Caso Luca'

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
 CASO  LUCA’  contro ITALIA
sentenza del 27 febbraio 2001
(Ricorso n° 33354/1996)
 

GIUSTO PROCESSO - Impossibilità dell’imputato di interrogare i testimoni a suo carico, in quanto esentati dal testimoniare ex art. 513 c.p.p. – Violazione dell’art. 6, comma 1 e comma 3, lettera d) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950- Sussistenza se la condanna dell’imputato è fondata sulle sole dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari.

La sentenza di condanna penale di un imputato non può essere fondata esclusivamente sulle dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari da coloro  che ai sensi dell’art. 513 codice procedura penale italiano si sono legittimamente avvalsi della facoltà di non rispondere nel successivo dibattimento, in quanto ogni accusato, ai sensi dell'articolo 6, comma 1 e comma 3, lettera d) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ha il diritto di interrogare o far i testimoni a suo carico, rientrando in tale qualifica non solo i testimoni  “stricto sensu”, ma anche anche i testimoni coimputati.

I giudici nazionali devono  applicare le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO – Strasburgo – Sez. I , Presidente  E. Palm, sentenza del   27 febbraio 2001  (Ricorso n°  33354/1996)  nel caso Nicola   Lucà (avv. F. Macrí)  contro Italia (prof. U. Leanza, dott. V. Esposito).

La sentenza così motiva

(traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)

Nel caso  LUCA’ contro Italia

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (prima sezione), riunita nella Camera composta da: presidente Signora Elisabeth Palm (svedese) e dai giudici Signora Wilhelmina Thomassen (olandese), Signor Benedetto Conforti(italiano), Signor Gaukur Jörundsson (islandese), Signor Corneliu Bîrsan(romeno), Signor Josep Casadevall (andorrano), Signor BoštjanZupancic (sloveno) e  dal Cancelliere di sezione Signor  Michael O’Boyle,

Dopo averla deliberata nella camera di consiglio del 6 febbraio 2001, Pronuncia la seguente sentenza  che  ha adottato in tale data.

 

PROCEDURA

1 . Il caso ha origine da un ricorso (no.  33354/1996) contro l' Italia  proposto  il 17 gennaio 1994 da un cittadino di questo Stato, Signor Nicola  Lucà (<<il   ricorrente >>) davanti alla Commissione Europea dei diritti dell'uomo (" la Commissione ") nel vigore del vecchio Articolo 25 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (" la Convenzione") .

2. . Il ricorrente è rappresentato  dal sig. F. Macrí, avvocato del foro di Reggio Calabria.  Il Governo italiano (" il Governo ") è rappresentato dal suo Agente, il Sig. Umberto Lenza Capo del servizio del Contenzioso Diplomatico al Ministero degli Affari Esteri, assistito dal Sig. V. Esposito, Coagente del Governo italiano presso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo.

3. Invocando l’articolo 6 §§ 1 e  3  d) della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni pronunciate da una persona  che egli non avrebbe mai avuto la possibilità d’interrogare o di fare interrogare.

4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1 novembre 1998, quando è entrato in vigore il Protocollo  no. 11 aggiuntivo alla Convenzione (Articolo 5, § 2  del Protocollo no. 11).

5. Il ricorso è stato assegnato alla Prima Sezione della Corte (Articolo 52 § 1 del Regolamento della Corte).  All'interno di questa Sezione, la Camera che doveva esaminare il caso (Articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita nella maniera prevista dall’Articolo 26 § 1 del Regolamento della Corte. 

6. Con decisione del  9 marzo 1999, la Corte ha dichiarato il  ricorso ricevibile.  

Tanto il ricorrente che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito del caso (articolo 59 § 1 del Regolamento).

 

IN FATTO

 

I . LE CIRCOSTANZE DEL CASO

  8. Il ricorrente, nato nel 1955, è attualmente detenuto nella prigione di Cosenza.

  9.  Il 25 ottobre 1992, i signori  N. e  il signor C. furono arrestati dai carabinieri di Roccella Jonica (Reggio  Calabria) e trovati in possesso di cocaina.

  10.  Il 25 ed il 26 ottobre 1992,  il signor N. fu interrogato prima dai carabinieri, poi dal Procuratore della Repubblica di Locri (Reggio  Calabria). Egli dichiarò di aver ricevuto una parte degli stupefacenti dal signor  C. per   suo consumo personale, mentre il resto apparteneva esclusivamente a quest’ultimo. Egli indicò inoltre che il  giorno del loro arresto, il signor C. l’aveva accompagnato da certe persone per  cercare di comperare la droga.  Dopo il pasto della sera, essi si sarebbero recati presso il ricorrente,  che si sarebbe dichiarato disposto a fornire 500 grammi di cocaina. La consegna doveva aver luogo nei giorni seguenti, perché il ricorrente non voleva accettare un pagamento differito e non poteva lasciare la sua abitazione dopo le ore 20 per   cercare la droga.

  11.  Al tempo dell’interrogatorio presso i carabinieri,   il signor N. fu ascoltato a titolo d’informazione sul caso (<< persona che puó riferire circostanze utili ai fini delle indagini >>) e non in qualità di accusato. Per questa ragione, egli non fu  assistito da un avvocato. Tuttavia, il Procuratore della Repubblica di Locri reputò successivamente che il signor N. doveva essere considerato come una << persona sospettata di aver commesso una infrazione >> (<< indagato >>). Costui fu dunque interrogato in quanto tale dal Procuratore della Repubblica.

  12.  Con una ordinanza del 12 febbraio 1993, il giudice delle indagini preliminari di Locri rinviò a giudizio il ricorrente, il signor C. e due altre persone, i signori A. e T.,  davanti al tribunale di Locri per traffico di stupefacenti.  Il signor A. era inoltre accusato di detenzione illegale di armi. Un procedimento separato per detenzione di droga fu aperto contro il signor N..

  13.  All’udienza del 17 luglio 1993, il signor N. fu  chiamato a testimoniare nella sua qualità di persona imputata in un procedimento connesso (<< imputato in procedimento connesso >>). Tuttavia, egli dichiarò di avvalersi della facoltà di non rispondere  riconosciuto dall’articolo 210 del codice di procedura penale (di seguito << CPP >>).

  14.  Gli avvocati degli imputati eccepirono l’incostituzionalità dell’articolo 513 CPP per incompatibilità con gli articoli 3 e 24 della Costituzione italiana – che  garantivano rispettivamente l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge ed il diritto alla difesa in ogni stadio del procedimento – nonché con l’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito  << la Convenzione >>). Essi osservarono segnatamente che ai sensi dell’articolo 513 CPP, siccome interpretato dalla Corte costituzionale, quando una persona imputata in un procedimento connesso si avvaleva della facoltà di non rispondere, il tribunale poteva leggere ed utilizzare ogni dichiarazione fatta da essa al Procuratore della Repubblica o al giudice delle indagini preliminari nel corso dell’istruttoria. L’imputato si trovava allora privato di ogni possibilità d’interrogare o fare interrogare la predetta persona.

  15.  Con una ordinanza dello stesso giorno, il tribunale rigettò l’eccezione d’incostituzionalità per manifesta infondatezza ed  ordinò la lettura dei verbali delle dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica. Il tribunale notò che la facoltà di non rispondere era prevista dalla  legge come una garanzia per gli imputati,  che non potevano essere obbligati a fare delle dichiarazioni suscettibili di contribuire alla loro propria incriminazione. D’altra parte, la possibilità di leggere ed utilizzare le dichiarazioni fatte durante le indagini preliminari era stata ammessa dalla stessa Corte costituzionale nella sua sentenza n°  254 del 3 giugno 1992.

  16.  Con sentenza del 7 marzo 1994, la cui motivazione fu depositata in cancelleria  il 1° giugno 1994, il tribunale di Locri condannò il ricorrente alla  pena di otto anni e quattro mesi di reclusione  ed a 54 milioni di  lire italiane di  multa. I signori C., A. e T. furono parimenti condannati a delle pene comprese tra sei e nove anni di reclusione.

  17.  Il tribunale osservò  innanzitutto che il principale mezzo di prova a carico degli imputati erano le dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica, non potendo essere utilizzate conformemente all’articolo 513 CPP quelle fatte ai carabinieri. Il tribunale osservò per di più che avuto riguardo alla personalità del signor N.  nonché alla spontaneità ed alla precisione delle sue affermazioni, quest’ultime  dovevano essere considerate come credibili. Quanto alla  posizione del ricorrente, il tribunale osservò che il signor N. aveva riconosciuto la foto di quest’ultimo, aveva descritto con precisione la sua abitazione ed il percorso seguito per accedervi. Inoltre, il ricorrente, già condannato per infrazioni alla legislazione sugli stupefacenti, era sotto controllo giudiziario (<< sorveglianza speciale >>) ;  egli aveva l’obbligo di non abbandonare  la sua abitazione dopo il tramonto del sole, ciò avrebbe potuto spiegare le sue difficoltà ad uscire dopo le ore 20 . Per di più, la quantità di cocaina ritrovata in possesso del signor C. dimostrava che quest’ultimo manteneva dei contatti con l’ambiente dei trafficanti   di droga e faceva apparire come verosimili le circostanze in cui la visita al ricorrente si era svolta. Questo stesso elemento confermava  che le trattative avviate erano vere.

  18.  Il 13 luglio 1994, il ricorrente  propose appello davanti alla corte d’appello di Reggio Calabria. Egli contestò tra l’altro  la debolezza delle dichiarazioni del signor N. ed il fatto che queste erano state rese in disprezzo del principio del contraddittorio e senza la presenza d’un giudice o degli avvocati degli imputati.

  19.  Con  una sentenza del 7 novembre 1994, la corte d’appello di Reggio Calabria riprese nella sostanza le argomentazioni  sviluppate  nell’ordinanza del 17 luglio 1993. Essa confermò, quanto al ricorrente, la sentenza di primo grado e ridusse la pena inflitta al signor A.

  20.  Il  18 febbraio 1995, il ricorrente ed i suoi coimputati presentarono il  ricorso in cassazione. Il signor T. invocò tra l’altro l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione e contestò la lettura delle dichiarazioni del signor N.

  21.  Con una sentenza del 19 ottobre 1995, la cui motivazione fu depositata in cancelleria  il 3 novembre 1995, la Corte di cassazione rigettò i ricorsi del ricorrente e dei suoi coimputati, ritenendo che per quel che concerne l’infrazione del traffico di stupefacenti la corte d’appello aveva motivato la sua  decisione in maniera logica e corretta su tutti i punti controversi. Essa cassò la sentenza impugnata quanto alla condanna inflitta al signor A. per detenzione illegale di armi e rinviò la causa alla corte d’appello di Catanzaro.

  22.  La Corte di cassazione osservò tra l’altro che l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione concerneva << l’interrogatorio dei testimoni, che (...) sono  obbligati a  dire la verità e non l’interrogatorio degli imputati,   che hanno la facoltà di  difendersi  mantenendo il silenzio o finanche  di mentire >>. D’altra  parte, considerato che l’interrogatorio dei testimoni doveva essere regolamentato in ogni Stato parte della Convenzione dalle disposizioni nazionali pertinenti, era  << evidente che (...) a fronte del rifiuto di testimoniare, le dichiarazioni fatte al Procuratore della Repubblica (...) dovevano essere versate nel fascicolo del tribunale >>.

II.  Il DIRITTO INTERNO PERTINENTE

a) Regime giuridico in vigore all’epoca dei fatti

  23.  La lettura delle dichiarazioni fatte  prima del dibattimento da un imputato o un coimputato è retta dall’articolo 513 CPP.

  24.  La versione iniziale dell’articolo 513 CPP prevedeva, al  primo comma, che le dichiarazioni fatte dall’imputato prima del dibattimento potevano essere utilizzate come prove  dal giudice del merito nel caso in cui l’imputato era rimasto assente ovvero si fosse rifiutato di ripeterle.

  25.  Il secondo comma dell’articolo 513 CPP prendeva in considerazione per contro le dichiarazioni fatte prima del dibattimento dalle persone imputate in procedimenti connessi. Contrariamente all’ipotesi prevista nel primo comma, il secondo comma non  consentiva l’utilizzazione di simili dichiarazioni dal giudice del merito nell’ipotesi in cui l’imputato  si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.

  26.  Con la sentenza n° 254 del 1992, la Corte costituzionale dichiarò il secondo comma dell’articolo 513 incostituzionale  nella misura in cui, come  escludeva la possibilità di utilizzare nel giudizio di merito le dichiarazioni ivi previste in caso di silenzio dell’imputato in un procedimento connesso, determinava una disparità di trattamento ingiustificato in  rapporto alle dichiarazioni previste nel primo comma. In tale modo, la Corte costituzionale permetteva al giudice del merito l’utilizzazione delle dichiarazioni fatte da un imputato in  un procedimento connesso, indipendentemente dalla questione di sapere  se la persona contro la quale esse esano utilizzate aveva avuto la possibilità di interrogare o di farne interrogare l’autore ad una qualsiasi stadio del procedimento. D’altronde, la Corte costituzionale non fece alcun riferimento alle garanzie d’equità del   processo enunciate nell’articolo  6 della Convenzione né ai  criteri  scaturenti dalla giurisprudenza della Corte.

b) Sviluppi  posteriori alla condanna definitiva del ricorrente

  27.  Con la legge n° 267 del 7 agosto 1997 il  Parlamento riformò l’articolo 513 CPP al fine di renderlo conforme al principio del contraddittorio. In sostanza, le dichiarazioni fatte da un coimputato o da un imputato in un procedimento connesso non potevano più essere utilizzate contro un’altra persona senza  il suo consenso nel caso in cui l’autore delle dichiarazioni  si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.

  28.  Tuttavia, con la sua sentenza n° 361 del 2 novembre 1998 la Corte costituzionale dichiarò nuovamente l’articolo 513 incostituzionale, questa volta nella sua interezza. Secondo la Corte costituzionale, l’esclusione della possibilità per il giudice del merito d’utilizzare simili dichiarazioni in caso di silenzio dell’autore comportava il rischio d’una perdita di prove  che potevano essere d’ausilio al giudice per giungere alla sua decisione, e questo rischio era subordinato alla sola volontà dell’autore delle dichiarazioni.

  29.  Successivamente a quest’ultima sentenza, con la legge di revisione costituzionale n° 2 del 23 novembre 1999  il Parlamento decise d’iscrivere il principio  dell’equo processo nella stessa Costituzione. L’articolo 111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione, si  legge testualmente :

 1.<< La  giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

 2.<< Ogni   processo  si  svolge  nel  contraddittorio   tra  le parti, in condizioni  di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

3. <<  Nel   processo  penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del   tempo  e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia  la  facoltà, davanti  al  giudice,  di  interrogare  o di far interrogare  le  persone  che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere  la  convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle  stesse  condizioni  dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo  di  prova  a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.

4. <<  Il   processo  penale  è  regolato dal principio del contraddittorio nella formazione  della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata  sulla  base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,  si  è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.

5. <<  La   legge  regola  i  casi  in cui la formazione della prova non ha luogo in  contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità   di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita>>.

  30.  Con la legge n° 35 del 25 febbraio 2000, il Parlamento italiano ha precisato  in quali limiti l’articolo 111 riformato della Costituzione si applica ai processi in corso. In particolare,  in taluni casi le vecchie regole continuano ad applicarsi.

  D’altronde, un progetto di legge unificato dovendo dare attuazione alla revisione costituzionale è stato adottato dal Parlamento  il 14 febbraio 2001.  Tra l’altro, questa legge di attuazione modifica l’articolo 513 CPP  nel senso che, se l’autore delle dichiarazioni  rese prima del dibattimento si avvale della sua facoltà di non rispondere, quale norma generale le sue dichiarazioni potranno essere versate nel fascicolo se le parti  prestano il loro accordo. Tuttavia, almeno in taluni casi le vecchie regole continueranno ad  applicarsi ai processi in corso.

IN DIRITTO

I. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 §§ 1 e 3 d DELLA CONVENZIONE.

  31.  Il ricorrente denuncia il carattere non equo del procedimento penale di cui  egli è stato fatto oggetto ed adduce di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica, senza aver avuto la possibilità di interrogarlo o di farlo interrogare. Egli invoca l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita testualmente :

 << 1.  Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,(…) da un tribunale (…), il quale deciderà (….) della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta.

3. In particolare, ogni accusato ha diritto a : (…)

 d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico (...).>>

 32.  Il Governo sostiene che in via di principio, nel sistema giuridico italiano, ogni imputato ha il diritto d’interrogare i testimoni a carico. Tuttavia, al fine di permettere ai giudici di accertare i fatti della causa, è possibile,   in determinati casi e nel rispetto delle condizioni fissate dalla legge, d’utilizzare per la decisione degli elementi  che sono stati raccolti nel quadro  delle indagini preliminari.

 33.  Nel presente caso, il signor N. non era, ai sensi della legislazione italiana pertinente, un << testimone >> ma una << persona imputata  in un procedimento connesso >>, che aveva a questo titolo  la facoltà di non rispondere. Ora, come la stessa Corte Europea  lo ha riconosciuto nel caso Saunders (sentenza Saunders contro Regno Unito del 17 dicembre 1996, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996-VI, p. 2064, § 68), << anche se l’articolo 6 della Convenzione non lo menzioni espressamente, il diritto di  non parlare ed – una delle sue componenti – il diritto di non contribuire alla propria incriminazione sono delle norme internazionali generalmente riconosciute che sono nel cuore della nozione dell’equo processo consacrato dal predetto articolo >>.   Di conseguenza, le autorità nazionali non potevano che prendere atto della decisione del signor N. di non testimoniare, perché   il fatto di obbligarlo a reiterare le sue dichiarazioni nell’ambito del dibattimento avrebbe comportato una violazione dei suoi diritti  fondamentali.

 34.  Il Governo sottolinea che tre interessi sono in causa :  quello  del coimputato a mantenere il silenzio,  quello dell’imputato ad interrogare il testimone coimputato e quello dell’autorità giudiziaria a non perdere le prove raccolte durante le indagini. La questione è così complessa che le disposizioni che disciplinano l’utilizzazione delle dichiarazioni d’un testimone a carico che è nello stesso tempo coimputato sono state a più riprese esaminate dalla Corte costituzionale italiana ed hanno subito delle modificazioni. In particolare, nella sua  giurisprudenza la Corte costituzionale ha ricordato  il principio della <<non dispersione>> dei mezzi di prova raccolti durante le indagini.

 35.  Il Governo fa osservare infine che  il 10 settembre 1997,  il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha  adottato la Raccomandazione R (97) 13,  relativa all’intimidazione dei testimoni ed i diritti della difesa, che  suggerisce agli Stati d’utilizzare << le deposizioni fatte davanti ad una autorità giudiziaria  nel corso dell’audizione preliminare come avente il valore di una testimonianza davanti al tribunale, quando la comparizione del testimone davanti al tribunale non potesse essere affrontata o quando questa potrebbe cagionare una minaccia grave e seria per   la sua vita  o la sua sicurezza personale o quella dei suoi congiunti>>.

 36.  Il ricorrente si oppone alle  tesi del Governo. Egli  osserva  che egli non contesta l’applicazione,   da parte delle  giurisdizioni nazionali, delle disposizioni  in vigore all’epoca dei fatti, ma la compatibilità di queste disposizioni con i principi della Convenzione. D’altronde, il fatto che il Parlamento italiano abbia  deciso il 7 agosto 1997 di modificare l’articolo 513 CPP non può che confermare l’opinione secondo la quale la disposizione in questione trasgrediva il << diritto alla prova >> di  ogni  persona imputata. Egli  sottolinea, infine, che le dichiarazioni del signor N. costituivano il solo elemento di prova a suo carico.

 37. Considerato che le esigenze del paragrafo 3 dell’articolo 6 rappresentano degli aspetti particolari del diritto ad un equo processo garantito dal paragrafo 1, la Corte esaminerà le doglianze sotto l’angolo di questi due testi combinati (vedere, tra molte altre, la sentenza Van Mechelen ed altri contro Paesi-Bassi del 23 aprile 1997, Raccolta 1997-III, p. 711, § 49).

 38.  La Corte ricorda che la ammissibilità delle prove è materia primariamente rimessa alle regole del diritto interno e che in via di principio   compete alle giurisdizioni nazionali di valutare  gli elementi raccolti da esse.  Il ruolo attribuito alla Corte  europea dalla Convenzione non consiste  nel pronunciarsi sul quesito se le deposizioni dei testimoni  sono state  a buon diritto ammesse come prove, ma nel ricercare se  la procedura considerata nel suo insieme  , ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo (vedere, tra le altre, le sentenze Doorson contro Paesi-Bassi del 26 marzo 1996, Raccolta 1996-II, p. 470, § 67, e  Van Mechelen ed altri, sopra citata, p. 711, § 50).

 39.  Ora, gli elementi di prova devono in via di principio essere prodotti davanti l’imputato in udienza pubblica, in vista  di un dibattito in contraddittorio.  Questo principio può avere alcune eccezioni, ma  queste possono accettarsi soltanto con riserva dei diritti della difesa ; come regola generale, i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 impongono di concedere all’imputato una occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza a suo carico e di  interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente (sentenze Lüdi contro Svizzera del 15 giugno 1992, serie A n° 238, § 49, e Van Mechelen ed altri, predetta, p. 711, § 51). 

 40. In effetti, come la Corte lo ha precisato in più riprese (vedere, tra le altre, le sentenze Isgró contro Italia del 19 febbraio 1991, serie A n° 194-A, § 34, e Lüdi contro Svizzera predetta, § 47), in determinate circostanze può  essere necessario, per le autorità giudiziarie, di trovare ausilio nelle deposizioni risalenti alla fase delle indagini preparatorie, segnatamente in caso di rifiuto di reiterarle in pubblico per  paura delle conseguenze per la sicurezza dell’autore delle deposizioni,  ipotesi possibile nell’ambito di processo riguardanti il modus operandi delle organizzazioni mafiose. Se l’imputato ha avuto una occasione adeguata e sufficiente di contestare siffatte deposizioni, al momento in cui sono fatte o successivamente,  la loro utilizzazione non contrasta in sé con l’articolo 6 §§ 1 e 3 d).  Ne consegue , comunque, che i diritti della difesa sono  limitati in maniera incompatibile  con le garanzie dell’articolo 6  quando una condanna si fonda, unicamente od  in misura determinante, su delle deposizioni fatte da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase dell’istruttoria né  durante il dibattimento (vedere le sentenze Unterpertinger contro Austria del 24 novembre 1986, serie A n° 110, §§ 31-33, Saïdi contro  Francia del 20 settembre 1993, serie A n° 261-C, §§ 43-44, e Van Mechelen ed altri predetta, p. 712, § 55; vedere anche Dorigo contro Italia, ricorso n° 33286/96, Rapporto della Commissione europea del 9 settembre 1998, non pubblicata, § 43, e, su   questo stesso caso, Risoluzione del Comitato dei Ministri DH (99) 258 del 15 aprile 1999).

 41. In questo contesto, la circostanza che siffatte deposizioni provengano da un coimputato, come nel caso di specie, e non da un testimone non è pertinente. A tal riguardo, la Corte sottolinea che il termine << testimone >>  ha, nel sistema della Convenzione, un senso << autonomo >> (sentenza Vidal contro Belgio del 22 aprile 1992, serie A n° 235-B, § 33).  Così che , dal momento in cui una deposizione, quale che sia fatta da un testimone stricto sensu o da un coimputato, è suscettibile di fondare, in maniera sostanziale, la condanna dell’imputato, essa costituisce una testimonianza a carico e le garanzie previste dall’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione a lui sono applicabili (confronta, mutatis mutandis, la sentenza Ferrantelli e Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996, Raccolta 1996-III, §§ 51 e 52).

 42.  Alla luce di quanto precede, non appaiono dunque pertinenti le argomentazioni invocate dalla Corte di cassazione italiana nella sua sentenza del 19 ottobre 1995 per rigettare il gravame che era fondato sull’articolo 6 § 3 d) della Convenzione, argomentazioni riprese in parte dal Governo convenuto. In particolare, il fatto che il diritto nazionale in vigore all’epoca (paragrafo 26 qui-sopra) prevedesse che, a fronte del rifiuto del coimputato di testimoniare, le dichiarazioni formulate prima del dibattimento potevano essere utilizzate dal giudice, non sarebbe sufficiente a privare l’imputato del diritto, che l’articolo 6 § 3 d) a lui riconosce, di esaminare o di fare esaminare nella forma del contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico.

 43.  Nel caso di specie, la Corte rileva che, per giungere alla condanna del ricorrente, le giurisdizioni nazionali si sono fondate esclusivamente sulle dichiarazioni fatte dal signor N. prima del processo e che né il ricorrente né il suo  difensore hanno avuto, in alcuno stadio del procedimento, la possibilità di interrogarlo.

 44.  In queste condizioni, la Corte non  potrebbe giungere alla conclusione che il ricorrente ha beneficiato di una occasione adeguata e sufficiente di contestare le dichiarazioni sulle quali   è stata fondata la sua condanna.

 45.  L’interessato non ha dunque beneficiato di un equo processo; di conseguenza vi è stata violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 lettera d.

II. APPLICAzIONe dell’ARTICoLo 41 della CONVENzIONe

46. L'Articolo 41 della Convenzione prevede:

“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.

A.  Danno

  47.  Il ricorrente afferma di essere stato recluso e condannato ingiustamente, ciò gli ha impedito di lavorare ed ha avuto delle ripercussioni negative sulla sua vita privata e familiare. Da tale fatto, egli pretende importanti pregiudizi materiali e morali  conseguenti alla violazione della Convenzione, ammontanti secondo lui  a cinquecento milioni di lire italiane (ITL).

  48.  La Corte non ravvisa il nesso di causalità tra violazione dell’articolo 6 della Convenzione ed il danno materiale preteso dal ricorrente. In  effetti, la Corte non è  in grado di valutare quale sarebbe stato l’esito di un procedimento conforme all’articolo 6 §§ 1 et 3 d). Pertanto, essa rigetta le pretese del ricorrente a questo titolo (vedere Coëme ed altri contro Belgio [GC], nos 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 155, CEDH 2000-VII).

  Per contro, essa giudica che il ricorrente ha subito un certo pregiudizio morale, che la semplice constatazione di violazione non potrebbe compensare. Statuendo in via  equitativa, conformemente all’articolo 41 della Convenzione, la Corte decide di liquidargli la somma di  lire quindici milioni ITL.

B.  Costi e spese legali.

  49.  L’interessato sollecita parimenti il rimborso dei costi e delle varie spese legali sostenute davanti le giurisdizioni nazionali e gli organi della Convenzione.

  50.  Secondo la giurisprudenza costante della Corte, la liquidazione dei costi e delle spese legali richiesti dal  ricorrente non può avvenire che nella misura in cui si trovino accertati nella loro realtà, necessità e per il carattere ragionevole del loro ammontare (vedere, segnatamente, la sentenza Zimmermann e Steiner contro Svizzera del 13  luglio 1983, serie A n° 66, § 36). La Corte rileva tuttavia che il ricorrente non ha dato alcuna precisazione sulle spese di cui reclama il rimborso. Conviene di conseguenza rigettare la sua domanda di rimborso delle  spese sostenute davanti le giurisdizioni interne.

51. Per quel che concerne le spese sostenute davanti  gli organi della Convenzione, la Corte ritiene che il caso rivestisse una certa complessità.  Il ricorrente non ha però fornito dei documenti giustificativi. Tuttavia, in considerazione degli scritti difensivi manifestamente compilati dal suo avvocato, la Corte considera opportuno liquidargli in via equitativa la somma forfettaria di lire tre milioni ITL, ivi compresa ogni spesa (vedere  Voisine v. France, no. 27362/95, 8.2.2000, § 39; non pubblicata).

C.  Interessi moratori

  52.  Secondo le informazione di cui dispone la Corte, il tasso d’interesse legale applicabile in Italia  alla   data di emanazione della presente sentenza è del 3,5 % l’anno.

 

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE

1.    Dichiara  all’unanimità che vi è stata una violazione dell’Articolo 6 §§ 1 e   3 d) della Convenzione ; 

2.  Dichiara , per sei voti  contro uno,

a)  che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 15 000 000 (quindici milioni) lire    italiane per danno morale e  3 000 000 (tre milioni) lire italiane per  costi e spese legali;

b)  che questi ammontari  dovranno essere maggiorati di un interesse semplice del 3,5 % l’anno a decorrere dal compimento del predetto termine fino al versamento ; 

3.  Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per l’eccedenza.

Redatta in inglese e poi comunicata per iscritto  il 27 febbraio 2001, secondo l’Articolo 77 §§ 2 e 3  del Regolamento della Corte.

Elisabeth Palm (Presidente)

Michael O’Boyle   (Cancelliere)

  Alla presente sentenza si trova  allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del Regolamento, l’esposizione dell’opinione in parte dissidente  del giudice B. Zupancic, limitatamente all’equa soddisfazione.