GIUSTO PROCESSO - Impossibilità dell’imputato di interrogare i testimoni a suo carico, in quanto esentati dal testimoniare ex art. 513 c.p.p. – Violazione dell’art. 6, comma 1 e comma 3, lettera d) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950- Sussistenza se la condanna dell’imputato è fondata sulle sole dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari.
La sentenza di condanna penale di un imputato non può essere fondata esclusivamente sulle dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari da coloro che ai sensi dell’art. 513 codice procedura penale italiano si sono legittimamente avvalsi della facoltà di non rispondere nel successivo dibattimento, in quanto ogni accusato, ai sensi dell'articolo 6, comma 1 e comma 3, lettera d) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ha il diritto di interrogare o far i testimoni a suo carico, rientrando in tale qualifica non solo i testimoni “stricto sensu”, ma anche anche i testimoni coimputati.
I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO – Strasburgo – Sez. I , Presidente E. Palm, sentenza del 27 febbraio 2001 (Ricorso n° 33354/1996) nel caso Nicola Lucà (avv. F. Macrí) contro Italia (prof. U. Leanza, dott. V. Esposito).
La sentenza così motiva
(traduzione non ufficiale a cura dell’avv. Maurizio de Stefano)
Nel caso LUCA’ contro Italia
La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (prima sezione), riunita nella Camera composta da: presidente Signora Elisabeth Palm (svedese) e dai giudici Signora Wilhelmina Thomassen (olandese), Signor Benedetto Conforti(italiano), Signor Gaukur Jörundsson (islandese), Signor Corneliu Bîrsan(romeno), Signor Josep Casadevall (andorrano), Signor BoštjanZupancic (sloveno) e dal Cancelliere di sezione Signor Michael O’Boyle,
Dopo averla deliberata nella camera di consiglio del 6 febbraio 2001, Pronuncia la seguente sentenza che ha adottato in tale data.
PROCEDURA
1 . Il caso ha origine da un ricorso (no. 33354/1996) contro l' Italia proposto il 17 gennaio 1994 da un cittadino di questo Stato, Signor Nicola Lucà (<<il ricorrente >>) davanti alla Commissione Europea dei diritti dell'uomo (" la Commissione ") nel vigore del vecchio Articolo 25 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (" la Convenzione") .
2. . Il ricorrente è rappresentato dal sig. F. Macrí, avvocato del foro di Reggio Calabria. Il Governo italiano (" il Governo ") è rappresentato dal suo Agente, il Sig. Umberto Lenza Capo del servizio del Contenzioso Diplomatico al Ministero degli Affari Esteri, assistito dal Sig. V. Esposito, Coagente del Governo italiano presso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo.
3. Invocando l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni pronunciate da una persona che egli non avrebbe mai avuto la possibilità d’interrogare o di fare interrogare.
4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1 novembre 1998, quando è entrato in vigore il Protocollo no. 11 aggiuntivo alla Convenzione (Articolo 5, § 2 del Protocollo no. 11).
5. Il ricorso è stato assegnato alla Prima Sezione della Corte (Articolo 52 § 1 del Regolamento della Corte). All'interno di questa Sezione, la Camera che doveva esaminare il caso (Articolo 27 § 1 della Convenzione) è stata costituita nella maniera prevista dall’Articolo 26 § 1 del Regolamento della Corte.
6. Con decisione del 9 marzo 1999, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile.
Tanto il ricorrente che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito del caso (articolo 59 § 1 del Regolamento).
IN FATTO
I . LE CIRCOSTANZE DEL CASO
8. Il ricorrente, nato nel 1955, è attualmente detenuto nella prigione di Cosenza.
9. Il 25 ottobre 1992, i signori N. e il signor C. furono arrestati dai carabinieri di Roccella Jonica (Reggio Calabria) e trovati in possesso di cocaina.
10. Il 25 ed il 26 ottobre 1992, il signor N. fu interrogato prima dai carabinieri, poi dal Procuratore della Repubblica di Locri (Reggio Calabria). Egli dichiarò di aver ricevuto una parte degli stupefacenti dal signor C. per suo consumo personale, mentre il resto apparteneva esclusivamente a quest’ultimo. Egli indicò inoltre che il giorno del loro arresto, il signor C. l’aveva accompagnato da certe persone per cercare di comperare la droga. Dopo il pasto della sera, essi si sarebbero recati presso il ricorrente, che si sarebbe dichiarato disposto a fornire 500 grammi di cocaina. La consegna doveva aver luogo nei giorni seguenti, perché il ricorrente non voleva accettare un pagamento differito e non poteva lasciare la sua abitazione dopo le ore 20 per cercare la droga.
11. Al tempo dell’interrogatorio presso i carabinieri, il signor N. fu ascoltato a titolo d’informazione sul caso (<< persona che puó riferire circostanze utili ai fini delle indagini >>) e non in qualità di accusato. Per questa ragione, egli non fu assistito da un avvocato. Tuttavia, il Procuratore della Repubblica di Locri reputò successivamente che il signor N. doveva essere considerato come una << persona sospettata di aver commesso una infrazione >> (<< indagato >>). Costui fu dunque interrogato in quanto tale dal Procuratore della Repubblica.
12. Con una ordinanza del 12 febbraio 1993, il giudice delle indagini preliminari di Locri rinviò a giudizio il ricorrente, il signor C. e due altre persone, i signori A. e T., davanti al tribunale di Locri per traffico di stupefacenti. Il signor A. era inoltre accusato di detenzione illegale di armi. Un procedimento separato per detenzione di droga fu aperto contro il signor N..
13. All’udienza del 17 luglio 1993, il signor N. fu chiamato a testimoniare nella sua qualità di persona imputata in un procedimento connesso (<< imputato in procedimento connesso >>). Tuttavia, egli dichiarò di avvalersi della facoltà di non rispondere riconosciuto dall’articolo 210 del codice di procedura penale (di seguito << CPP >>).
14. Gli avvocati degli imputati eccepirono l’incostituzionalità dell’articolo 513 CPP per incompatibilità con gli articoli 3 e 24 della Costituzione italiana – che garantivano rispettivamente l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge ed il diritto alla difesa in ogni stadio del procedimento – nonché con l’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito << la Convenzione >>). Essi osservarono segnatamente che ai sensi dell’articolo 513 CPP, siccome interpretato dalla Corte costituzionale, quando una persona imputata in un procedimento connesso si avvaleva della facoltà di non rispondere, il tribunale poteva leggere ed utilizzare ogni dichiarazione fatta da essa al Procuratore della Repubblica o al giudice delle indagini preliminari nel corso dell’istruttoria. L’imputato si trovava allora privato di ogni possibilità d’interrogare o fare interrogare la predetta persona.
15. Con una ordinanza dello stesso giorno, il tribunale rigettò l’eccezione d’incostituzionalità per manifesta infondatezza ed ordinò la lettura dei verbali delle dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica. Il tribunale notò che la facoltà di non rispondere era prevista dalla legge come una garanzia per gli imputati, che non potevano essere obbligati a fare delle dichiarazioni suscettibili di contribuire alla loro propria incriminazione. D’altra parte, la possibilità di leggere ed utilizzare le dichiarazioni fatte durante le indagini preliminari era stata ammessa dalla stessa Corte costituzionale nella sua sentenza n° 254 del 3 giugno 1992.
16. Con sentenza del 7 marzo 1994, la cui motivazione fu depositata in cancelleria il 1° giugno 1994, il tribunale di Locri condannò il ricorrente alla pena di otto anni e quattro mesi di reclusione ed a 54 milioni di lire italiane di multa. I signori C., A. e T. furono parimenti condannati a delle pene comprese tra sei e nove anni di reclusione.
17. Il tribunale osservò innanzitutto che il principale mezzo di prova a carico degli imputati erano le dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica, non potendo essere utilizzate conformemente all’articolo 513 CPP quelle fatte ai carabinieri. Il tribunale osservò per di più che avuto riguardo alla personalità del signor N. nonché alla spontaneità ed alla precisione delle sue affermazioni, quest’ultime dovevano essere considerate come credibili. Quanto alla posizione del ricorrente, il tribunale osservò che il signor N. aveva riconosciuto la foto di quest’ultimo, aveva descritto con precisione la sua abitazione ed il percorso seguito per accedervi. Inoltre, il ricorrente, già condannato per infrazioni alla legislazione sugli stupefacenti, era sotto controllo giudiziario (<< sorveglianza speciale >>) ; egli aveva l’obbligo di non abbandonare la sua abitazione dopo il tramonto del sole, ciò avrebbe potuto spiegare le sue difficoltà ad uscire dopo le ore 20 . Per di più, la quantità di cocaina ritrovata in possesso del signor C. dimostrava che quest’ultimo manteneva dei contatti con l’ambiente dei trafficanti di droga e faceva apparire come verosimili le circostanze in cui la visita al ricorrente si era svolta. Questo stesso elemento confermava che le trattative avviate erano vere.
18. Il 13 luglio 1994, il ricorrente propose appello davanti alla corte d’appello di Reggio Calabria. Egli contestò tra l’altro la debolezza delle dichiarazioni del signor N. ed il fatto che queste erano state rese in disprezzo del principio del contraddittorio e senza la presenza d’un giudice o degli avvocati degli imputati.
19. Con una sentenza del 7 novembre 1994, la corte d’appello di Reggio Calabria riprese nella sostanza le argomentazioni sviluppate nell’ordinanza del 17 luglio 1993. Essa confermò, quanto al ricorrente, la sentenza di primo grado e ridusse la pena inflitta al signor A.
20. Il 18 febbraio 1995, il ricorrente ed i suoi coimputati presentarono il ricorso in cassazione. Il signor T. invocò tra l’altro l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione e contestò la lettura delle dichiarazioni del signor N.
21. Con una sentenza del 19 ottobre 1995, la cui motivazione fu depositata in cancelleria il 3 novembre 1995, la Corte di cassazione rigettò i ricorsi del ricorrente e dei suoi coimputati, ritenendo che per quel che concerne l’infrazione del traffico di stupefacenti la corte d’appello aveva motivato la sua decisione in maniera logica e corretta su tutti i punti controversi. Essa cassò la sentenza impugnata quanto alla condanna inflitta al signor A. per detenzione illegale di armi e rinviò la causa alla corte d’appello di Catanzaro.
22. La Corte di cassazione osservò tra l’altro che l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione concerneva << l’interrogatorio dei testimoni, che (...) sono obbligati a dire la verità e non l’interrogatorio degli imputati, che hanno la facoltà di difendersi mantenendo il silenzio o finanche di mentire >>. D’altra parte, considerato che l’interrogatorio dei testimoni doveva essere regolamentato in ogni Stato parte della Convenzione dalle disposizioni nazionali pertinenti, era << evidente che (...) a fronte del rifiuto di testimoniare, le dichiarazioni fatte al Procuratore della Repubblica (...) dovevano essere versate nel fascicolo del tribunale >>.
II. Il DIRITTO INTERNO PERTINENTE
a) Regime giuridico in vigore all’epoca dei fatti
23. La lettura delle dichiarazioni fatte prima del dibattimento da un imputato o un coimputato è retta dall’articolo 513 CPP.
24. La versione iniziale dell’articolo 513 CPP prevedeva, al primo comma, che le dichiarazioni fatte dall’imputato prima del dibattimento potevano essere utilizzate come prove dal giudice del merito nel caso in cui l’imputato era rimasto assente ovvero si fosse rifiutato di ripeterle.
25. Il secondo comma dell’articolo 513 CPP prendeva in considerazione per contro le dichiarazioni fatte prima del dibattimento dalle persone imputate in procedimenti connessi. Contrariamente all’ipotesi prevista nel primo comma, il secondo comma non consentiva l’utilizzazione di simili dichiarazioni dal giudice del merito nell’ipotesi in cui l’imputato si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.
26. Con la sentenza n° 254 del 1992, la Corte costituzionale dichiarò il secondo comma dell’articolo 513 incostituzionale nella misura in cui, come escludeva la possibilità di utilizzare nel giudizio di merito le dichiarazioni ivi previste in caso di silenzio dell’imputato in un procedimento connesso, determinava una disparità di trattamento ingiustificato in rapporto alle dichiarazioni previste nel primo comma. In tale modo, la Corte costituzionale permetteva al giudice del merito l’utilizzazione delle dichiarazioni fatte da un imputato in un procedimento connesso, indipendentemente dalla questione di sapere se la persona contro la quale esse esano utilizzate aveva avuto la possibilità di interrogare o di farne interrogare l’autore ad una qualsiasi stadio del procedimento. D’altronde, la Corte costituzionale non fece alcun riferimento alle garanzie d’equità del processo enunciate nell’articolo 6 della Convenzione né ai criteri scaturenti dalla giurisprudenza della Corte.
b) Sviluppi posteriori alla condanna definitiva del ricorrente
27. Con la legge n° 267 del 7 agosto 1997 il Parlamento riformò l’articolo 513 CPP al fine di renderlo conforme al principio del contraddittorio. In sostanza, le dichiarazioni fatte da un coimputato o da un imputato in un procedimento connesso non potevano più essere utilizzate contro un’altra persona senza il suo consenso nel caso in cui l’autore delle dichiarazioni si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.
28. Tuttavia, con la sua sentenza n° 361 del 2 novembre 1998 la Corte costituzionale dichiarò nuovamente l’articolo 513 incostituzionale, questa volta nella sua interezza. Secondo la Corte costituzionale, l’esclusione della possibilità per il giudice del merito d’utilizzare simili dichiarazioni in caso di silenzio dell’autore comportava il rischio d’una perdita di prove che potevano essere d’ausilio al giudice per giungere alla sua decisione, e questo rischio era subordinato alla sola volontà dell’autore delle dichiarazioni.
29. Successivamente a quest’ultima sentenza, con la legge di revisione costituzionale n° 2 del 23 novembre 1999 il Parlamento decise d’iscrivere il principio dell’equo processo nella stessa Costituzione. L’articolo 111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione, si legge testualmente :
1.<< La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
2.<< Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
3. << Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
4. << Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.
5. << La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita>>.
30. Con la legge n° 35 del 25 febbraio 2000, il Parlamento italiano ha precisato in quali limiti l’articolo 111 riformato della Costituzione si applica ai processi in corso. In particolare, in taluni casi le vecchie regole continuano ad applicarsi.
D’altronde, un progetto di legge unificato dovendo dare attuazione alla revisione costituzionale è stato adottato dal Parlamento il 14 febbraio 2001. Tra l’altro, questa legge di attuazione modifica l’articolo 513 CPP nel senso che, se l’autore delle dichiarazioni rese prima del dibattimento si avvale della sua facoltà di non rispondere, quale norma generale le sue dichiarazioni potranno essere versate nel fascicolo se le parti prestano il loro accordo. Tuttavia, almeno in taluni casi le vecchie regole continueranno ad applicarsi ai processi in corso.
IN DIRITTO
I. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 §§ 1 e 3 d DELLA CONVENZIONE.
31. Il ricorrente denuncia il carattere non equo del procedimento penale di cui egli è stato fatto oggetto ed adduce di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni fatte dal signor N. al Procuratore della Repubblica, senza aver avuto la possibilità di interrogarlo o di farlo interrogare. Egli invoca l’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita testualmente :
<< 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,(…) da un tribunale (…), il quale deciderà (….) della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta.
3. In particolare, ogni accusato ha diritto a : (…)
d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico (...).>>
32. Il Governo sostiene che in via di principio, nel sistema giuridico italiano, ogni imputato ha il diritto d’interrogare i testimoni a carico. Tuttavia, al fine di permettere ai giudici di accertare i fatti della causa, è possibile, in determinati casi e nel rispetto delle condizioni fissate dalla legge, d’utilizzare per la decisione degli elementi che sono stati raccolti nel quadro delle indagini preliminari.
33. Nel presente caso, il signor N. non era, ai sensi della legislazione italiana pertinente, un << testimone >> ma una << persona imputata in un procedimento connesso >>, che aveva a questo titolo la facoltà di non rispondere. Ora, come la stessa Corte Europea lo ha riconosciuto nel caso Saunders (sentenza Saunders contro Regno Unito del 17 dicembre 1996, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996-VI, p. 2064, § 68), << anche se l’articolo 6 della Convenzione non lo menzioni espressamente, il diritto di non parlare ed – una delle sue componenti – il diritto di non contribuire alla propria incriminazione sono delle norme internazionali generalmente riconosciute che sono nel cuore della nozione dell’equo processo consacrato dal predetto articolo >>. Di conseguenza, le autorità nazionali non potevano che prendere atto della decisione del signor N. di non testimoniare, perché il fatto di obbligarlo a reiterare le sue dichiarazioni nell’ambito del dibattimento avrebbe comportato una violazione dei suoi diritti fondamentali.
34. Il Governo sottolinea che tre interessi sono in causa : quello del coimputato a mantenere il silenzio, quello dell’imputato ad interrogare il testimone coimputato e quello dell’autorità giudiziaria a non perdere le prove raccolte durante le indagini. La questione è così complessa che le disposizioni che disciplinano l’utilizzazione delle dichiarazioni d’un testimone a carico che è nello stesso tempo coimputato sono state a più riprese esaminate dalla Corte costituzionale italiana ed hanno subito delle modificazioni. In particolare, nella sua giurisprudenza la Corte costituzionale ha ricordato il principio della <<non dispersione>> dei mezzi di prova raccolti durante le indagini.
35. Il Governo fa osservare infine che il 10 settembre 1997, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato la Raccomandazione R (97) 13, relativa all’intimidazione dei testimoni ed i diritti della difesa, che suggerisce agli Stati d’utilizzare << le deposizioni fatte davanti ad una autorità giudiziaria nel corso dell’audizione preliminare come avente il valore di una testimonianza davanti al tribunale, quando la comparizione del testimone davanti al tribunale non potesse essere affrontata o quando questa potrebbe cagionare una minaccia grave e seria per la sua vita o la sua sicurezza personale o quella dei suoi congiunti>>.
36. Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Egli osserva che egli non contesta l’applicazione, da parte delle giurisdizioni nazionali, delle disposizioni in vigore all’epoca dei fatti, ma la compatibilità di queste disposizioni con i principi della Convenzione. D’altronde, il fatto che il Parlamento italiano abbia deciso il 7 agosto 1997 di modificare l’articolo 513 CPP non può che confermare l’opinione secondo la quale la disposizione in questione trasgrediva il << diritto alla prova >> di ogni persona imputata. Egli sottolinea, infine, che le dichiarazioni del signor N. costituivano il solo elemento di prova a suo carico.
37. Considerato che le esigenze del paragrafo 3 dell’articolo 6 rappresentano degli aspetti particolari del diritto ad un equo processo garantito dal paragrafo 1, la Corte esaminerà le doglianze sotto l’angolo di questi due testi combinati (vedere, tra molte altre, la sentenza Van Mechelen ed altri contro Paesi-Bassi del 23 aprile 1997, Raccolta 1997-III, p. 711, § 49).
38. La Corte ricorda che la ammissibilità delle prove è materia primariamente rimessa alle regole del diritto interno e che in via di principio compete alle giurisdizioni nazionali di valutare gli elementi raccolti da esse. Il ruolo attribuito alla Corte europea dalla Convenzione non consiste nel pronunciarsi sul quesito se le deposizioni dei testimoni sono state a buon diritto ammesse come prove, ma nel ricercare se la procedura considerata nel suo insieme , ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, ha rivestito un carattere equo (vedere, tra le altre, le sentenze Doorson contro Paesi-Bassi del 26 marzo 1996, Raccolta 1996-II, p. 470, § 67, e Van Mechelen ed altri, sopra citata, p. 711, § 50).
39. Ora, gli elementi di prova devono in via di principio essere prodotti davanti l’imputato in udienza pubblica, in vista di un dibattito in contraddittorio. Questo principio può avere alcune eccezioni, ma queste possono accettarsi soltanto con riserva dei diritti della difesa ; come regola generale, i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 impongono di concedere all’imputato una occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza a suo carico e di interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente (sentenze Lüdi contro Svizzera del 15 giugno 1992, serie A n° 238, § 49, e Van Mechelen ed altri, predetta, p. 711, § 51).
40. In effetti, come la Corte lo ha precisato in più riprese (vedere, tra le altre, le sentenze Isgró contro Italia del 19 febbraio 1991, serie A n° 194-A, § 34, e Lüdi contro Svizzera predetta, § 47), in determinate circostanze può essere necessario, per le autorità giudiziarie, di trovare ausilio nelle deposizioni risalenti alla fase delle indagini preparatorie, segnatamente in caso di rifiuto di reiterarle in pubblico per paura delle conseguenze per la sicurezza dell’autore delle deposizioni, ipotesi possibile nell’ambito di processo riguardanti il modus operandi delle organizzazioni mafiose. Se l’imputato ha avuto una occasione adeguata e sufficiente di contestare siffatte deposizioni, al momento in cui sono fatte o successivamente, la loro utilizzazione non contrasta in sé con l’articolo 6 §§ 1 e 3 d). Ne consegue , comunque, che i diritti della difesa sono limitati in maniera incompatibile con le garanzie dell’articolo 6 quando una condanna si fonda, unicamente od in misura determinante, su delle deposizioni fatte da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase dell’istruttoria né durante il dibattimento (vedere le sentenze Unterpertinger contro Austria del 24 novembre 1986, serie A n° 110, §§ 31-33, Saïdi contro Francia del 20 settembre 1993, serie A n° 261-C, §§ 43-44, e Van Mechelen ed altri predetta, p. 712, § 55; vedere anche Dorigo contro Italia, ricorso n° 33286/96, Rapporto della Commissione europea del 9 settembre 1998, non pubblicata, § 43, e, su questo stesso caso, Risoluzione del Comitato dei Ministri DH (99) 258 del 15 aprile 1999).
41. In questo contesto, la circostanza che siffatte deposizioni provengano da un coimputato, come nel caso di specie, e non da un testimone non è pertinente. A tal riguardo, la Corte sottolinea che il termine << testimone >> ha, nel sistema della Convenzione, un senso << autonomo >> (sentenza Vidal contro Belgio del 22 aprile 1992, serie A n° 235-B, § 33). Così che , dal momento in cui una deposizione, quale che sia fatta da un testimone stricto sensu o da un coimputato, è suscettibile di fondare, in maniera sostanziale, la condanna dell’imputato, essa costituisce una testimonianza a carico e le garanzie previste dall’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione a lui sono applicabili (confronta, mutatis mutandis, la sentenza Ferrantelli e Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996, Raccolta 1996-III, §§ 51 e 52).
42. Alla luce di quanto precede, non appaiono dunque pertinenti le argomentazioni invocate dalla Corte di cassazione italiana nella sua sentenza del 19 ottobre 1995 per rigettare il gravame che era fondato sull’articolo 6 § 3 d) della Convenzione, argomentazioni riprese in parte dal Governo convenuto. In particolare, il fatto che il diritto nazionale in vigore all’epoca (paragrafo 26 qui-sopra) prevedesse che, a fronte del rifiuto del coimputato di testimoniare, le dichiarazioni formulate prima del dibattimento potevano essere utilizzate dal giudice, non sarebbe sufficiente a privare l’imputato del diritto, che l’articolo 6 § 3 d) a lui riconosce, di esaminare o di fare esaminare nella forma del contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico.
43. Nel caso di specie, la Corte rileva che, per giungere alla condanna del ricorrente, le giurisdizioni nazionali si sono fondate esclusivamente sulle dichiarazioni fatte dal signor N. prima del processo e che né il ricorrente né il suo difensore hanno avuto, in alcuno stadio del procedimento, la possibilità di interrogarlo.
44. In queste condizioni, la Corte non potrebbe giungere alla conclusione che il ricorrente ha beneficiato di una occasione adeguata e sufficiente di contestare le dichiarazioni sulle quali è stata fondata la sua condanna.
45. L’interessato non ha dunque beneficiato di un equo processo; di conseguenza vi è stata violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 lettera d.
II. APPLICAzIONe dell’ARTICoLo 41 della CONVENzIONe
46. L'Articolo 41 della Convenzione prevede:
“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
A. Danno
47. Il ricorrente afferma di essere stato recluso e condannato ingiustamente, ciò gli ha impedito di lavorare ed ha avuto delle ripercussioni negative sulla sua vita privata e familiare. Da tale fatto, egli pretende importanti pregiudizi materiali e morali conseguenti alla violazione della Convenzione, ammontanti secondo lui a cinquecento milioni di lire italiane (ITL).
48. La Corte non ravvisa il nesso di causalità tra violazione dell’articolo 6 della Convenzione ed il danno materiale preteso dal ricorrente. In effetti, la Corte non è in grado di valutare quale sarebbe stato l’esito di un procedimento conforme all’articolo 6 §§ 1 et 3 d). Pertanto, essa rigetta le pretese del ricorrente a questo titolo (vedere Coëme ed altri contro Belgio [GC], nos 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 155, CEDH 2000-VII).
Per contro, essa giudica che il ricorrente ha subito un certo pregiudizio morale, che la semplice constatazione di violazione non potrebbe compensare. Statuendo in via equitativa, conformemente all’articolo 41 della Convenzione, la Corte decide di liquidargli la somma di lire quindici milioni ITL.
B. Costi e spese legali.
49. L’interessato sollecita parimenti il rimborso dei costi e delle varie spese legali sostenute davanti le giurisdizioni nazionali e gli organi della Convenzione.
50. Secondo la giurisprudenza costante della Corte, la liquidazione dei costi e delle spese legali richiesti dal ricorrente non può avvenire che nella misura in cui si trovino accertati nella loro realtà, necessità e per il carattere ragionevole del loro ammontare (vedere, segnatamente, la sentenza Zimmermann e Steiner contro Svizzera del 13 luglio 1983, serie A n° 66, § 36). La Corte rileva tuttavia che il ricorrente non ha dato alcuna precisazione sulle spese di cui reclama il rimborso. Conviene di conseguenza rigettare la sua domanda di rimborso delle spese sostenute davanti le giurisdizioni interne.
51. Per quel che concerne le spese sostenute davanti gli organi della Convenzione, la Corte ritiene che il caso rivestisse una certa complessità. Il ricorrente non ha però fornito dei documenti giustificativi. Tuttavia, in considerazione degli scritti difensivi manifestamente compilati dal suo avvocato, la Corte considera opportuno liquidargli in via equitativa la somma forfettaria di lire tre milioni ITL, ivi compresa ogni spesa (vedere Voisine v. France, no. 27362/95, 8.2.2000, § 39; non pubblicata).
C. Interessi moratori
52. Secondo le informazione di cui dispone la Corte, il tasso d’interesse legale applicabile in Italia alla data di emanazione della presente sentenza è del 3,5 % l’anno.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE
1. Dichiara all’unanimità che vi è stata una violazione dell’Articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione ;
2. Dichiara , per sei voti contro uno,
a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 15 000 000 (quindici milioni) lire italiane per danno morale e 3 000 000 (tre milioni) lire italiane per costi e spese legali;
b) che questi ammontari dovranno essere maggiorati di un interesse semplice del 3,5 % l’anno a decorrere dal compimento del predetto termine fino al versamento ;
3. Rigetta, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per l’eccedenza.
Redatta in inglese e poi comunicata per iscritto il 27 febbraio 2001, secondo l’Articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento della Corte.
Elisabeth Palm (Presidente)
Michael O’Boyle (Cancelliere)
Alla presente sentenza si trova allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del Regolamento, l’esposizione dell’opinione in parte dissidente del giudice B. Zupancic, limitatamente all’equa soddisfazione.
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