Caso Elia

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 
CASO  ELIA  S.R.L. contro ITALIA 

SENTENZA del 02 agosto 2001 Ricorso n°  37710/97. Violazione dell'articolo  1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, per la condizione di incertezza sulla sorte di un terreno dichiarato  inedificabile in quanto soggetto ad esproprio, ma giammai espropriato per la durata di circa trenta anni.

  

  La sentenza così motiva

(traduzione non ufficiale a cura di Loredana Tassone e dell’avv. Maurizio de Stefano)

SECONDA SEZIONE

Sentenza del 02 agosto 2001   
sul ricorso n° 37710/97 
presentato da ELIA  S.R.L. 
contro l’Italia

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi in una camera composta da:

C.L. Rozakis, presidente,  B. Conforti, G. Bonello, V. Stráznická,  P. Lorenzen, M. Fischbach, M. Tsatsa-Nikolovska, giudici ,  e dal Sig. E. Fribergh, cancelliere di sezione,

Dopo  averla deliberata,  nella camera di consiglio del 10 luglio 2001, rende la seguente sentenza adottata in questa data:  

LA PROCEDURA

1. All’origine del processo vi è un  ricorso (n° 37710/97) indirizzato contro la Repubblica italiana, con la quale una società a responsabilità limitata, la società Elia S.r.l (<<ricorrente>>), aveva adito la Commissione europea dei Diritti dell’uomo (<<la Commissione>>) il 6 agosto 1997, in virtù del vecchio articolo 25 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (<< la Convenzione>>).

2. La ricorrente è rappresentata davanti alla Corte da I. Fiorillo, avvocato in Roma. Il Governo italiano (<< il Governo>>) è rappresentato dal suo agente  U. Lenza e dal suo coagente,  V. Esposito.

3. La ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n° 1, a motivo del vincolo d’inedificabilità  che gravava    sul suo terreno.

4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1° novembre 1998, data d’entrata in vigore del Protocollo n° 11 alla Convenzione (art. 5 § 2 del Protocollo n°11).

5. Il ricorso è stato attribuito alla seconda sezione della Corte (art.52 § 1 del regolamento). In seno alla quale, la Camera, incaricata di esaminare il caso (art.27 §1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 § 1 del regolamento.

6. Con una decisione del 14 dicembre 2000, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile.

7. Sia la ricorrente che il Governo hanno depositato le osservazioni scritte sul merito del caso (articolo 59 § 1 del regolamento).

 

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE.

8. La ricorrente è proprietaria fin dal 1967 di un terreno di circa 65.000 metri quadrati, situato nel comune di Pomezia ed iscritto al catasto, foglio 11, particella 66. Nel 1963, il comune di Pomezia aveva approvato un progetto di costruzione da realizzare sul suddetto terreno.

A. Il primo divieto posto con atto amministrativo.

9. Il 29 dicembre 1967, il Comune di Pomezia adottò una delibera in vista dell’adozione di un piano regolatore generale (di seguito PRG) che destinava il terreno della ricorrente alla creazione di un parco pubblico.

10. Il 20 novembre 1974, la regione Lazio approvò il  PRG di Pomezia. Quest’ultimo destinava il terreno della ricorrente alla creazione di un parco pubblico e, di conseguenza,  colpiva il predetto terreno con un divieto assoluto di costruire in vista della sua espropriazione.

11. Conformemente all’art. 2 della legge n° 1187 del 1968, il  vincolo di inedificabilità imposto dal PRG divenne inefficace nel 1979, non essendo stato adottato alcun piano urbanistico particolareggiato   nel termine dei cinque anni.

B. I limiti del diritto di edificare derivanti dall’applicazione dell’art. 4 della legge n° 10/1977.

12. Nonostante il venir meno del  vincolo di inedificabilità, il terreno della ricorrente non recuperò la sua destinazione originaria.

13. In effetti, nell’attesa della decisione  del Comune di Pomezia in merito alla nuova destinazione da dare al terreno in questione,  questo fu sottoposto al regime previsto dall’articolo 4 della legge n° 10 del 1977, disposizione considerata applicabile a questo tipo di situazione dalla giurisprudenza (vedi §§ 38 - 40) ed, a partire dal 1990, dalla legge n° 86 della regione Lazio.

14. Di conseguenza, il terreno della ricorrente fu colpito dalle limitazioni al diritto di edificare derivanti dall’applicazione di questa legge.

15. Il 12 marzo 1987, la ricorrente, richiese al comune di Pomezia, di determinare la nuova destinazione del terreno. Tale istanza rimase senza seguito.

16. A fronte della mancata risposta da parte del Comune, equivalente ad un rigetto, la ricorrente presentò un  ricorso davanti al Tribunale amministrativo regionale (TAR). Essa  deduceva in primo luogo che il Comune di Pomezia aveva l’obbligo di determinare la nuova destinazione del suo terreno e che l’inerzia del comune era illegale. Peraltro, la ricorrente richiedeva che l’amministrazione classificasse il terreno come edificabile.

17. Con una sentenza del 16 ottobre 1989, il TAR del Lazio accolse il ricorso della ricorrente, nella misura in cui riconobbe che l’inerzia del Comune di Pomezia era illegale.

18. Il tribunale  considerò che   il vincolo di inedificabilità imposto nel 1974 era divenuto inefficace dopo cinque anni, ai sensi della legge n° 1187/1968, poiché il Comune di Pomezia non aveva adottato nessun piano urbanistico particolareggiato. Da quel momento, il terreno della ricorrente era sottoposto al regime previsto dalla legge n° 10/1977. Ora, il tribunale stimò che le limitazioni al diritto di edificare derivanti dall’applicazione di questa legge n° 10/1977 non potessero sostituire un atto amministrativo che determinava in positivo quale fosse la destinazione del terreno; di conseguenza, l’amministrazione aveva dunque l’obbligo di procedere alla   ricostituzione della disciplina urbanistica; l’inerzia dell’amministrazione era illegale. Tuttavia, il Comune restava totalmente libero di attribuire al terreno in questione la destinazione che egli voleva, non potendo il TAR ordinare che il terreno fosse classificato in un modo o in un altro. 

19. In conclusione, il TAR ordinò all’amministrazione comunale di attribuire una nuova destinazione al terreno della ricorrente.

20. Il Comune di Pomezia interpose appello a questa sentenza.

21. Con una sentenza del 28 febbraio 1992, il Consiglio di Stato rigettò il ricorso del Comune di Pomezia e confermò la sentenza impugnata.

22. Non avendo il Comune di Pomezia dato seguito alla sentenza del Consiglio di Stato,  il 10 settembre 1992 la ricorrente invitò lo stesso Comune ad adottare una decisione riguardante il terreno. Peraltro, la ricorrente avanzò una proposta risolutiva, secondo la quale se il Comune avesse classificato 15.000 metri quadrati come terreno  edificabile, la restante parte di terreno sarebbe ceduta gratuitamente dalla ricorrente al Comune. Tale proposta rimase senza seguito.

C. Il secondo divieto stabilito dall’atto amministrativo.

23. Con una decisione  del 25 ottobre 1995, il Comune di Pomezia prese una delibera in vista dell’adozione di un piano urbanistico  particolareggiato ed impose nuovamente il vincolo assoluto d’inedificabilità in vista dell’espropriazione del terreno della ricorrente. Il Comune classificò il terreno come destinato a dei servizi pubblici.

24. La ricorrente propose un ricorso contro questa decisione davanti al Comitato regionale incaricato di controllare gli atti dei comuni (CORECO) allo scopo di ottenere l’annullamento della decisione del Comune. La ricorrente deduceva che la destinazione del terreno era stata indicata in maniera troppo incerta, e che non  erano state soddisfatte le condizioni per poter rinnovare il divieto, tra cui l’esistenza di un interesse pubblico. Non si conosce l’esito di questo ricorso.

25. Dalla perizia prodotta dalla ricorrente risulta che in data 22 marzo 1999 è stato adottato il piano urbanistico particolareggiato che prevedeva il  vincolo di inedificabilità sul terreno della ricorrente.

 

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI  PERTINENTI.

 

1. Nozioni generali in materia  urbanistica.

26. In virtù dell’articolo 42 commi 2 e 3 della Costituzione italiana, “la proprietà privata è   riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”.

La legge urbanistica (legge n° 1150 del 1942 e le relative modifiche) disciplina lo sviluppo urbanistico del territorio e conferisce ai Comuni il potere di adottare i piani regolatori i quali devono concernere il territorio comunale nella sua  totalità.

27. Il piano regolatore generale (infra PRG) è un atto avente durata indeterminata. La procedura di adozione di un PRG ha inizio mediante una delibera  Comune (delibera di adozione), in seguito alla quale ha inizio un periodo di salvaguardia, durante il quale è sospesa ogni decisione relativa alle domande di concessione edilizia che potrebbero essere in contrasto con la realizzazione del PRG  (Legge n° 1902 del 1952 e relative modifiche). L’approvazione del PRG  appartiene alla competenza delle Regioni (art. 1 del decreto presidenziale (DPR) n° 8 del 1972  ed articoli 79 e80 del DPR n° 616 del 1977), mentre in precedenza vi si provvedeva mediante decreto del Presidente della Repubblica. Dopo che il PRG è stato approvato, esso viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e depositato in Comune.

28. Allorquando il PRG regola in modo preciso il territorio, esso può essere eseguito de plano; molto spesso,  il PRG ha bisogno per  la sua applicazione di un atto complementare. Quest’ultimo può dipendere dall’iniziativa pubblica, come segnatamente il piano urbanistico particolareggiato, e questo ha una durata determinata. In effetti, dopo l’adozione del piano particolareggiato, (piano che equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità) l’amministrazione dispone di un termine perentorio (che non può superare i dieci anni, ai sensi dell’articolo 16 della Legge urbanistica) per espropriare ed in ogni caso per dargli esecuzione sotto pena di decadenza del piano. Qualora il PRG ha bisogno di un piano particolareggiato per la sua applicazione, spetta al Comune di adottarne uno. Tuttavia,  alcun termine perentorio è previsto per l’adozione di un piano particolareggiato.

2. L’imposizione e la durata del divieto di edificare: i principi fissati dalla Corte costituzionale.

29. Le limitazioni al diritto di disporre della proprietà, come il  vincolo di inedificabilità, sono imposte con l’adozione di  un piano regolatore. Un divieto di edificabilità può  essere imposto in vista dell’espropriazione del terreno (vincolo preordinato all’esproprio), quando colpisce un terreno destinato a uso pubblico o alla costruzione di immobili o infrastrutture pubbliche (art. 7 n° 3 e n° 4 della Legge urbanistica).

30. La legge urbanistica, nel suo testo originale, stabiliva che le limitazioni al diritto di proprietà  dei privati previsti da un piano regolatore generale,  segnatamente i vincoli di inedificabilità, avessero una durata equivalente  a quella del piano regolatore generale, cioè  avevano una durata indeterminata; contestualmente, non era previsto alcun indennizzo per i proprietari (art. 40).

31. La Corte costituzionale venne investita della questione se fosse  compatibile con il diritto di proprietà,  un divieto che limitasse gravemente il diritto di proprietà, quale un vincolo espropriativo o un vincolo di inedificabilità, che poteva protrarsi   sine die  senza alcuna forma di indennizzo.

32. Con le sentenze rese tra il 1966 e il 1968 (vedi segnatamente la sentenza n°6 del 1966 e n° 55 del 29 maggio 1968), la Corte costituzionale si pronunciò per la negativa  e dichiarò incostituzionale la legge urbanistica nella parte in cui essa prevedeva la durata indeterminata per delle limitazioni gravemente lesive del diritto di proprietà, come per il caso del vincolo di inedificabilità o del vincolo preordinato all’espropriazione, in mancanza di un qualunque indennizzo.

33. La Corte costituzionale ha precisato che la legge può limitare il diritto di proprietà dei privati, a condizione che la sua sostanza non  sia svuotata. D’altro canto, il diritto di edificare deve essere considerato come una facoltà inerente al diritto di proprietà, il quale non può essere limitato che per ragioni di   utilità pubblica precise ed attuali. Nel caso di espropriazione o di  limitazioni lesive della natura stessa del diritto in oggetto (come un vincolo di inedificabilità) aventi una durata indeterminata, il proprietario deve ricevere un indennizzo pecuniario. Per contro,  non è dovuto alcun indennizzo per il caso in cui il vincolo di inedificabilità sia previsto con una durata determinata.

34. In seguito a queste sentenze della Corte Costituzionale che fissavano i principi in materia di gravi limitazioni al diritto di proprietà, il legislatore aveva due opzioni:  scegliere  per dei divieti  a durata determinata senza indennizzo; alternativamente optare per dei divieti  a durata indeterminata con immediato indennizzo.

35. Il legislatore italiano ha dato esecuzione a queste sentenze scegliendo la prima opzione ed adottando, il 19 novembre 1968, la legge n° 1187 del 1968, che ha modificato la legge urbanistica.   Ai sensi dell’art. 2 comma 1 di questa legge,   in occasione dell’adozione del piano regolatore generale, le autorità locali possono imporre ai privati dei vincoli preordinati all’esproprio del terreno e dei vincoli di inedificabilità. Tuttavia, queste limitazioni  perdono la loro efficacia entro cinque anni se non avviene l’ espropriazione o quando  non è  adottato alcun piano urbanistico di attuazione, segnatamente un  piano particolareggiato.

36. L’articolo 2 della Legge n°1187/1968 prevedeva parimenti, nel suo secondo comma, una proroga ex lege, per un periodo di cinque anni, dei termini fissati dal  piano regolatore generale approvati prima della data della sua entrata in vigore. Le leggi n° 756 del 1973 e 696 del 1975 e il Decreto Legge n° 781 del 26 novembre 1976 hanno prorogato questi stessi termini fino all’entrata in vigore della Legge n° 10 del 1977 (disposizioni in materia di edificabilità dei suoli).

37. Con la sentenza n°92 del 1982, la Corte costituzionale ha precisato la portata della legge n° 10 del 1977, affermando che, anche successivamente alla sua entrata in vigore, il diritto di costruire rimane una facoltà inerente al diritto di proprietà. Quanto ai vincoli di inedificabilità, la Corte ha precisato che questi rimangono sottomessi alla legge 1187 del 1968, precisamente la loro durata non può superare i  cinque anni in mancanza dell’approvazione di un piano particolareggiato.

3. Situazione successiva alla decadenza di un vincolo di inedificabilità   

38. Secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il vincolo di inedificabilità scade ai sensi dell’art. 2 comma 1 della legge n° 1187 del 1968, in seguito allo scadere del termine di cinque anni, i terreni interessati  non recuperano automaticamente la loro destinazione originaria e non acquistano automaticamente la destinazione dei terreni limitrofi. Per determinare la nuova destinazione di un terreno, occorre un atto positivo dell’amministrazione, come un  piano particolareggiato.

Aspettando questo atto positivo dell’amministrazione, i terreni interessati  sono considerati dalla giurisprudenza come sottomessi al regime previsto dall’art. 4 della Legge n° 10 del 1977, relativo ai terreni dei Comuni che non abbiano adottato un piano regolatore generale (giurisprudenza del Consiglio di Stato, in particolare vedere le sentenze dell’adunanza plenaria n° 7 e n°10 del 1984).

Secondo l’art. 4 di questa legge, una concessione edilizia può essere rilasciata unicamente se il terreno è situato al di fuori del centro abitato ed a determinate condizioni, per un volume molto ridotto. Se il terreno è situato all’interno del centro abitato, qualunque nuova costruzione è vietata.

39. La Regione Lazio ha inserito la suddetta giurisprudenza nella Legge n° 86 del 24 novembre 1990, che prevede espressamente che il divieto assoluto di edificare colpisce i terreni sprovvisti di una destinazione urbanistica che si trovano all’interno di un centro abitato.

 

4. Nel  caso di  inerzia della  amministrazione.

 

40. Successivamente alla decadenza di un vincolo di inedificabilità, incombe sul Comune l’obbligo di determinare rapidamente la nuova destinazione del terreno interessato; tuttavia non è previsto alcun un termine.

41. L’inerzia dell’amministrazione può essere denunciata da coloro che vi abbiano interesse davanti alle giurisdizioni amministrative (sentenza del Consiglio di Stato, IV sez., 20.5.1996 n°664). Quest’ultime possono ordinare al Comune di determinare la nuova destinazione degli immobili interessati, senza tuttavia potersi sostituire alle autorità interessate nella scelta della destinazione. Nella sentenza n° 67 del 1990, riguardante un caso di espropriazione in cui era in contestazione l’inerzia dell’amministrazione, la Corte costituzionale ha affermato che il ricorso che permette di impugnare l’inerzia dell’amministrazione davanti al tribunale amministrativo è defatigante e non conclusivo con conseguente scarsa efficacia.

42. La Corte costituzionale è stata  investita della questione se sia  compatibile con la  Costituzione  la sottoposizione di un terreno al regime  previsto dall’art. 4 della Legge n° 10/1977, considerato  che tale regime comporta un vincolo di inedificabilità sine die – in ragione dell’inerzia dell’amministrazione nel determinare una nuova destinazione del terreno interessato (in specie nell’adozione di un piano regolatore)- e senza previsione di alcun indennizzo. Nella sentenza n° 185 del 1993, la Corte costituzionale ha dichiarato la questione irricevibile, poiché spetta alla competenza esclusiva del legislatore di intervenire tempestivamente ed in maniera idonea a portare rimedio a questa situazione.

5. Il rinnovo del vincolo d’inedificabilità (mediante atto amministrativo)

43. Con una sentenza del 1989 (n° 575), la Corte costituzionale ha indicato che, allo spirare del termine di cinque anni previsto dall’articolo 2 della Legge n° 1187 del 1968 ed in occasione di una nuova pianificazione del territorio, le autorità locali hanno il potere di rinnovare il vincolo di inedificabilità  per ragioni di utilità pubblica. Dunque questa sentenza ha riconosciuto il potere dell’amministrazione di reiterare il divieto  una volta che il primo sia scaduto.

44. Tuttavia, il potere dell’amministrazione di rinnovare il divieto  di costruire non può tradursi in un divieto di costruire  sine die in assenza di ogni forma di indennizzo. Infatti, allorché il divieto di costruire svuota la sostanza del diritto di proprietà poiché  determina un’incertezza sostanziale, in conseguenza del fatto che  è prorogato per una durata indeterminata o è reiterato, il proprietario dovrebbe beneficiare di un indennizzo (vedi parimenti le sentenze della Corte costituzionale n° 186 del 1993, n° 344 del 1995 e la sentenza  del Consiglio di Stato (sez. IV ) n° 159  del 1994).

6. L’assenza di indennizzo.

45. La Corte di cassazione ha stabilito che nell’ipotesi di limitazioni al diritto di proprietà in vista dell’espropriazione ed anche in assenza di ogni indennizzo, il proprietario interessato è titolare di un semplice interesse legittimo, cioè di una situazione individuale protetta in maniera indiretta e subordinata al rispetto dell’interesse pubblico e non  di un diritto soggettivo all’ottenimento di un indennizzo pecuniario (vedi le sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione n° 11308 del 28 ottobre 1995, n°11257 del 15 ottobre 1992 e n° 3987 del 10 giugno 1983).

46. Di conseguenza, a fronte della decisione delle autorità comunali che gli  impongono un vincolo d’inedificabilità, il proprietario può adire le giurisdizioni amministrative per far constatare se, nell’esercizio del suo potere discrezionale, l’amministrazione ha rispettato le regole fissate dalla legge    e non ha oltrepassato il margine di apprezzamento di cui dispone nella valutazione dell’equilibrio tra l’interesse pubblico e quello dei privati. Tuttavia, anche se le giurisdizioni amministrative annullano il vincolo di inedificabilità, non è dovuto alcun indennizzo allorquando il vincolo d’inedificabilità sia stato imposto per una durata determinata, segnatamente se esso è sottoposto al termine di cinque anni previsto dall’articolo 2 della legge n° 1187 del 1968.

47. Ricordando i principi fissati nella propria giurisprudenza anteriore (vedi le sentenze ricordate al § 32 così come le sentenze n° 82 del 1982, n°575 del 1989, n°344 del 1995), la Corte costituzionale ha, con la sentenza n°179 del 12-20 maggio 1999, dichiarato incompatibile con la Costituzione la mancata previsione da parte della legge di una forma d’indennizzo per il caso in cui la possibilità di esproprio o un vincolo di inedificabilità, fossero reiterati dall’amministrazione di modo che il diritto di proprietà ne sia gravemente leso. Il diritto di proprietà è limitato in modo problematico allorché un divieto sia reiterato o prorogato sine die o allorquando sia rinnovato più volte per un periodo determinato.

Pur lasciando intatta la possibilità per l’amministrazione di rinnovare i vincoli d’inedificabilità, la Corte ha affermato che è necessario che il legislatore intervenga e preveda una forma d’indennizzo, precisandone i criteri e le modalità.

La Corte non ha escluso che un giudice investito della domanda di un indennizzo prima dell’intervento del legislatore possa ricercare all’interno del sistema giuridico dei criteri che gli permettano di attribuire, all’occorrenza, un indennizzo.

La Corte ha egualmente precisato che l’obbligo d’indennizzo non concerne che il periodo successivo ai primi cinque anni di divieto (periodo di franchigia).

IN DIRITTO

I. DELLA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N°1.

48. La società ricorrente sostiene che le limitazioni imposte sul suo terreno per un lungo periodo ed in assenza di un indennizzo attentano al suo diritto al rispetto dei propri beni, garantito dall’articolo 1 del Protocollo n°1, il quale recita:

<<Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non  per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

 Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende>>.

1. Dell’esistenza di una ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente.

49. La Corte sottolinea che le parti sono d’accordo nel ritenere che vi è stata una ingerenza nel  diritto al rispetto dei beni della  ricorrente.

50. Rimane da esaminare se tale ingerenza abbia o meno infranto l’articolo 1 del Protocollo n° 1.

2. Sulla giustificazione della ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente.

a). La  regola applicabile.

51. La Corte ricorda che l’articolo 1 del Protocollo n°1 contiene tre  norme distinte: <<la prima, che è espressa nella prima frase del primo comma e riveste un carattere generale,  enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, che figura nella seconda frase dello stesso comma, prevede la  privazione della proprietà e la sottomette a determinate  condizioni; quanto alla terza, collocata nel secondo comma,  riconosce agli Stati il potere, tra gli altri,  di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale (…). Non si tratta pertanto di regole sprovviste di un una correlazione tra loro. La seconda e la terza  derivano da esempi particolari di attentati al diritto di proprietà; cosicché, queste si devono interpretare alla luce del principio consacrato dalla prima >> ( vedere, tra le altre, la sentenza James e altri c. Regno Unito del 21 febbraio 1986, serie A n° 98-B, pp. 29-30, §37, la quale riprende in parte i termini dell’analisi che la Corte ha sviluppato nella sua sentenza Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, serie A n° 52, p.24, § 61; vedi anche le sentenze Les saints monastères c. Grecia del 9 dicembre 1994, serie A n° 301-A, p.31, § 56, e Iatridis c. Grecia [GC], n°31107/96, § 55, CEDH 1999-II).

52. La ricorrente deduce  di essere vittima di un’espropriazione di fatto a seguito dell’effetto combinato dei vincoli di inedificabilità in previsione della  espropriazione del terreno, che hanno ridotto  a nulla il  valore e le possibilità di disporre di quest’ultimo.

53. Il Governo ritiene che la situazione in contestazione rientri nell’ambito della regolamentazione dell’uso dei beni.

54. La Corte osserva che il terreno della ricorrente è stato sottoposto a dei vincoli di inedificabilità in prospettiva della  espropriazione. Ordunque, tali misure non hanno comportato  una privazione formale della proprietà, ai sensi della seconda frase del primo comma dell’articolo 1, poiché il diritto di proprietà della ricorrente è rimasto giuridicamente intatto.

55. In assenza di un trasferimento di proprietà, la Corte deve guardare al di là delle apparenze ed analizzare la realtà della situazione  in contestazione. A questo proposito, occorre verificare se la suddetta situazione non equivalga ad un’espropriazione di fatto, come lo pretende l’interessata (vedi mutatis mutandis, la sentenza Airey c. Irlanda del 9 ottobre 1979, serie A n° 32, p. 14, § 25).

56. La Corte rileva che gli effetti della situazione in contestazione denunciati dalla ricorrente derivano tutti dalla diminuzione della disponibilità del bene in causa.  Essi risultano dalle limitazioni  apportate al diritto di proprietà così come  dalle conseguenze di quest’ultime circa il valore dell’immobile. Pertanto, sebbene abbia perduto la sua sostanza, il diritto in causa non è scomparso. Gli effetti dei  provvedimenti in questione non sono tali da poterli assimilare ad una privazione di proprietà. La Corte sottolinea a tal proposito   che la ricorrente non ha perso né l’accesso al terreno né il dominio dello stesso e che in via di principio   è persistita la possibilità di vendere il terreno, anche se resa più difficoltosa (sentenza Loizidou c. Turchia del 18 dicembre 1996, Raccolta 1996-VI, p. 2237, § 63; sentenza Sporrong e Lönnorth precedentemente citata, p. 24, § 63). In questo contesto, la Corte ritiene che non c’è stata espropriazione di fatto e che pertanto nella fattispecie non sia possibile applicare la seconda frase del primo comma.

57. La Corte ritiene  che i provvedimenti in contestazione non rientrano neppure nel campo della regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n°1.  In effetti, se è vero che si tratta dei divieti di costruire che regolano il territorio ( sentenza Sporrong già citata, p. 25, § 64), resta nondimeno il fatto che gli stessi provvedimenti miravano nello stesso tempo all’espropriazione del terreno ( vedi § 29).

La Corte ritiene pertanto che la situazione denunciata dalla ricorrente rientri nel campo della prima frase dell’articolo 1 del Protocollo n° 1   (sentenza Sporrong già citata, p. 25, § 65; sentenze Erkner e Hofauer c. Austria del 23 aprile 1987, serie A n° 117, p. 65, § 74 e Poiss c. Austria del 23 aprile 1987, serie A n° 117, p. 108, § 64).

b) Il rispetto della norma enunciata alla prima frase del primo comma

58. Ai fini della prima frase del primo comma, la Corte deve ricercare se è stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità ed i dettami della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (sentenza Sporrong e Lönnroth, già citata, p. 26, § 69; sentenza Phocas c. Francia del 23 aprile 1996, Raccolta 1996-II, p. 542, § 53).

i. Tesi sostenuta dalla ricorrente.

59. La ricorrente sostiene che la situazione denunciata non è conforme all’articolo 1 del Protocollo n°1.

60. Essa fa osservare che l’ingerenza sul suo diritto al rispetto dei beni dura da più di trentatre anni, dato che, antecedentemente all’adozione del piano regolatore generale del 1974 ed  all’imposizione del primo divieto, il suo terreno si trovava sotto l’incidenza di misure di salvaguardia  a decorrere dalla delibera comunale del 1967.

61. La ricorrente rimprovera alle autorità amministrative un lungo periodo di inerzia: essa sottolinea i ritardi nell’attribuzione di una destinazione del terreno, dopo la scadenza del primo divieto, così come il fatto che  l’amministrazione non abbia mai  proceduto all’espropriazione del terreno. A questo  proposito,  fa osservare, che a partire dal novembre 1979, dopo la scadenza del vincolo d’inedificabilità imposto dal piano regolatore generale,  il terreno è stato sottomesso alla disciplina della legge n° 10 del 1977, il ché equivale ad un nuovo vincolo di inedificabilità, che è durato fino all’adozione di un piano particolareggiato. La ricorrente indica che l’illegalità di questo sistema è stato sottolineato dalla  sentenza della Corte costituzionale resa nel 1999.

62. L’interessata fa osservare che, per l’effetto combinato dei vincoli di inedificabilità in vista dell’espropriazione del suo terreno, il suo diritto di proprietà è stato “congelato” durante tutto questo     periodo: essa ha perso ogni possibilità di utilizzare il terreno ed il valore di quest’ultimo è   stato annientato.

63. La ricorrente contesta l’allegazione del Governo  secondo cui essa avrebbe potuto utilizzare il terreno per fini agricoli, dato che il terreno in causa è situato in pieno centro di Pomezia. Peraltro, il fatto che, prima dell’adozione del piano regolatore generale, il Comune fosse favorevole ad un progetto di una costruzione confermerebbe che il terreno non è idoneo ad un uso agricolo.

64. Essa allega che non era possibile nemmeno dare in locazione il terreno, poiché nessun’attività su quest’ultimo sarebbe stata autorizzata.

65. Quanto alla possibilità di vendere il terreno, la ricorrente sostiene che la situazione litigiosa ha eliminato ogni concreta possibilità di trovare un acquirente.

66. Essa  contesta la tesi del Governo  secondo cui  il potenziale acquirente, in caso in cui il terreno fosse successivamente espropriato,  riceverebbe un indennizzo quasi equivalente al valore venale. A questo proposito la ricorrente fa riferimento alla legge n° 359 del 1992, che fissa i criteri per determinare l’indennizzo in caso di espropriazione,  e sostiene che l’indennizzo  equivarrebbe al 30% del valore venale del terreno. Di conseguenza, non si potrebbe  sostenere che il terreno in causa può essere venduto.

67. D’altra parte, se il terreno non era  espropriato e l’atto amministrativo che impone il vincolo di inedificabilità  perdeva la sua efficacia, il potenziale acquirente  dovrebbe attendere che l’amministrazione attribuisse una nuova destinazione al terreno.  Ora, contro l’inerzia dell’amministrazione l’interessato non dispone che del ricorso davanti al Tribunale amministrativo, ricorso che ha una debole  efficacia, come lo ha statuito la Corte costituzionale nella sentenza n° 67 del 1990 e come dimostra il ricorso che la stessa ricorrente ha intentato davanti alle giurisdizioni amministrative. Ciò rafforza la conclusione che il terreno era un bene fuori dal commercio.

68. Tenuto conto della gravità della lesione al suo diritto di proprietà, la ricorrente osserva che l’assenza di un indennizzo è incompatibile con l’articolo 1 del Protocollo n° 1. Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte (sentenze precitate Sporrong e Lönnroth, Erkner e Hofauer, Poiss), la ricorrente osserva che la rottura del giusto equilibrio  è stata riconosciuta in questi casi, dove l’ingerenza aveva una durata inferiore a quella del caso in specie.

69. La ricorrente sottolinea che i principi fissati dalla Corte costituzionale in materia non  sono stati presi in considerazione nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione  e che pertanto un terreno può essere sempre sottomesso per una durata indeterminata ad un vincolo di inedificabilità  senza possibilità di  indennizzo.

70. In conclusione, la ricorrente richiede alla Corte di constatare  una violazione dell’articolo 1 del Protocollo n° 1

ii.Tesi difesa dal Governo.

71. Il Governo osserva che la situazione denunciata non può essere assimilata ad una privazione di proprietà. Infatti, la doglianza della ricorrente riguarda il vincolo di inedificabilità gravante sul suo terreno, il ché non equivale all’impossibilità di utilizzare il terreno. A tal proposito, il Governo sostiene che sarebbe stata possibile un’utilizzazione del terreno a fini  agricoli.

72. Inoltre, la ricorrente avrebbe sempre avuto la possibilità di   vendere il suo terreno, malgrado il fatto che quest'ultimo potesse essere espropriato. In effetti, in caso di espropriazione, sarebbe  versato dall’amministrazione un indennizzo che raggiunge quasi il valore di mercato del terreno.

D’altra parte, se il terreno non fosse  espropriato, il vincolo di inedificabilità  perderebbe di efficacia dopo  la scadenza del termine previsto dalla legge e l’amministrazione attribuirebbe una nuova destinazione al terreno.

73. Avuto riguardo a queste considerazioni, secondo il Governo nella fattispecie non c’è stata la rottura del giusto equilibrio, poiché il  vincolo di inedificabilità in contestazione rientra nel margine di apprezzamento lasciato agli Stati, che   in questo campo è particolarmente ampio. Il Governo si riferisce alla giurisprudenza della Corte nei casi  Mellacher c. Austria, Fredin c. Svezia, Allan Jacobsson c. Svezia, e Pine Valley Developpement Ltd e altri c. Irlanda.

74. Il Governo indica infine che il diritto di proprietà tale come garantito dalla Costituzione italiana, risponde ad una funzione sociale.

75. In conclusione, il Governo sostiene che la situazione denunciata dalla ricorrente è compatibile con l’articolo 1 del Protocollo n° 1 e chiede alla Corte di concludere per la non violazione di questa disposizione.

 

iii. Valutazione della Corte.

 

76. La Corte constata che il terreno della ricorrente è stato sottoposto ad un vincolo di inedificabilità in vista della sua espropriazione imposto dal piano regolatore generale; dopo la sua scadenza, il vincolo di inedificabilità è stato mantenuto mediante l’applicazione della disciplina prevista dalla Legge n° 10 del 1977; un vincolo di inedificabilità in vista dell’espropriazione è stato infine nuovamente imposto dal piano particolareggiato. Ne risulta che l’ingerenza in contestazione dura da più di ventisei anni a decorrere dall’approvazione del piano regionale urbanistico (vedi § 10), e da più di trentatre anni a decorrere dalla delibera comunale in vista dell’adozione di quello (vedi § 9).

77. La Corte giudica naturale che in un campo così complesso e difficile come quello della pianificazione del territorio, gli Stati firmatari godano di un largo margine di apprezzamento per gestire la loro politica urbanistica ( sentenza Sporrong e Lönnroth, precitata, p. 26, § 69). Essa ritiene accertato che l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni rispondeva alle  esigenze dell’interesse generale. Essa non saprebbe per questo rinunciare al suo potere di controllo.

78. Rientra nella competenza della Corte verificare che l’equilibrio voluto sia stato preservato in maniera compatibile con il diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni, ai sensi della prima frase  dell’articolo 1.

79. La Corte ritiene che durante tutto il periodo interessato, la ricorrente è rimasta in una incertezza assoluta  quanto alla sorte della sua proprietà: in un primo momento, dato che il piano regolatore generale  colpiva il terreno con un divieto in prospettiva dell’espropriazione, il predetto terreno avrebbe potuto essere espropriato a condizione  che fosse adottato   un piano regolatore particolareggiato, ma ciò non è avvenuto (vedi § 11); dopo il 1979, il terreno poteva, in ogni momento, essere nuovamente colpito da un altro divieto in previsione dell’espropriazione, il ché si è verificato sedici anni più tardi, nell’ottobre 1995, mediante una delibera comunale, divenuta definitiva nel 1999 (vedi §§ 12, 13, 24, 25); attualmente il terreno può, in ogni momento, essere espropriato.

80. La Corte sottolinea che le domande indirizzate al comune ed i ricorsi introdotti dalla ricorrente davanti alle autorità amministrative non hanno posto rimedio all’incertezza subita tra il 1979 ed il 1995 (vedi §§ 15-22).

81. La Corte  ritiene inoltre che l’esistenza, durante tutto il periodo interessato, di  vincoli d’inedificabilità ha impedito il pieno godimento del diritto di proprietà della ricorrente ed ha accentuato le ripercussioni dannose sulla situazione della ricorrente, riducendo considerevolmente, tra le altre, le chances di vendere il terreno.

82. La Corte constata infine che la legislazione nazionale non prevede la possibilità di ottenere un indennizzo.

83. Le circostanze della causa, in particolare l’incertezza raddoppiata dall’inesistenza di  ogni ricorso interno efficace  idoneo a  rimediare in  qualche modo alla situazione in contestazione combinata con l’ostacolo al pieno godimento del diritto di proprietà e l’assenza di indennizzo,  inducono la Corte a considerare che la ricorrente ha dovuto sopportare un  peso eccezionale  e  sproporzionato che ha rotto il giusto equilibrio che deve  esserci tra,  da un lato, le esigenze dell’interesse generale e, dall’altro,   la tutela del diritto al rispetto dei beni (sentenza Sporrong precitata, p. 28 §§ 73-74; sentenza Erkner e Hofauer precitata, p.66, §§ 78-79; sentenza Poiss precitata, p.109, §§ 68, 69; Almeida Garret, Mascarenhas Falcão e altri c. Portogallo, n° 29813/96 e 30229/96 (sez.I) CEDH 2000, § 54).

84. In conclusione, c’è stata  violazione dell’articolo 1 del Protocollo n.1


II. L’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE.


85. Secondo quanto stabilisce l’articolo 41 della Convenzione,

<<Se la Corte ritiene ci sia stata una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette di cancellare se non in maniera imperfetta le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se è del caso, un equo indennizzo>>.

86. A titolo di danno materiale, la ricorrente chiede un risarcimento di lire italiane 5.389.410.000 (ITL), corrispondente  al valore del terreno nel 1979, data in cui è scaduto  il primo vincolo di inedificabilità. Questa somma deve essere rivalutata e maggiorata degli interessi. La ricorrente fa riferimento ad una perizia fatta nel 1977 su dei terreni limitrofi, che sono stati edificati entro il limite di 3 metri cubi per   metro quadro. La ricorrente indica che il valore del terreno  calcolato nel dicembre del 2000 è di 550.000 (ITL) per metro quadrato.

87. A titolo di danno morale, la ricorrente chiede    5.000.000.000 di lire italiane (ITL). Essa sottolinea che,  trattandosi di una società a gestione familiare (madre padre e figli), essa può a ragione avanzare la pretesa di un indennizzo per l’incertezza e l’angoscia che le vicende del terreno hanno provocato. In effetti, il terreno  costituiva la principale risorsa della famiglia. Peraltro, due soci avrebbero avuto delle ripercussioni sul proprio stato di salute.

88. La ricorrente chiede il rimborso di varie spese sostenute a livello nazionale, che ammontano a  200 milioni (ITL) e di cui essa riconosce di non essere in possesso dell’integralità dei giustificativi. Per quel che riguarda la procedura davanti al TAR ed al Consiglio di Stato ( vedi §§ 16-21), la ricorrente ha fornito due notule degli onorari, per un ammontare  rispettivo di   7.500.000  (ITL) e  2.500.000  (ITL); inoltre, essa ha fornito una terza nota di onorari ammontante a 5.000.000  (ITL) corrispondente all’assistenza di un altro avvocato che la ha difesa nella procedura sopraddetta. L’ammontare complessivo di queste tre notule di onorari di cui la ricorrente chiede il rimborso è pari a   14.650.000 (ITL), più IVA (imposta sul valore aggiunto) e CPA (contributo alla cassa di previdenza degli avvocati).

89. Quanto alla procedura a Strasburgo, presentando un progetto di  nota d’onorari  basata  sulle tariffe nazionali, la ricorrente chiede un rimborso pari a 238.000.000 (ITL) più IVA e CPA.

90. Secondo il Governo,   la  ricorrente non ha titolo per reclamare un  danno materiale,  nella misura in cui chiede una somma per un terreno edificabile e si riferisce ai terreni vicini che non sono sottoposti al vincolo di inedificabilità. Secondo il Governo, reclamare un danno materiale di tale sorta equivale a negare il potere dell’amministrazione di regolamentare il territorio e sarebbe come a dire  che il proprietario ha il diritto di costruire.

91. Quanto al danno morale, il Governo osserva che nessuna somma deve essere attribuita a tale titolo alla ricorrente, poiché si tratta di una società. In ogni caso, il Governo sostiene che la somma richiesta è esorbitante.

92. Il Governo fa  osservare infine che le spese esposte dalla ricorrente non  sembrano essere rimborsabili.

93. La Corte ritiene che   la  questione  dell’applicazione dell’articolo 41 non  è ancora istruita,  di talché è  necessario riservarla   avuto riguardo  all’eventualità di un accordo tra Stato convenuto e  l’interessata ( articolo 75 §§ 1 e 4 del regolamento).


PER QUESTI MOTIVI LA CORTE,


1. Dichiara, per sei voti contro uno, che c’è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n°1;

2. Dichiara, per sei voti contro uno, che la questione dell’applicabilità dell’articolo 41 della Convenzione non   è istruita.

3. Di conseguenza,

 


a) la riserva per intero;

 


b) invita il Governo e la ricorrente ad indirizzarle per iscritto, entro tre mesi, le loro osservazioni su questa questione e segnatamente di portarla a conoscenza di ogni accordo a cui essi potrebbero positivamente pervenire;

c) riserva la procedura ulteriore e delega al presidente della camera il compito di fissarla all’occorrenza.


Fatta in francese e poi comunicata il 2 agosto 2001 in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Christos Rozakis (Presidente)

Erik Fribergh (Cancelliere)


Alla presente sentenza si trova allegato, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’opinione dissenziente del giudice Conforti.


OPINIONE DISSENZIENTE 
DEL GIUDICE CONFORTI

A mio avviso, l’articolo 1 del Protocollo n°1 non è stato violato.


 La questione principale che il caso solleva è il vincolo d’inedificabilità che ha colpito il terreno della società ricorrente durante ventisei anni a causa sia del comportamento  del Comune di Pomezia sia, e soprattutto, a causa   della Legge n° 10 del 1977 dello Stato italiano e della Legge della Regione Lazio n° 86 del 1990 (vedere §§ 13 e 38- 40 della sentenza).

Secondo la maggioranza della Corte, essendo la società ricorrente rimasta in una assoluta incertezza per quanto concerne la sorte della sua proprietà in ragione  del vincolo d’inedificabilità in vista dell’espropriazione e  della mancanza di  piani regolatori particolareggiati, è stato rotto il giusto equilibrio tra le  esigenze dell’interesse generale ed il diritto al rispetto dei beni della ricorrente.


Io non sono d’accordo.


Tutti sanno in Italia che il vincolo d’inedificabilità previsto dalla legge del 1977 è stata una reazione ad un comportamento dei privati –società immobiliari o persone fisiche- che avevano ridotto la più gran parte del territorio italiano – dunque di quello che  era stato  definito il più bel giardino dell’Europa!- ad un ammasso di cemento. Tutti sanno in Italia che la possibilità di espropriare la totalità dei terreni colpiti dal vincolo d’inedificabilità  era puramente virtuale e non attuale e che dunque il divieto non era <<in vista dell’espropriazione>> ma semplicemente un divieto di costruire.

A mio umile parere, la Corte avrebbe dovuto tener conto di questo allorché ha dovuto valutare gli interessi in gioco per non rischiare di  decidere in astratto o, e lo dico con  rispetto, a vuoto. La Corte avrebbe dovuto domandarsi se un provvedimento di divieto di costruzione per i terreni che, per la gran parte, erano dei terreni agricoli o dei giardini privati, e che dunque dovevano restare dei terreni agricoli o dei giardini, non si giustificasse in virtù dell’interesse generale. Secondo me, questa era la giusta soluzione.