La sentenza è stata resa da una camera di sette giudici, composta come segue: Elisabeth Palm (svedese), presidente, Wilhelmina Thomassen (Paesi Bassi), Gaukur Jörundsson (islandese), Riza Türmen (turco), Corneliu Bîrsan (rumeno), Josep Casadevall (Andorrano), Rait Maruste (estone), giudici, ed anche Michael O’Boyle, Cancelliere di sezione.

3. Riassunto della sentenza.

Doglianze

Il ricorrente ha presentato, in particolare, le seguenti doglianze :

  • l'inflizione  e/o l'esecuzione della pena di morte comporta  o comporterebbe violazione degli articoli 2, 3 e 14 della Convenzione; e  le condizioni in cui è stato trasferito dal Kenia in Turchia ed è stato detenuto sull'isola di Imrali concretano un trattamento inumano contrario all'articolo 3;
  • è stato privato illegalmente della sua libertà;  non è stato tradotto al più presto davanti ad un  giudice;  non ha avuto accesso ad un ricorso che gli avrebbe consentito di contestare la legalità della sua detenzione, il tutto in violazione  dell'articolo 5 §§ 1, 3 e 4 della Convenzione;
  • nel campo di applicazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, non ha beneficiato di un equo processo, in quanto non è stato giudicato da un tribunale indipendente ed imparziale, poiché vi era stata la presenza di un giudice militare all’interno della Corte  di Sicurezza  dello Stato; in quanto  i giudici sarebbero stati influenzati dai resoconti ostili dei mezzi di informazione sul suo caso; in quanto i suoi avvocati non hanno avuto un accesso sufficiente al fascicolo di causa per permettere loro di preparare correttamente la sua difesa;
  • i suoi avvocati a Amsterdam non hanno potuto mettersi in contatto con lo stesso ricorrente dopo il suo arresto e/o  che il Governo turco ha omesso di rispondere alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo a fronte dell’invito a fornire alcune informazioni, in violazione dell'articolo 34 della Convenzione.
  • Inoltre ha invocato gli articoli 7, 8, 9, 10, 13, 14 e 18 della Convenzione.

Decisione della Corte europea

Articolo 5 della Convenzione

Il Governo, con una eccezione preliminare, aveva sostenuto che le doglianze del ricorrente secondo i §§ 1, 3 e 4 dell'articolo 5 della Convenzione dovrebbero essere rigettati  per il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Nella sua decisione sulla ricevibilità  del 14 dicembre 2000, la Corte aveva ritenuto  che questa questione era legata così strettamente al merito della doglianza fondata sul § 4 dell'articolo 5 della Convenzione che non poteva  essere esaminata separatamente dalla predetta doglianza. Di conseguenza, la Corte ha esaminato l’eccezione preliminare del Governo  nel contesto della doglianza del ricorrente secondo il § 4 dell'articolo 5 della Convenzione ed ha esaminato questa doglianza in primo luogo.

Articolo 5 § 4 Convenzione (diritto di un sollecito controllo giudiziale della legalità della sua detenzione)

La  Corte osserva che, malgrado nel  1997 sia intervenuta una modifica dell’ articolo 128 del codice di procedura penale turco, che prevede chiaramente la possibilità di contestare davanti ad un giudice ogni provvedimento di custodia cautelare, il Governo non ha fornito alcun esempio di precedente  decisione di un giudice che abbia annullato   un provvedimento di custodia cautelare emesso dal  Pubblico Ministero  di una Corte  di Sicurezza  dello Stato prima della fine del quarto giorno (termine legale massimo nella disponibilità del Pubblico Ministero ).

La Corte europea ha considerato che le circostanze speciali del caso, segnatamente il fatto che il ricorrente  era stato mantenuto nell'assoluto isolamento e che gli accessi dei suoi avvocati erano stati impediti dalla polizia, hanno reso comunque  impossibile che il ricorrente facesse uso effettivo di  questo ricorso. La Corte  quindi ha rigettato l’eccezione preliminare del Governo con riferimento al § 4 dell'articolo 5 ed ha dichiarato che vi è stata una violazione di questa disposizione. Per gli stessi motivi, ha rigettato l’eccezione preliminare opposta  alle doglianze di cui ai §§ 1 e 3 dell'articolo 5 della Convenzione.

Articolo 5  § 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (divieto di ogni privazione illegale della libertà)

La Corte europea ritiene  che l’arresto e la detenzione del ricorrente  sono avvenuti conformemente agli ordini promananti dalle giurisdizioni i turche ed "allo scopo (di tradurlo) davanti l'autorità giudiziaria  competente” sulla base di “ragioni plausibili per  sospettare (che egli abbia) commesso un reato" ai sensi del § dell'articolo 5 1 (c) della Convenzione.

 Inoltre, non era stato stabilito oltre ogni dubbio ragionevole che l’operazione condotta nella  specie in parte dai funzionari della polizia  Turca ed in parte  dai funzionari della polizia del  Kenia avrebbe costituito una violazione commessa dalla Turchia in danno della sovranità del Kenia  e, conseguentemente, del diritto internazionale.

 Di conseguenza l'arresto del ricorrente il 15 febbraio 1999 e la sua detenzione dovevano essere considerati come  conformi ai  "modi previsti dalla legge " ai sensi del § 1 dell'articolo 5 della Convenzione. Di conseguenza, non vi è stata la violazione di questa disposizione.

Articolo 5 § 3 della Convenzione (diritto di essere tradotto al più presto davanti ad un giudice).

La Corte europea ha notato che il periodo totale passato dal ricorrente nella custodia della polizia in vista  di essere portato davanti ad  un giudice è stato almeno di sette giorni. La Corte non potrebbe accettare che fosse necessario mantenere in detenzione  il ricorrente per un tal periodo senza essere ascoltato da  un giudice. Vi è stata di conseguenza una violazione del § 3 dell'articolo 5 della Convenzione.

Articolo 6 della Convenzione

 Indipendenza ed imparzialità della  Corte  di Sicurezza  della Stato di Ankara, che ha condannato il ricorrente.

La Corte europea ha constatato nelle sentenze rese in precedenza che certe caratteristiche dello statuto dei giudici militari che  siedono nelle Corti di Sicurezza  della Stato sollevavano dubbi quanto all'indipendenza ed all'imparzialità delle stesse  Corti.

Nell’ottica  della Corte, la sostituzione all'ultimo minuto del giudice militare non era idonea a supplire alla lacuna nella composizione della Corte di Sicurezza dello Stato  che  aveva indotto la Corte europea a constatare una violazione su questo punto nei casi precedenti.

Nelle circostanze eccezionali del caso, inoltre, la presenza di un giudice militare poteva servire soltanto a sollevare i dubbi nella mente dell’accusato quanto all'indipendenza ed all'imparzialità della Corte di Sicurezza dello Stato.

 La Corte europea ha concluso che la Corte  di Sicurezza  della Stato di Ankara, che aveva condannato il ricorrente, non era stata un tribunale indipendente ed imparziale ai sensi del § 1 dell'articolo 6 della Convenzione. Di conseguenza, vi è stata una violazione di questa disposizione su questo punto.

Equità del processo davanti alla Corte  di Sicurezza  della Stato.

La Corte europea  ha constatato che il ricorrente non era stato assistito dai suoi avvocati nel corso del suo interrogatorio durante la custodia cautelare, che non aveva  potuto comunicare con loro al di fuori della portata di ascolto dei terzi e che il ricorrente era stato nell’impossibilità di accedere direttamente al fascicolo di causa fino ad uno stadio avanzato della procedura. Ancora, le  restrizioni erano state imposte al numero ed alla durata delle visite dei suoi avvocati e che questi ultimi non hanno avuto un adeguato accesso al fascicolo di causa se non tardivamente.

 L'insieme di queste difficoltà prese nell'insieme  ha avuto un effetto globale  talmente restrittivo dei diritti della difesa che il principio di un equo processo, come enunciato nell’articolo 6, è stato  violato. Vi è stata quindi una violazione del § 1 dell'articolo 6, combinato all'articolo 6 § 3 (b) e (c) della Convenzione.

Per quanto riguarda le altre doglianze secondo l'articolo 6 della Convenzione, la Corte ha ritenuto di aver già dato una risposta sul piano dell’essenzialità delle doglianze riguardanti la procedura a carico del ricorrente davanti alle giurisdizioni interne. Non è necessario quindi esaminare le altre doglianze secondo l'articolo 6 della Convenzione per quanto riguarda l'equità della procedura.

Articoli 2, 3 e 14 della Convenzione (pena di morte)

Il ricorrente sostiene  che l'inflizione e/o l'applicazione della pena di morte hanno costituito una violazione dell'articolo 2 - che dovrebbe essere interpretato come non più legittimante la pena capitale – e che costituisce una pena inumana e degradante ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Inoltre il ricorrente ha sostenuto che la sua esecuzione sarebbe discriminatoria , e dunque contraria all'articolo 14 della Convenzione.

 L'eccezione preliminare.

Secondo  il Governo, le doglianze  presentate dal ricorrente secondo l'articolo 2 della Convenzione dovrebbero essere dichiarate irricevibili in conseguenza del fatto che la pena di morte era stata abolita in Turchia. La Corte europea ha osservato che nel caso di specie il ricorrente era stato condannato a morte ed è detenuto da più di  tre anni nell'isolamento, nell’attesa  che si decidesse il suo destino. Fino a poco tempo fa, vi è stato motivo di temere che la sentenza di morte sarebbe stata eseguita. In più, la doglianza del ricorrente non si è riferita soltanto alla esecuzione,  ma anche alla pronuncia stessa della pensa capitale. Di conseguenza, la Corte ritiene  più adatto esaminare nel merito le questioni  sollevate dalla pena di morte.

La Corte europea quindi ha rigettato l’eccezione sollevata dal Governo.

Le questioni di merito

Per quanto riguarda l'esecuzione della pena di morte.

La Corte europea ha considerato che la minaccia dell'esecuzione della pena di morte è stata rimossa efficacemente. Non si può sostenere che ci fossero seri  motivi per temere che il ricorrente fosse giustiziato, nonostante l'appello che era ancora in corso.

In queste circostanze, le doglianze del ricorrente secondo gli articoli 2, 3 e 14 della Convenzione riguardanti l'esecuzione della pena di morte devono essere rigettate.

Per quanto riguarda la pronuncia della pena di morte.

Rimane da determinare se la condanna alla pena di morte, in sé, provocasse una violazione della Convenzione.

(i) Articolo 2 della Convenzione.

 Di primo acchito la Corte europea ritiene che nessuna questione  distinta si ponga a tal proposito nell’ambito dell'articolo 2 e ha preferito esaminare questo aspetto  secondo l'articolo 3 della Convenzione.

 

(ii) Articolo 3 letto alla luce dell'articolo 2 della Convenzione

 (a) Portata giuridica della prassi  degli Stati contraenti per quanto riguarda la pena  di morte.

La Corte europea  ricorda  che la Convenzione deve essere letta nel suo insieme e che l'articolo 3 deve intendersi in 'armonia con le disposizioni dell'articolo 2. Se l'articolo 2 della Convenzione deve essere letto come consentire la pena capitale, nonostante l'abolizione quasi universale della pena di morte in Europa, non si potrebbe interpretare l'articolo 3 come includente una proibizione generale della pena di morte, perché il chiaro dettato del § 1 dell'articolo 2 sarebbe ridotto al nulla. Di conseguenza, la Corte deve innanzitutto rispondere alle osservazioni del ricorrente, che afferma che la prassi degli Stati contraenti in subiecta materia potrebbe essere considerata una prova del loro accordo per abrogare l'eccezione prevista nella seconda frase del § 1 dell'articolo 2 della Convenzione, che consente esplicitamente la pena capitale in determinate circostanze.

Nell’ottica della Corte, non potrebbe ora essere escluso, alla luce degli sviluppi in subiecta materia, che gli Stati sono addivenuti, attraverso la prassi, a modificare la seconda frase nel § 1 dell'articolo 2 nella misura in cui questa norma consente la pena capitale in tempo di pace. In queste condizioni, si può anche pretendere che  l'esecuzione della pena di morte potrebbe essere considerata come un trattamento inumano e degradante  contrario all'articolo 3. Tuttavia, non è necessario che la Corte europea pervenga ad una definitiva  conclusione su questo punto poiché sarebbe contrario alla Convenzione di dare esecuzione ad una pena di morte all’esito di un processo non equo, anche se l'articolo 2 della Convenzione dovesse intendersi come tuttora legittimante la pena di morte.

 (b) Processo non equo, e  pena di morte.

Una privazione arbitraria di vita conforme alla pena capitale sarebbero proibiti.

Anche se la pena di morte fosse ancora oggi compatibile con l'articolo 2 della Convenzione,  è vietato infliggere la morte in maniera arbitraria in virtù della pena capitale. Ciò deriva dall’esigenza che "il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge". Un atto arbitrario non  potrebbe  essere legale sotto il regime della Convenzione.

Parimenti deriva dal requisito di cui al § 1 dell'articolo 2 della Convenzione che la morte non può essere data che in virtù dell’ "'esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un  tribunale ", che il "tribunale" che ha inflitto questa pena deve essere un tribunale indipendente ed imparziale ai sensi della giurisprudenza della Corte ; peraltro, le norme d’equità le più rigorose devono essere osservate nelle procedure penali  sia in primo grado che in appello. Poiché l'esecuzione della pena di morte è irreversibile, soltanto con l'applicazione di tali norme una morte arbitraria ed illegale può essere evitata.

La Corte deve dunque esaminare le implicazioni di questo ragionamento con riferimento alla questione sollevata secondo l'articolo 3 della Convenzione quanto al fatto di pronunciare la pena di morte. Nell’ottica della Corte, pronunciare la pena di morte nei confronti di  una persona all’esito di un  processo non equo equivale a sottoporre quella persona ingiustamente  alla paura  di essere giustiziato. La paura e l'incertezza quanto al futuro ingenerate da una sentenza di  morte, nelle circostanze in cui esiste una possibilità reale che la pena sia eseguita -come lo era nel caso di specie, in considerazione della notorietà del ricorrente e del fatto che era stato condannato per dei crimini molto gravi- devono essere state fonti di notevole angoscia per l’interessato. Tale sentimento di angoscia  non  può essere dissociato dalla non equità della procedura che è sfociata nella pena. Avendo riguardo al rifiuto delle Parti Contraenti della punizione capitale, che non può più avere il suo posto legittimo in una società democratica, ogni condanna a morte in tali circostanze deve, di per sé, essere considerata come una forma di trattamento inumano.

Il fatto di pronunciare la pena di morte nei confronti del ricorrente all’esito di un processo non equo, quindi costituisce un trattamento inumano contrario all'articolo 3 della Convenzione.

 

Articolo 3 della Convenzione (condizioni di  detenzione).

 

Le condizioni in cui  il ricorrente è stato trasferito dal Kenia in Turchia.

La Corte  considera che non era stato stabilito , attraverso delle prove "oltre ogni dubbio ragionevole", che l’arresto del ricorrente e le condizioni in cui è stato trasferito dal Kenia in Turchia abbiano ecceduto il grado usuale di umiliazione che è inerente ad ogni arresto o detenzione e che abbia  raggiunto il livello minimo di gravità richiesto dall'articolo 3 della Convenzione. Di conseguenza, non vi è stata la violazione di questa disposizione su questo punto.

Le condizioni di detenzione sull'isola di Imrali.

 La Corte ritiene che le condizioni  generali della detenzione del ricorrente nella prigione di Imrali non hanno raggiunto il livello minimo di gravità necessario per costituire il trattamento inumano o degradante ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Di conseguenza, non vi è stata la violazione di questa disposizione su questo punto.

Articolo 34 della Convenzione (diritto di ricorso individuale).

Il ricorrente si è lamentato di essere ostacolato nell'esercizio del suo diritto di ricorso individuale nella misura in cui il Governo ha omesso di rispondere alla richiesta della Corte che lo invitava a fornire informazioni e nella misura in cui i suoi avvocati ad Amsterdam non poterono prendere contatto con il ricorrente dopo il suo arresto. Il ricorrente denuncia la  violazione dell'articolo 34 della Convenzione.

Per quanto riguarda l'assenza di comunicazione tra il ricorrente ed i suoi avvocati ad Amsterdam dopo  il suo arresto, nulla indica che l'esercizio del diritto di ricorso  del ricorrente  sia stato limitato fino ad un livello considerevole.

Peraltro, la Corte ritiene che, nelle circostanze particolari  del caso e senza coinvolgere il suo parere circa la natura obbligatoria dei provvedimenti interinali  adottati ai sensi dell’articolo 39 del suo Regolamento, il rifiuto del Governo turco di fornire determinate informazioni non ha comportato violazione del diritto di ricorso individuale del ricorrente.

 

Altre  doglianze

Infine, la Corte ritiene che non è necessaria alcuna statuizione separata delle doglianze secondo gli articoli 7, 8, 9, 10, 13, 14 e 18 della Convenzione, presi da soli o combinati con le disposizioni sopraccennate della Convenzione.

 

L'articolo 41 della Convenzione .

Per la Corte, ogni danno patrimoniale non patrimoniale eventualmente sofferto dal ricorrente si trova sufficientemente compensato dalla constatazione della stessa Corte  circa le violazioni degli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione.

Per quanto riguarda i costi e le spese legali, la Corte considerato ragionevole assegnare al ricorrente un totale di EURO 100.000 per le richieste presentate complessivamente da tutti i suoi avvocati.

 Il giudice Turmen ha espresso un'opinione parzialmente dissenziente , che è annessa alla sentenza.

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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata  nei seguenti termini, riguardo alle doglianze relative alla pena di morte, ai trattamenti inumani che avrebbe subito il ricorrente, alla sua detenzione ed alle modalità del processo ritenuto non equo. (SOMMARIO, a cura dell’avv. Maurizio de Stefano) 

Detenzione

 Il Corte  ha dichiarato , all'unanimità,

•              che non vi è stata violazione dell'articolo 5  § 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (divieto di ogni privazione illegale della libertà) in quanto l’arresto  e la detenzione del ricorrente non sono risultati illegali sotto il profilo della Convenzione;

•              che  vi è stata  violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione (diritto di essere tradotto al più presto davanti ad un  giudice) in quanto il ricorrente non è stato  tradotto al più presto davanti ad un   giudice dopo il suo arresto;

•              che  vi è stata   violazione   dell'articolo 5  § 4 della Convenzione (diritto di un sollecito controllo giudiziale della legalità della detenzione)  in conseguenza della mancanza di un ricorso che avrebbe consentito al ricorrente di far controllare la legalità della sua custodia cautelare.

Equo processo

La Corte  ha dichiarato :

•              per  sei voti ad uno, che vi è stata  violazione dell'articolo 6  § 1  in quanto il ricorrente non è stato giudicato da un tribunale indipendente ed imparziale;

•              e,all'unanimità,  che vi è stata   violazione  dell'articolo 6 §1 della Convenzione ( diritto ad un equo processo) combinato con l'articolo 6 § 3 (b) (diritto di disporre del  tempo  e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa) e con l'articolo 6 § 3 (c) (diritto all’assistenza di un difensore di sua scelta), in quanto il ricorrente non ha beneficiato di un equo processo.

 

 Pena  di morte

La Corte  ha dichiarato :

•              all'unanimità, che non vi è stata violazione dell'articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita);

•              all'unanimità, che non vi è stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani o degradanti), riguardo all'applicazione della pena di morte;

•              e, per  sei voti ad uno, che  vi è stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione in quanto la pena di morte è stata dichiarata all’esito di un processo non equo.

Trattamento e condizioni subiti dal ricorrente

La Corte  ha dichiarato , all'unanimità,

•              che non vi è stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione, riguardo alle  condizioni in cui il ricorrente è stato trasferito dal Kenia in Turchia ed alle sue condizioni di detenzione sull'isola di Imrali.

 Altre doglianze

La Corte  inoltre ha dichiarato , all'unanimità:

•              che non vi è stata violazione dell'articolo 14 della Convenzione (divieto di discriminazione), combinato con l'articolo 2 per quanto riguarda l'applicazione della pena di morte;

•              che non vi è stata  violazione dell'articolo 34 della Convenzione (diritto di ricorso individuale).

Infine, la Corte  ha dichiarato , all'unanimità,

•              che non è necessario un esame separato delle restanti doglianze che il ricorrente fonda sugli articoli 7 (nulla poena sine lege), 8 ( diritto al rispetto della vita privata e  familiare), 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), 10 (libertà dell'espressione), 13 ( diritto ad un ricorso effettivo), 14 e 18 (limite all’applicazione delle restrizioni di diritti).

 

In applicazione dell'articolo 41 (equa soddisfazione), la Corte  ritiene all'unanimità che la  constatazione delle violazioni degli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione costituisca di per sé una sufficiente equa riparazione per tutti i danni subiti dal ricorrente e liquida agli avvocati del ricorrente 100.000 euro (EUR) per i costi e le spese legali.

 

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12.3.2003

Communiqué du Greffier

ARRÊT DE CHAMBRE DANS L’AFFAIRE ÖCALAN c. TURQUIE

La Cour européenne des Droits de l’Homme a communiqué aujourd’hui 12 mars 2003 par écrit son arrêt [fn] dans l’affaire Öcalan c. Turquie (requête no 46221/99) concernant les griefs du requérant relatifs, notamment, à la peine de mort, aux mauvais traitements qu’il aurait subis, à sa détention et à son procès.

Détention

La Cour dit, à l’unanimité :

•              qu’il n’y a pas eu violation de l’article 5 § 1 (interdiction de toute privation de liberté irrégulière) de la Convention européenne des Droits de l’Homme en ce que l’arrestation et la détention du requérant n’ont pas été irrégulières au regard de la Convention ;

•              qu’il y a eu violation de l’article 5 § 3 (droit d’être aussitôt traduit devant un juge) de la Convention en ce que le requérant n’a pas été aussitôt traduit devant un juge après son arrestation ;

•              qu’il y a eu violation de l’article 5 § 4 (droit de faire contrôler à bref délai la légalité de la détention) de la Convention en raison de l’absence de recours qui aurait permis au requérant de faire contrôler la légalité de sa garde à vue.

Procès équitable

La Cour dit :

•              par six voix contre une, qu’il y a eu violation de l’article 6 § 1 en en ce que le requérant n’a pas été jugé par un tribunal indépendant et impartial ;

•              et, à l’unanimité, qu’il y a eu violation de l’article 6 § 1 (droit à un procès équitable) de la Convention combiné avec l’article 6 § 3 b) (droit de disposer du temps et des facilités nécessaires à la préparation de sa défense) et c) (droit à l’assistance d’un défenseur de son choix) en ce que le requérant n’a pas bénéficié d’un procès équitable.

Peine de mort

La Cour dit :

•              à l’unanimité qu’il n’y a pas eu violation de l’article 2 (droit à la vie) de la Convention ;

•              à l’unanimité qu’il n’y a pas eu violation de l’article 3 (interdiction des traitements inhumains ou dégradants) de la Convention quant à l’application de la peine de mort ;

•              et, par six voix contre une, qu’il y a eu violation de l’article 3 de la Convention en ce que la peine de mort a été prononcée à l’issue d’un procès inéquitable.

Traitement et conditions subis par le requérant

La Cour dit, à l’unanimité :

•              qu’il n’y a pas eu violation de l’article 3 de la Convention quant aux conditions dans lesquelles le requérant a été transféré du Kenya en Turquie et à ses conditions de détention sur l’île d’İmralı.

Autres griefs

La Cour dit également, à l’unanimité :

•              qu’il n’y a pas eu violation de l’article 14 de la Convention (interdiction de la discrimination) combiné avec l’article 2 quant à l’application de la peine de mort ;

•              qu’il n’y a pas eu violation de l’article 34 de la Convention (droit de recours individuel).

Enfin, la Cour dit, à l’unanimité, qu’il n’y a pas lieu d’examiner séparément les autres griefs que le requérant tire des articles 7 (pas de peine sans loi), 8 (droit au respect de la vie privée et familiale), 9 (liberté de pensée, de conscience et de religion), 10 (liberté d’expression), 13 (droit à un recours effectif), 14 et 18 (limitation de l’usage des restrictions aux droits).

En application de l’article 41 (satisfaction équitable), la Cour estime à l'unanimité que ses constats de violation des articles 3, 5 et 6 de la Convention constituent en soi une satisfaction équitable suffisante pour tout dommage subi par le requérant et accorde aux avocats de l’intéressé 100 000 euros (EUR) pour frais et dépens.

1.  Principaux faits

Abdullah Öcalan, ressortissant turc né en 1949 et ancien dirigeant du Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK), est actuellement détenu à la prison d’İmralı (Bursa, Turquie).

Au moment des faits en question, les juridictions turques avaient décerné sept mandats d’arrêt à l’encontre de M. Öcalan, et Interpol avait émis un avis de recherche (bulletin rouge) le concernant. On reprochait au requérant d’avoir fondé une bande armée en vue de mettre fin à l’intégrité territoriale de l’Etat et d’avoir été l’instigateur d’actes de terrorisme ayant abouti à des pertes en vies humaines.

Le 9 octobre 1998, il fut expulsé de Syrie, où il résidait depuis de longues années. Il se rendit alors en Grèce, en Russie et en Italie, puis revint en Russie et en Grèce avant d’entrer au Kenya où, le soir du 15 février 1999, dans des circonstances en litige entre les parties, il fut emmené à bord d’un avion à l’aéroport de Nairobi et arrêté par des agents turcs. L’avion décolla ensuite pour la Turquie. Le requérant eut les yeux bandés pendant la majeure partie du vol.

A son arrivée en Turquie, le requérant dut porter une cagoule pendant son transfèrement à la prison d’İmralı, où il fut maintenu en garde à vue du 16 au 23 février 1999 et interrogé par les forces de l’ordre. Il ne bénéficia pas de l’assistance d’un avocat pendant cette période et fit plusieurs déclarations de nature à l’incriminer lui-même, qui contribuèrent à sa condamnation. Des membres des forces de l’ordre empêchèrent son avocat en Turquie de se rendre auprès de lui. Le 23 février 1999, on refusa à seize autres avocats l’autorisation de lui rendre visite.

Le 23 février 1999, le requérant comparut devant un juge de la cour de sûreté de l’Etat d’Ankara, qui ordonna sa mise en détention provisoire.

Le premier entretien du requérant avec ses avocats fut limité à 20 minutes et se déroula en présence – dans la même pièce – de membres des forces de l’ordre et d’un juge. Les entrevues ultérieures entre le requérant et ses avocats eurent lieu à portée d’ouïe de membres des forces de l’ordre. Après les deux premières visites, les contacts entre M. Öcalan et ses avocats furent limités à deux visites par semaine, d’une durée d’une heure chacune. Les autorités pénitentiaires refusèrent aux avocats du requérant l’autorisation de fournir à celui-ci une copie des documents versés au dossier, à l’exception de l’acte d’accusation. Ce n’est qu’à l’audience du 2 juin 1999 que la cour de sûreté de l’Etat décida d’autoriser le requérant à consulter le dossier sous la surveillance de deux greffiers, et de permettre aux avocats de l’intéressé de transmettre à leur client des copies de certains documents.

Par un acte d’accusation présenté le 24 avril 1999, le procureur de la République près la cour de sûreté de l’Etat d’Ankara reprocha au requérant d’avoir mené des activités visant à provoquer la sécession d’une partie du territoire de la Turquie et d’avoir formé et dirigé dans ce but une bande armée. Il requit la peine capitale en vertu de l’article 125 du code pénal turc. Le 29 juin 1999, le requérant fut reconnu coupable des charges portées contre lui et condamné à mort en vertu de l’article 125. La Cour de cassation confirma cette décision.

Le 30 novembre 1999, la Cour européenne des Droits de l'Homme demanda aux autorités turques, en application de l'article 39 du Règlement de la Cour (mesures provisoires), "de prendre toutes les mesures nécessaires pour que la peine capitale ne soit pas exécutée, afin que la Cour puisse poursuivre efficacement l'examen de la recevabilité et du fond des griefs que le requérant formule sur le terrain de la Convention".

En octobre 2001, l’article 38 de la Constitution fut modifié dans le sens que la peine capitale ne pourrait plus être prononcée ni exécutée sauf en temps de guerre ou de danger imminent de guerre, ou en cas d’actes terroristes. Par la loi no 4771 publiée le 9 août 2002, la Grande Assemblée nationale de Turquie décida d’abolir la peine de mort en temps de paix. Le 3 octobre 2002, la cour de sûreté de l’Etat d’Ankara commua la peine capitale infligée au requérant en réclusion à perpétuité.

Une action en annulation des dispositions abolissant la peine capitale en temps de paix pour les auteurs d’actes terroristes fut rejetée le 27 décembre 2002 par la Cour constitutionnelle. Le 9 octobre 2002, deux syndicats qui étaient intervenus dans la procédure pénale formèrent un pourvoi contre l’arrêt commuant la peine capitale infligée au requérant en réclusion à perpétuité. Cette procédure est toujours pendante.

2.  Procédure et composition de la Cour

La requête a été introduite devant la Cour européenne des Droits de l’Homme le 16 février 1999. Une audience a été tenue le 21 novembre 2000 et la requête a été déclarée en partie recevable le 14 décembre 2000.

L’arrêt a été rendu par une chambre composée de sept juges, à savoir :

Elisabeth Palm (Suédoise), présidente,

Wilhelmina Thomassen (Néerlandaise),

Gaukur Jörundsson (Islandais),

Riza Türmen (Turc),

Corneliu Bîrsan (Roumain),

Josep Casadevall (Andorran),

Rait Maruste (Estonien), juges,

 

ainsi que Michael O’Boyle, greffier de section.

3.  Résumé de l’arrêt

Griefs

Le requérant présente notamment les griefs suivants :

•              il allègue que le fait d’infliger et/ou d’appliquer la peine de mort emporte ou emporterait violation des articles 2, 3 et 14 de la Convention, et que les conditions dans lesquelles il a été transféré du Kenya en Turquie et détenu sur l’île d’İmralı s’analysent en un traitement inhumain contraire à l’article 3 ;

•              selon lui, il a été privé de sa liberté au mépris des voies légales, il n’a pas été traduit aussitôt devant un juge et n’a pas eu accès à un recours qui lui aurait permis de contester la légalité de sa détention, en violation de l’article 5 §§ 1, 3 et 4 ;

•              sur le terrain de l’article 6 § 1, il soutient ne pas avoir bénéficié d’un procès équitable, en ce qu’il n’a pas été jugé par un tribunal indépendant et impartial en raison de la présence d’un juge militaire au sein de la cour de sûreté de l’Etat, en ce que les juges auraient été influencés par les comptes rendus hostiles des médias sur son affaire et en ce que ses avocats n’ont pas eu un accès suffisant au dossier pour leur permettre de préparer convenablement sa défense ;

•              il se plaint sous l’angle de l’article 34 que ses avocats à Amsterdam n’ont pas pu prendre contact avec lui après son arrestation et/ou que le gouvernement turc a omis de répondre à une demande de la Cour européenne des Droits de l’Homme l’invitant à fournir certains renseignements.

Il invoque également les articles 7, 8, 9, 10, 13, 14 et 18 de la Convention.

Décision de la Cour

Article 5 de la Convention

Dans une exception préliminaire, le Gouvernement a allégué que les griefs du requérant au regard de l’article 5 §§ 1, 3 et 4 devaient être rejetés pour non-épuisement des voies de recours internes. Dans sa décision du 14 décembre 2000 sur la recevabilité, la Cour avait estimé que cette question était si étroitement liée au fond du grief tiré de l’article 5 § 4 qu’elle ne pouvait la dissocier de l’examen dudit grief. C’est pourquoi elle a décidé d’examiner l’exception préliminaire du Gouvernement dans le cadre de son appréciation du grief formulé par le requérant sous l’angle de l’article 5 § 4 et d’aborder ce grief en premier lieu.

Article 5 § 4 de la Convention (droit de faire contrôler à bref délai la légalité de sa détention)

La Cour observe que, nonobstant une modification de l’article 128 du code de procédure pénale turc intervenue en 1997, qui prévoit clairement la possibilité de contester devant un juge toute décision de placement en garde à vue, le Gouvernement n’a fourni aucun exemple de décision d’un juge annulant le placement en garde à vue d’un prévenu par le parquet d’une cour de sûreté de l’Etat avant la fin du quatrième jour (délai légal maximum ordonné par le parquet).

Pour la Cour, les circonstances particulières observées en l’espèce, notamment l’isolement total de l’intéressé et le fait que la police ait entravé les déplacements de ses avocats, ont de toute façon rendu impossible pour le requérant l’utilisation effective de ce recours.

En conséquence, elle rejette l’exception préliminaire du Gouvernement quant à l’article 5 § 4 et estime qu’il y a eu violation de cette disposition. Pour les mêmes motifs, elle rejette l’exception préliminaire quant aux griefs tirés de l’article 5 §§ 1 et 3

Article 5 § 1 de la Convention (interdiction de toute privation de liberté irrégulière)

La Cour estime que l’arrestation et la détention du requérant se sont déroulées conformément aux ordres émanant des juridictions turques et « en vue [de le conduire] devant l’autorité judiciaire compétente » sur la base de « raisons plausibles de [le] soupçonner [d’avoir] commis une infraction », au sens de l’article 5 § 1 c).

En outre, il n’est pas établi au-delà de tout doute raisonnable que l’opération menée en l’espèce en partie par les agents turcs et en partie par les agents kenyans aurait constitué une violation par la Turquie de la souveraineté du Kenya et, par conséquent, du droit international.

Il en résulte que l’arrestation du requérant en date du 15 février 1999 et sa détention doivent être tenues pour conformes aux « voies légales » au sens de l’article 5 § 1 de la Convention. Partant, il n’y a pas eu violation de cette disposition.

Article 5 § 3 de la Convention (droit d’être aussitôt traduit devant un juge)

La Cour constate que M. Öcalan a passé au total au moins sept jours en garde à vue avant d’être traduit devant un juge. Elle ne saurait admettre qu’il ait été nécessaire de détenir le requérant pendant autant de temps avant qu’il ne soit entendu par un magistrat. Dès lors, il y a eu violation de l’article 5 § 3.

Article 6 de la Convention

Indépendance et impartialité de la cour de sûreté de l’Etat d’Ankara qui a condamné le requérant

La Cour a constaté dans des arrêts rendus antérieurement que certaines caractéristiques du statut des juges militaires siégeant au sein des cours de sûreté de l’Etat rendaient leur indépendance et leur impartialité sujettes à caution. Elle estime que le remplacement de dernière minute du juge militaire n’était pas de nature à réparer la lacune dans la composition de la juridiction de jugement qui l’a amenée à constater une violation sur ce point dans des affaires précédentes.

De plus, dans les circonstances exceptionnelles de l’espèce, la présence d’un magistrat militaire ne pouvait que soulever des doutes dans l’esprit de l’accusé quant à l’indépendance et à l’impartialité de la cour.

La Cour conclut que la cour de sûreté de l’Etat d’Ankara qui a condamné le requérant n’était pas un tribunal indépendant et impartial au sens de l’article 6 § 1 de la Convention, lequel a donc été violé à cet égard.

Equité de la procédure devant la cour de sûreté de l’Etat

La Cour constate que le requérant n’était pas assisté par ses avocats lors de son interrogatoire durant la garde à vue, qu’il n’a pu communiquer avec eux hors de portée d’ouïe de tiers, qu’il a été dans l’impossibilité d’accéder directement au dossier jusqu’à un stade très avancé de la procédure, que des restrictions ont été imposées au nombre et à la durée des visites de ses avocats, et que ceux-ci n’ont eu un accès approprié au dossier que tardivement.

L’ensemble de ces difficultés a eu un effet global tellement restrictif sur les droits de la défense que le principe du procès équitable, énoncé à l’article 6, a été enfreint. Il y a donc eu violation de l’article 6 § 1 combiné avec l’article 6 § 3 b) et c).

Quant aux autres griefs soulevés au regard de l’article 6 de la Convention, la Cour estime avoir déjà répondu à l’essentiel des doléances portant sur la procédure suivie contre le requérant devant les juridictions internes. Il ne s’impose donc pas d’examiner les autres griefs tirés de l’article 6 relativement à l’équité de la procédure.

Articles 2, 3 et 14 de la Convention (peine de mort)

Le requérant soutient que le fait d’infliger et/ou d’appliquer la peine de mort emporte violation de l’article 2 – qu’il convient d’interpréter comme n’autorisant plus la peine capitale – et constitue une peine inhumaine et dégradante au sens de l’article 3 de la Convention. Il allègue également que son exécution serait discriminatoire, et donc contraire à l’article 14.

Question préliminaire

De l’avis du Gouvernement, les griefs présentés par le requérant sous l’angle de l’article 2 de la Convention doivent être déclarés irrecevables du fait de l’abolition de la peine de mort en Turquie. La Cour observe qu’en l’espèce, le requérant a été condamné à mort et est détenu depuis plus de trois ans en isolement, attendant que l’on décide de son sort. Jusqu’à récemment, on pouvait craindre que la sentence fût appliquée. En outre, le grief de l’intéressé ne porte pas uniquement sur l’exécution, mais également sur le prononcé même de la peine capitale. En conséquence, la Cour juge plus approprié d’examiner au fond les questions soulevées par la peine de mort.

Partant, elle rejette l’exception soulevée par le Gouvernement.

Fonds

Sur l’application de la peine de mort

La Cour estime que toute menace d’application de la peine de mort a effectivement disparu. Nonobstant le recours toujours pendant, on ne peut plus prétendre qu’il existe des motifs sérieux de croire que le requérant risque d’être exécuté.

Dans ces conditions, les griefs soulevés par le requérant au regard des articles 2, 3 et 14 concernant l’application de la peine de mort doivent être rejetés.

Sur le prononcé de la peine de mort

Il reste à déterminer si la condamnation à mort, en soi, a emporté violation de la Convention.

i. Article 2

La Cour estime d’emblée qu’aucune question distincte ne se pose à cet égard sur le terrain de l’article 2 et préfère examiner ce point sous l’angle de l’article 3.

ii. Article 3 lu à la lumière de l’article 2

a) Portée juridique de la pratique des Etats contractants concernant la peine de mort

La Cour rappelle que la Convention doit se comprendre comme un tout et qu’il y a lieu de lire l’article 3 en harmonie avec l’article 2. S’il faut interpréter l’article 2 comme autorisant la peine capitale, nonobstant l’abolition presque complète de celle-ci en Europe, on ne saurait affirmer que l’article 3 inclue une interdiction générale de la peine de mort, car le libellé clair de l’article 2 § 1 s’en trouverait réduit à néant. En conséquence, la Cour doit d’abord répondre aux observations du requérant, qui affirme que la pratique des Etats contractants en la matière peut passer pour témoigner de leur accord pour abroger l’exception prévue par la deuxième phrase de l’article 2 § 1, laquelle autorise explicitement la peine capitale dans certaines conditions.

Pour la Cour, on ne saurait exclure, à la lumière de l’évolution en la matière, que les Etats sont convenus, par leur pratique, d’amender la deuxième phrase de l’article 2 § 1 dans la mesure où cette disposition autorise la peine de mort en temps de paix. Dans ces conditions, on peut tout aussi bien prétendre que l’exécution de la peine de mort doit être considérée comme un traitement inhumain et dégradant contraire à l’article 3. Toutefois, il est inutile que la Cour parvienne à une conclusion définitive sur ce point puisqu’il serait contraire à la Convention, même si l’article 2 de celle-ci devait être interprété comme autorisant toujours la peine de mort, d’exécuter une telle peine à l’issue d’un procès inéquitable.

b) Procédure inéquitable et peine de mort

Quand bien même l’article 2 autoriserait-il encore aujourd’hui la peine de mort, il est interdit d’infliger la mort de façon arbitraire en vertu de la peine capitale. Cela découle de l’exigence que « le droit de toute personne à la vie [soit] protégé par la loi ». Un acte arbitraire ne saurait être régulier au regard de la Convention.

Il découle également de l’exigence contenue dans l’article 2 § 1 que la mort ne peut être donnée qu’en vertu de « l’exécution d’une sentence capitale prononcée par un tribunal », et que le « tribunal » qui inflige cette peine doit être un tribunal indépendant et impartial au sens de la jurisprudence de la Cour ; par ailleurs, les normes d’équité les plus strictes doivent être observées dans la procédure pénale tant en première instance qu’en appel. L’exécution de la peine capitale étant irréversible, ce n’est que par l’application de telles normes qu’une mort arbitraire et illégale peut être évitée

La Cour doit donc examiner les implications de ce raisonnement pour la question soulevée au regard de l’article 3 quant au fait de prononcer la peine de mort.

Pour la Cour, prononcer la peine capitale à l’encontre d’une personne à l’issue d’un procès inéquitable équivaut à soumettre injustement cette personne à la crainte d’être exécutée. La peur et l’incertitude quant à l’avenir engendrées par une sentence de mort, dans des circonstances où il existe une possibilité réelle que la peine soit exécutée – comme tel était le cas en l’espèce, compte tenu de la notoriété du requérant et du fait qu’il a été condamné pour des crimes très graves – doivent être sources d’une angoisse considérable chez l’intéressé. Ce sentiment d’angoisse ne peut être dissocié de l’iniquité de la procédure qui a débouché sur la peine. Eu égard au rejet par les Parties contractantes de la peine capitale, qui ne passe plus pour avoir sa place dans une société démocratique, toute condamnation à mort en de telles circonstances doit, en soi, être tenue pour une forme de traitement inhumain.

Le fait de prononcer la peine de mort à l’encontre du requérant à l’issue d’un procès inéquitable s’analyse donc en un traitement inhumain contraire à l’article 3.

Article 3 de la Convention (conditions de détention)

Les conditions du transfert du Kenya en Turquie

La Cour considère qu’il n’est pas établi, par des preuves « au delà de tout doute raisonnable », que l’arrestation du requérant ainsi que les conditions de son transfert du Kenya en Turquie aient eu des effets dépassant l’élément habituel d’humiliation inhérent à chaque arrestation ou détention et aient atteint le degré minimum de gravité requis par l’article 3 de la Convention. Partant, il n’y a pas eu violation de cette disposition sur ce point.

Les conditions de détention sur l’île d’İmralı

Pour la Cour, les conditions générales de la détention du requérant à la prison d’İmralı n’ont pas atteint le seuil minimum de gravité nécessaire pour constituer un traitement inhumain ou dégradant au sens de l’article 3 de la Convention. En conséquence, il n’y a pas eu violation de cette disposition de ce chef.

Article 34 de la Convention (droit de recours individuel)

Le requérant se plaint d’avoir été entravé dans l’exercice de son droit de recours individuel dans la mesure où le Gouvernement a omis de répondre à la demande de la Cour l’invitant à fournir des renseignements et où ses avocats à Amsterdam ne purent le contacter après son arrestation. Il allègue la violation de l’article 34 de la Convention.

En ce qui concerne l’absence de communication entre le requérant et ses avocats à Amsterdam après son arrestation, rien n’établit donc que l’exercice du droit de recours individuel de l’intéressé ait été entravé à un degré notable.

Par ailleurs, la Cour estime que, dans les circonstances particulières de l’affaire et sans préjuger de son opinion sur la nature obligatoire des mesures provisoires prises en vertu de l’article 39 de son règlement, le refus du gouvernement turc de fournir certains renseignements n’a pas emporté violation du droit de recours individuel du requérant.

Autres griefs

Enfin, la Cour estime qu’il ne s’impose pas de statuer séparément sur les griefs relevant des articles 7, 8, 9, 10, 13, 14 et 18 de la Convention, pris isolément ou combinés avec les dispositions susmentionnées de la Convention.

Article 41 de la Convention

Pour la Cour, tout dommage éventuellement subi par le requérant se trouve suffisamment compensé par ses constats de violation des articles 3, 5 et 6 de la Convention.

Quant aux frais et dépens, elle juge raisonnable d’allouer au requérant une somme de 100 000 EUR pour les demandes présentées par l’ensemble de ses avocats.

Le juge Türmen a exprimé une opinion en partie dissidente dont le texte se trouve joint à l’arrêt.

 

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12.3.2003

Press release issued by the Registrar

CHAMBER JUDGMENT IN THE CASE OF ÖCALAN v. TURKEY

The European Court of Human Rights has today 12 march 2003 notified in writing a judgment [fn] in the case of Öcalan v. Turkey (application no. 46221/99) concerning the applicant’s complaints relating, in particular, to the death penalty, alleged ill-treatment and his detention and trial.

Detention

The Court held, unanimously, that there had been:

•              no violation of Article 5 § 1 (no unlawful deprivation of liberty) of the European Convention on Human Rights in that the applicant’s arrest and detention had not been

•              unlawful under the Convention;

•              a violation of Article 5 § 3 (right to be brought promptly before a judge) given the failure to bring the applicant before a judge promptly after his arrest;

•              a violation of Article 5 § 4 (right to have lawfulness of detention decided speedily by a court) given the lack of a remedy by which the applicant could have the lawfulness of his detention in police custody decided.

Fair trial

The Court held:

•              by six votes to one, that there had been a violation of Article 6 § 1 in that the applicant was not tried by an independent and impartial tribunal;

•              and unanimously that there had been a violation of Article 6 § 1 (right to a fair trial), taken together with Article 6 § 3 (b) (right to adequate time and facilities for preparation of defence) and (c) (right to legal assistance), in that the applicant did not have a fair trial.

Death penalty

The Court held:

•              unanimously, that there had been no violation of Article 2 (right to life);

•              unanimously, that there had been no violation of Article 3 (prohibition of ill-treatment) of the Convention, concerning the implementation of the death penalty;

•              and, by six votes to one, that there had been a violation of Article 3 concerning the imposition of the death penalty following an unfair trial.

Treatment and conditions

The Court held, unanimously, that there had been:

•              no violation of Article 3 of the Convention, concerning the conditions in which the applicant was transferred from Kenya to Turkey and the conditions of his detention on the island of İmralı.

Other complaints

The Court also held, unanimously, that there had been:

•              no violation of Article 14 of the Convention (prohibition of discrimination), taken together with Article 2 as regards the implementation of the death penalty;

•              no violation of Article 34 of the Convention (right of individual application).

Finally the Court held, unanimously, that no separate examination was necessary of the applicant’s remaining complaints under Articles 7 (no punishment without law), 8 (right to respect for private and family life), 9 (freedom of thought, conscience and religion), 10 (freedom of expression), 13 (right to an effective remedy), 14 and 18 (limitation on use of restrictions on rights).

Under Article 41 (just satisfaction), the Court held unanimously that its findings of a violation of Articles 3, 5 and 6 of the Convention constituted in themselves sufficient just satisfaction for any damage sustained by the applicant and awarded the applicant’s lawyers 100,000 euros (EUR) for costs and expenses.

1.  Principal facts

Abdullah Öcalan, a Turkish national born in 1949 and former leader of the Kurdistan Workers’ Party (PKK), is currently incarcerated in İmralı Prison (Bursa, Turkey).

At the time of the events in question, the Turkish courts had issued seven warrants for Mr Öcalan’s arrest and a wanted notice (red notice) had been circulated by Interpol. He was accused of founding an armed gang in order to destroy the integrity of the Turkish State and of instigating terrorist acts resulting in loss of life.

On 9 October 1998 he was expelled from Syria, where he had been living for many years. From there he went to Greece, Russia, Italy and then again Russia and Greece before going to Kenya, where, on the evening of 15 February 1999, in disputed circumstances he was taken on board an aircraft at Nairobi airport and arrested by Turkish officials. He was then flown to Turkey, being kept blindfolded for most of the flight.

On arrival in Turkey, a hood was placed over his head while he was taken to İmralı Prison, where he was held in police custody from 16 to 23 February 1999 and questioned by the security forces. He received no legal assistance during that period and made several self-incriminating statements which contributed to his conviction. His lawyer in Turkey was prevented from travelling to visit him by members of the security forces. 16 other lawyers were also refused permission to visit on 23 February 1999.

On 23 February 1999 the applicant appeared before an Ankara State Security Court judge, who ordered him to be placed in pre-trial detention.

The first visit from his lawyers was restricted to 20 minutes and took place with members of the security forces and a judge present in the same room. Subsequent meetings between the applicant and his lawyers took place within the hearing of members of the security forces. After the first two visits from his lawyers, the applicant’s contact with them was restricted to two one-hour visits a week. The prison authorities did not authorise the applicant’s lawyers to provide him with a copy of the documents in the case file, other than the indictment. It was not until the hearing on 2 June 1999 that the State Security Court gave the applicant permission to consult the case file under the supervision of two registrars and his lawyers permission to provide him with a copy of certain documents.

In an indictment filed on 24 April 1999 the Public Prosecutor at Ankara State Security Court accused the applicant of carrying out actions calculated to bring about the separation of a part of Turkish territory and of forming and leading an armed gang to achieve that end. The Public Prosecutor asked the court to sentence the applicant to death under Article 125 of the Criminal Code. On 29 June 1999 the applicant was found guilty as charged and sentenced to death under Article 125. The Court of Cassation upheld the judgment.

On 30 November 1999 the European Court of Human Rights, applying Rule 39 of the Rules of Court (interim measures), requested the Turkish authorities "to take all necessary steps to ensure that the death penalty [was] not carried out so as to enable the Court to proceed effectively with the examination of the admissibility and merits of the applicant’s complaints under the Convention".

In October 2001 Article 38 of the Turkish Constitution was amended, abolishing the death penalty except in time of war or of imminent threat of war or for acts of terrorism. Under Law no. 4771, published on 9 August 2002, the Turkish Assembly resolved to abolish the death penalty in peacetime. On 3 October 2002 Ankara State Security Court commuted the applicant’s death sentence to life imprisonment.

An application to set aside the provision abolishing the death penalty in peacetime for persons convicted of terrorist offences was dismissed by the Constitutional Court on 27 December 2002. On 9 October 2002 two trade unions which had intervened in the criminal proceedings lodged an appeal on points of law against the decision to commute Mr Öcalan’s death sentence to life imprisonment. These proceedings are still pending.

2.  Procedure and composition of the Court

The application was lodged with the European Court of Human Rights on 16 February 1999. A hearing was held on 21 November 2000 and the case was declared partly admissible on 14 December 2000.

Judgment was given by a Chamber of seven judges, composed as follows:

Elisabeth Palm (Swedish), President,

Wilhelmina Thomassen (Netherlands),

Gaukur Jörundsson (Icelandic),

Riza Türmen (Turkish),

Corneliu Bîrsan (Romanian),

Josep Casadevall (Andorran),

Rait Maruste (Estonian), judges,

 

and also Michael O’Boyle, Section Registrar.

3.  Summary of the judgment

Complaints

The applicant complained, in particular, that:

•              The imposition and/or execution of the death penalty was or would be in violation of Articles 2, 3 and 14 of the Convention; and that the conditions in which he was transferred from Kenya to Turkey and detained on the island of İmralı amounted to inhuman treatment in breach of Article 3;

•              He was deprived of his liberty unlawfully; that he was not brought promptly before a judge; and that he did not have access to proceedings to challenge the lawfulness of his detention, in breach of Article 5 §§ 1, 3 and 4;

•              He did not have a fair trial because he was not tried by an independent and impartial tribunal, given the presence of a military judge on the bench of the State Security Court; that the judges were influenced by hostile media reports; and that his lawyers were not given sufficient access to the court file to enable them to prepare his defence properly, in breach of Article 6 § 1;

•              His legal representatives in Amsterdam were prevented from contacting him after his arrest and/or that the Turkish Government failed to reply to the European Court of Human Right’s request for them to supply information, in violation of Article 34.

He also relied on Articles 7, 8, 9, 10, 13, 14  and 18 of the Convention.

Decision of the Court

Article 5 of the Convention

The Government, by way of preliminary objection, had argued that the applicant’s complaints under Article 5 §§ 1, 3 and 4 should be rejected for failure to exhaust domestic remedies. In its admissibility decision of 14 December 2000, the Court had noted that this question was so closely related to the merits of the complaints under Article 5 § 4 that it could not be detached from that complaint. Accordingly, the Court examined the Government’s preliminary objections in the context of the applicant’s claim under Article 5 § 4 and addressed that complaint first.

Article 5 § 4 of the Convention (right to have lawfulness of detention decided speedily by a court)

The Court observed that, despite a 1997 amendment to Article 128 of the Turkish Code of Criminal Procedure which clearly established a right under Turkish law to challenge in the courts decisions to hold a suspect in police custody, the Government had not furnished any example of a judicial decision in which an order by the public prosecutor’s office at a State Security Court for a suspect to be held in police custody had been quashed before the end of the fourth day (the statutory maximum period for which the public prosecutor’s office may order suspects to be held).

The Court considered that in any event the special circumstances of the case, notably the fact that he had been kept in isolation and that his lawyers had been obstructed by the police, made it impossible for the applicant to have effective recourse to this remedy.

The Court therefore dismissed the Government’s preliminary objection in respect of Article 5 § 4 and held that there had been a violation of that provision. For the same reasons, it rejected the preliminary objection in respect of the complaints under Article 5 §§ 1 and 3.

Article 5 § 1 of the Convention (no unlawful deprivation of liberty)

The Court found that the applicant’s arrest and detention had complied with orders that had been issued by the Turkish courts "for the purpose of bringing him before the competent legal authority on reasonable suspicion of having committed an offence" within the meaning of Article 5 § 1 (c).

Moreover, it had not been established beyond all reasonable doubt that the operation carried out in the instant case partly by Turkish officials and partly by Kenyan officials amounted to a violation by Turkey of Kenyan sovereignty and, consequently, of international law.

It followed that the applicant’s arrest on 15 February 1999 and his detention were to be regarded as having been in accordance with "a procedure prescribed by law" for the purposes of Article 5 § 1 of the Convention. Consequently, there had been no violation of that provision.

Article 5 § 3 of the Convention (right to be brought promptly before a judge)

The Court noted that the total period spent by the applicant in police custody before being brought before a judge came to a minimum of seven days. It could not accept that it was necessary for the applicant to be detained for such a period without being brought before a judge. There had accordingly been a violation of Article 5 § 3.

Article 6 of the Convention

Whether the Ankara State Security Court, which convicted the applicant, was independent and impartial

The Court had found in earlier judgments that certain aspects of the status of military judges sitting in the State Security Courts raised doubts as to the independence and impartiality of the courts concerned. In the Court’s view, the last-minute replacement of the military judge was not capable of curing the defect in the composition of the court which had led it to find a violation on this point in previous judgments.

In the exceptional circumstances of the case, moreover, the presence of a military judge could only have served to raise doubts in the accused’s mind as to the independence and impartiality of the court.

The Court concluded that the Ankara State Security Court, which had convicted the applicant, had not been an independent and impartial tribunal within the meaning of Article 6 § 1 of the Convention. Consequently, there had been a violation of that provision on that point.

Whether the proceedings before the State Security Court were fair

The Court noted that the applicant had not been assisted by his lawyers when questioned in police custody, had been unable to communicate with them out of hearing of third parties and had been unable to gain direct access to the case file until a very late stage in the proceedings. Furthermore, restrictions had been imposed on the number and length of his lawyers’ visits and his lawyers had not been given proper access to the case file until late in the day.

The overall effect of these difficulties taken as a whole had so restricted the rights of the defence that the principle of a fair trial, as set out in Article 6, had been contravened. There had therefore been a violation of Article 6 § 1, taken together with Article 6 § 3 (b) and (c).

As regards the other complaints under Article 6 of the Convention, the Court took the view that it had already dealt with the applicant’s main grievances arising out of the proceedings against him in the domestic courts. It was therefore unnecessary to examine the other complaints under Article 6 relating to the fairness of the proceedings.

Articles 2, 3 and 14 of the Convention (death penalty)

The applicant maintained that the imposition and/or execution of the death penalty constituted a violation of Article 2 – which should be interpreted as no longer permitting capital punishment – as well as an inhuman and degrading punishment in violation of Article 3 of the Convention. He also claimed that his execution would be discriminatory in breach of Article 14.

Preliminary issue

The Government had submitted that the allegations raised by the applicant under Article 2 of the Convention should be rejected as inadmissible on the grounds that the death penalty had now been abolished in Turkey. The Court observed that in the present case the applicant had been sentenced to death and had spent more than three years detained in isolation awaiting a determination of his fate. Up until recently there had been reason to fear that the death sentence would be implemented. In addition, his complaint related not only to the question of the implementation of the sentence but also to that of its imposition. Accordingly, it was more appropriate to examine the issues raised by the death penalty on the merits.

The Court therefore rejected the Government’s plea.

Merits

As regards the implementation of the death penalty

The Court considered that the threat of implementation of the death sentence had been effectively removed. It could no longer be said that there were substantial grounds for fearing that the applicant would be executed, notwithstanding the appeal which was still pending.

In those circumstances, the applicant’s complaints under Articles 2, 3 and 14 based on the implementation of the death penalty were to be rejected.

As regards the imposition of the death penalty

It remained to be determined whether the imposition of the death penalty, in itself, gave rise to a breach of the Convention.

(i) Article 2

At the outset the Court considered that no separate issue arose under the present head as regards Article 2 and preferred to examine this question under Article 3.

(ii) Article 3 read against the background of Article 2

(a) Legal significance of the practice of the Contracting States as regards the death penalty

The Court reiterated that the Convention was to be read as a whole and that Article 3 was to be construed in harmony with the provisions of Article 2. If Article 2 was to be read as permitting capital punishment, notwithstanding the almost universal abolition of the death penalty in Europe, Article 3 could not be interpreted as prohibiting the death penalty since that would nullify the clear wording of Article 2 § 1. Accordingly, the Court had first to address the applicant’s submission that the practice of the Contracting States in this area could be taken as establishing an agreement to abrogate the exception provided for in the second sentence of Article 2 § 1, which explicitly permitted capital punishment under certain conditions.

In the Court’s view, it could not now be excluded, in the light of the developments that had taken place in this area, that the States had agreed through their practice to modify the second sentence in Article 2 § 1 in so far as it permitted capital punishment in peacetime. Against this background it could also be argued that the implementation of the death penalty could be regarded as inhuman and degrading treatment contrary to Article 3. However, it was not necessary to reach any firm conclusion on this point since it would run counter to the Convention, even if Article 2 were to be construed as still permitting the death penalty, to implement a death sentence following an unfair trial.

(b) Unfair proceedings and the death penalty

Even if the death penalty were still permissible under Article 2, an arbitrary deprivation of life pursuant to capital punishment would be prohibited. This flowed from the requirement that "Everyone’s right to life shall be protected by law". An arbitrary act could not be lawful under the Convention.

It also followed from the requirement in Article 2 § 1 that the deprivation of life be pursuant to the "execution of a sentence of a court", that the "court" which imposed the penalty must be an independent and impartial tribunal within the meaning of the Court’s case-law and that the most rigorous standards of fairness had to be observed in the criminal proceedings both at first instance and on appeal. Since the execution of the death penalty was irreversible, it could only be through the application of such standards that an arbitrary and unlawful taking of life could be avoided.

The Court had then to examine the implications for the issue under Article 3 concerning the imposition of the death penalty.

In the Court’s view, to impose a death sentence on a person after an unfair trial was to subject that person wrongfully to the fear that he would be executed. The fear and uncertainty as to the future generated by a sentence of death, in circumstances where there existed a real possibility that the sentence would be enforced, as was the case for the applicant in view of his high profile and the fact that he had been convicted of the most serious crimes, must give rise to a significant degree of human anguish. Such anguish could not be dissociated from the unfairness of the proceedings underlying the sentence. Having regard to the rejection by the Contracting Parties of capital punishment, which was no longer seen as having any legitimate place in a democratic society, the imposition of a capital sentence in such circumstances had to be considered, in itself, to amount to a form of inhuman treatment.

The imposition of the death sentence on the applicant following an unfair trial had therefore amounted to inhuman treatment in violation of Article 3.

Article 3 of the Convention (conditions of detention)

Conditions in which the applicant was transferred from Kenya to Turkey

The Court considered that it had not been established "beyond all reasonable doubt" that the applicant’s arrest and the conditions in which he was transferred from Kenya to Turkey exceeded the usual degree of humiliation that was inherent in every arrest and detention or attained the minimum level of severity required for Article 3 of the Convention to apply. Consequently, there had been no violation of that provision on this point.

Conditions of detention on the island of İmralı

The Court found that the general conditions in which the applicant was being detained at İmralı Prison had not reached the minimum level of severity necessary to constitute inhuman or degrading treatment within the meaning of Article 3 of the Convention. Consequently, there had been no violation of that provision on that account.

Article 34 of the Convention (right of individual petition)

The applicant complained of being hindered in the exercise of his right of individual application in that his legal representatives in Amsterdam had not been permitted to contact him after his arrest and/or the Government had failed to reply to the Court’s request for them to supply information. He alleged a violation of Article 34 of the Convention.

As regards the applicant’s inability to communicate with his lawyers in Amsterdam following his arrest, there was nothing to indicate that the exercise of the applicant’s right to individual application was impeded to any significant extent.

Moreover the Court found, without prejudice to its views on the binding nature of interim measures under Rule 39, that in the special circumstances of the case the refusal of the Turkish Government to provide certain information did not amount to a violation of the applicant’s right of individual application.

Remaining complaints

Finally, the Court considered that no separate examination of the complaints under Articles 7, 8, 9, 10, 13, 14 and 18 of the Convention, taken alone or together with the aforementioned provisions of the Convention, was necessary.

Article 41 of the Convention

The Court took the view that any pecuniary or non-pecuniary damage that the applicant might have sustained had been sufficiently compensated by its findings of a violation of Articles 3, 5 and 6 of the Convention.

As regards costs and expenses, the Court considered it reasonable to award the applicant a total of EUR 100,000 in respect of the claims made by all his legal representatives.

Judge Türmen expressed a partly dissenting opinion, which is annexed to the judgment