Caso Di Cola

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 
CASO  DI COLA ed altri contro ITALIA 
DECISIONE PARZIALE del 11 ottobre 2001 SULLA RICEVIBILITA’  del Ricorso n°  44897/98

 

-     NON ammissibilità dell’ esame nel merito, della violazione allegata dai ricorrenti circa il termine non ragionevole di durata di un processo civile (articolo 6 della Convenzione),    a seguito della legge italiana del 24 marzo 2001 n. 89, "legge Pinto", ancorché il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo fosse stato inoltrato prima dell’entrata in vigore della predetta legge italiana.

-     Riserva di decidere sulla concorrente violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.

La decisione così motiva

(traduzione non ufficiale a cura dell’ Avv. Maurizio de Stefano)

SECONDA SEZIONE

DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ

Del ricorso n° 44897/98
presentato da Carolina DI COLA ed altri

contro l’Italia

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi l’   11 ottobre  2001in una camera composta da

C.L. Rozakis, presidente,  A.B. Baka , P. Lorenzen, M. Tsatsa-Nikolovska, E. Levits,A. Kovler, V. Zagrebelsky, e dal Sig. E. Fribergh, cancelliere di sezione,

Visto il ricorso suddetto presentato il 21 novembre 1998 e registrato il 9 dicembre 1998,

Dopo  averla deliberata,  rende la seguente decisione:

IN FATTO

All’origine, il ricorso era stato introdotto dalla sig.ra Carolina Di Cola, una cittadina italiana, natat nel  1913 e residente a Pescara.

Essa è  deceduta il  4 maggio 2000. Con una lettera del  5 ottobre 2000, il sig. Dante Angelone, il sig. Roberto Angelone, il sig.  Pasquale Angelone, la sig.ra  Angiolina Angelone, la sig.ra Dina Angelone ed il sig.. Guido Angelone, suoi figli ed eredi, hanno informato la cancelleria che desideravano proseguire la procedura davanti alla Corte. Essi  sono rappresentati davanti alla Corte da  L. Rossi, avvocato in  L’Aquila.

 

A.  Le circostanze della fattispecie

I fatti della causa, così come sono stati esposti dai ricorrenti, possono sintetizzarsi nei seguenti termini.

 

La prima  ricorrente era  proprietaria di un terreno di 1093 metri quadrati sito in Pescara e registrato nel catasto, foglio 31, particella 273. Questo terreno era soggetto ad esproprio al fine di costruire delle abitazioni.

Del decreto del 2 gennaio 1981, il sindaco di Pescara ordinò l’occupazione d’urgenza di 495 metri quadrati di terreno, per un periodo massimo di tre anni, nella prospettiva del suo esproprio per cause di pubblica utilità.

Il 7 febbraio 1981, l’amministrazione procedette all’occupazione materiale del terreno ed iniziò i lavori di costruzione.

Con un decreto del 16 gennaio 1984, il comune di Pescara prorogò di due anni l’occupazione d’urgenza del terreno.

Con delibera del 9 agosto 1985, il comune di Pescara autorizzò l’occupazione di 100 metri quadrati supplementari. Questa parte del terreno fu materialmente occupata il 22 ottobre 1985.

Tuttavia, con delibera del 9 gennaio 1986, il Comitato Regionale di Controllo degli atti delle collettività locali (Commissione Regionale di Controllo – CO.RE.CO) di Pescara annullò la predetta delibera.

Con atto di citazione notificato il 2 agosto 1989, la prima ricorrente promosse un giudizio di risarcimento dei danni ed interessi  contro il comune di Pescara davanti il tribunale civile di Pescara.

Essa allegava che l’occupazione del terreno era abusiva – da una parte perché non era stata regolarmente autorizzata, d’altra parte perché si era protratta oltre il periodo autorizzato - e che i lavori di costruzione erano terminati senza che si fosse proceduto alla espropriazione formale del terreno ed al pagamento  di una indennità. Inoltre, la ricorrente allegava che la costruzione dell’opera pubblica aveva  reso inutilizzabile la restante parte del terreno.

Il processo ebbe inizio il 26 ottobre 1989.

Il 4 maggio 2000, la prima ricorrente decedette. In seguito, gli altri ricorrenti si costituirono nel processo ed il giudice rinviò la causa al 9 maggio 2001. La procedura è attualmente pendente in primo grado.

Con lettera del 29 giugno 2001, il cancelliere della Corte ha informato il rappresentante dei ricorrenti dell’entrata in vigore, il 18 aprile 2001, della legge  n° 89 del 24 marzo 2001 (di seguito « la legge Pinto »), che ha  introdotto nel sistema giuridico italiano una via di ricorso contro la lunghezza eccessiva delle procedure giudiziarie. I ricorrenti sono stati contestualmente invitati a proporre la doglianza relativa alla durata della procedure innanzitutto alle giurisdizioni nazionali.

Questa  lettera è rimasta senza risposta.

B.  Il diritto interno pertinente

Con una  legge di revisione costituzionale n° 2 del 23 novembre 1999, il Parlamento italiano ha deciso  d’inserire il   principio dell’equo processo nella stessa Costituzione. L’articolo 111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione e nelle sue parti pertinenti, recita testualmente :

« 1.  La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

2.  Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. »

Al fine di rendere effettivo a livello  interno il principio della « durata ragionevole », ormai iscritto nella Costituzione, il Parlamento ha successivamente deliberato, il 24 marzo 2001, la legge Pinto, che, nelle sue parti pertinenti, recita testualmente :

Art. 2. (Diritto all’equa riparazione)

    1. Chi ha subíto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione.

    2. Nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione.

    3. Il giudice determina la riparazione a norma dell’articolo 2056 del codice civile, osservando le disposizioni seguenti:

        a) rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1;

        b) il danno non patrimoniale è riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell’avvenuta violazione.

 

Art. 3. (Procedimento)

    1. La domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.

    2. La domanda si propone con ricorso depositato nella cancelleria della corte di appello, sottoscritto da un difensore munito di procura speciale e contenente gli elementi di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile.

    3. Il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Negli altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri.

    4. La corte di appello provvede ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione della camera di consiglio, è notificato, a cura del ricorrente, all’amministrazione convenuta, presso l’Avvocatura dello Stato. Tra la data della notificazione e quella della camera di consiglio deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni.

    5. Le parti hanno facoltà di richiedere che la corte disponga l’acquisizione in tutto o in parte degli atti e dei documenti del procedimento in cui si assume essersi verificata la violazione di cui all’articolo 2 ed hanno diritto, unitamente ai loro difensori, di essere sentite in camera di consiglio se compaiono. Sono ammessi il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui è fissata la camera di consiglio, ovvero sino al termine che è a tale scopo assegnato dalla corte a seguito di relativa istanza delle parti.

    6. La corte pronuncia, entro quattro mesi dal deposito del ricorso, decreto impugnabile per cassazione. Il decreto è immediatamente esecutivo.

    7. L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse disponibili, a decorrere dal 1º gennaio 2002.

Art. 4. (Termine e condizioni di proponibilità)

    1. La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva.

 

Art. 5.(Comunicazioni)

    1. Il decreto di accoglimento della domanda è comunicato a cura della cancelleria, oltre che alle parti, al procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.

 

Art. 6.(Norma transitoria)

    1. Nel termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, coloro i quali abbiano già tempestivamente presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, possono presentare la domanda di cui all’articolo 3 della presente legge qualora non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità da parte della predetta Corte europea. In tal caso, il ricorso alla corte d’appello deve contenere l’indicazione della data di presentazione del ricorso alla predetta Corte europea.

     2. La cancelleria del giudice adìto informa senza ritardo il Ministero degli affari esteri di tutte le domande presentate ai sensi dell’articolo 3 nel termine di cui al comma 1 del presente articolo.

 

Art. 7.(Disposizioni finanziarie)

    1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, valutato in lire 12.705 milioni a decorrere dall’anno 2002, si provvede mediante corrispondente riduzione delle proiezioni dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2001-2003, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica per l’anno 2001, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero.

    2. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

DOGLIANZE

1.  I  ricorrenti si lamentano di essere stati privati del loro terreno in maniera incompatibile con l’articolo 1 del Protocollo n° 1. Essi sostengono che il loro terreno è stato occupato in modo abusivo e vi si è  costruito  in carenza di un decreto d’espropriazione e senza pagamento di una indennità. Essi allegano che, in questa condizione,  non hanno avuto modo di difendere il loro diritto  di proprietà e  di esigere la restituzione del bene,  ma hanno potuto soltanto reclamare i danni e gli interessi. Di tal ché, quando il tribunale constaterà che  l’opera pubblica è stata costruita nell’ambito di una occupazione illegittima del terreno, si darà applicazione al principio dell’espropriazione indiretta ; di conseguenza, in spregio di ogni illegalità, si dichiarerà che l’amministrazione è divenuta proprietaria del terreno ab origine.

2.  Invocando l’articolo 6 § 1 della Convention, i ricorrenti si lamentano  della durata della procedura.

IN DIRITTO

1.  I ricorrenti allegano la violazione del loro diritto  al rispetto dei beni siccome garantito dall’articolo 1 del Protocollo n° 1, che recita testualmente :

<<Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

 

Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.>>

Allo stato attuale del fascicolo, la Corte non si ritiene in grado di pronunciarsi sulla ricevibilità di questa doglianza e giudica necessario di comunicare questa parte del ricorso al governo convenuto per osservazioni scritte conformemente all’articolo 54 § 3 b) del suo regolamento.

2.  I ricorrenti lamentano la durata della procedura. Essi invocano l’articolo 6 § 1, che, nelle sue parti pertinenti, recita testualmente :

 « Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…)entro un termine ragionevole da un tribunale (…), il quale deciderà (…) delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…) »

La Corte deve innanzitutto stabilire se il ricorrente ha esaurito, conformemente all’articolo 35 § 1 della Convenzione, le vie di ricorso che gli erano aperte nel diritto italiano.

Essa ricorda che la regola dell’esaurimento tende  ad offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di riparare le pretese violazioni allegate contro essi prima che queste allegazioni siano sottoposte alla Corte (vedere, tra le tante, la sentenzaSelmouni c. Francia [GC], n° 25803/94, § 74, CEDH 1999-V). Questa  regola si fonda sull'ipotesi, oggetto dell'articolo 13 della Convenzione – e con il quale essa presenta strette affinità –, che l'ordinamento interno offra un ricorso effettivo quanto alla violazione allegata (ibidem). Di modo che , essa costituisce un aspetto importante del principio secondo il quale  il  meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione riveste  un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei Diritti dell’Uomo (sentenze Akdivar ed altri c. Turchia del 16 settembre 1996,Recueil des arrêts et decisiones 1996-IV, p. 1210, § 65, e Aksoy c. Turchia del 18 dicembre 1996, Recueil 1996-VI, p. 2275, § 51).

Tuttavia, le disposizioni dell'articolo 35 della Convenzione  prescrivono l’esaurimento solo nel caso di ricorsi,  relativi alle violazioni incriminate, che siano nello stesso tempo  , accessibili ed adeguati. Essi devono esistere con un grado sufficiente  di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, senza di ciò manca la loro l'effettività e l'accessibilità richieste (vedere, segnatamente, le sentenze Akdivar ed altri precitate, p. 1210, § 66, e Dalia c. Francia del 19 febbraio 1998, Recueil 1998-I, pp. 87-88, § 38). Inoltre, secondo i « principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti », certe circostanze particolari possono dispensare il ricorrente dell'obbligo dell’esaurimento delle vie di ricorso interne che gli si offrono (sentenza Selmouni predetta, § 75). Tuttavia, la Corte sottolinea che il semplice fatto di nutrire dei dubbi circa le prospettive di successo di un dato ricorso che non è di tutta evidenza votato all’insuccesso non costituisce una valida ragione per giustificare la mancata utilizzazione dei ricorsi interni (sentenze Akdivar, predetta, p. 1212, § 71, e Van Oosterwijck c. Belgio del 6 novembre 1980, serie A n° 40, p. 18, § 37 ; vedi anche Koltsidas, Fountis, Androutsos ed altri c. Grecia, ricorsi no 24962/94, 25370/94 e 26303/95 (riuniti), decisione della Commissione del 1°  luglio 1996, Decisioni e Rapporti (DR) 86-B, pp. 83, 93).

Nel caso di specie , la Corte osserva preliminarmente che i ricorrenti possono avvalersi della norma transitoria contenuta nell’articolo 6 della legge Pinto. Il ricorso alla corte d’appello dunque è a loro  accessibile.

Essa rileva inoltre che la legge Pinto mira , tra l’altro, a rendere effettivo a livello interno il principio della « durata ragionevole », inserito nella Costituzione italiana dopo la riforma dell’articolo 111. Peraltro, come la Corte lo ha ricordato nella sua sentenza Kudła c. Polonia (sentenza del 26 ottobre 2000, § 152), il diritto di ciascuno di vedere la sua causa  trattata entro un termine ragionevole non può essere che meno effettivo se non esiste alcuna possibilità di adire prima una autorità nazionale circa le doglianze scaturenti dalla Convenzione. Bisogna ricordare, inoltre, che nella sentenza in questione la Corte aveva concluso per la  violazione dell’articolo 13 della Convenzione stante l’assenza, nel diritto polacco, di un ricorso che  permettesse al ricorrente d’ottenere la sanzione del suo diritto a vedere la sua causa « trattata entro un termine ragionevole » (sentenza Kudła predetta, §§ 132-160).

Per quanto riguarda l’efficacia di questo rimedio,  conviene notare che ai sensi della legge in questione, ogni persona che sia parte di una procedura giudiziaria ricadente sotto l’ambito dell’articolo 6 § 1 della Convenzione può introdurre un ricorso tendente a far constatare la violazione del principio del « termine ragionevole », ed ottenere, se del caso, una equa soddisfazione che copra i pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali subiti. Inoltre, come si evince dal paragrafo 2 dell’articolo 2 della legge, il giudice nazionale è chiamato nella valutazione del carattere ragionevole della durata di una procedura, ad applicare i principi emanati dalla giurisprudenza della Corte, segnatamente la complessità della causa, il comportamento del ricorrente e quello delle autorità competenti (vedi, tra molte altre, le sentenze Pélissier et Sassi c. Francia [GC], n° 25444/94, § 67, CEDH 1999-II, e Philis c. Grecia (n° 2) del 27 giugno 1997, Recueil 1997-IV, p. 1083, § 35). In queste  circostanze, la Corte considera che nulla permette  di pensare che il ricorso introdotto dalla legge Pinto non offrirebbe al  ricorrente la possibilità di fare riparare la sua doglianza, o che non avrebbe alcuna prospettiva ragionevole di successo.

E’ vero che il presente ricorso è stato introdotto prima dell’entrata in vigore della legge Pinto, e che  per conseguenza al momento in cui i ricorrenti hanno per la prima volta formulato la loro doglianza a Strasburgo, gli stessi  ricorrenti non disponevano, nel diritto italiano, di alcun ricorso efficace per contestare la durata della procedura litigiosa.

A tal riguardo, la Corte ricorda che l’esaurimento delle vie di ricorso interne si valuta normalmente alla data d’introduzione del ricorso davanti ad essa. Tuttavia, questa regola non è senza eccezioni, che possono essere giustificate dalle circostanze particolari di ogni caso di specie (vedi la sentenza Baumann c. Francia (terza sezione) del 22 maggio 2001, ricorso n° 33592/96, § 47, non pubblicata).

La Corte considera che nel presente caso, numerosi elementi giustificano una eccezione al principio generale secondo cui la condizione dell’esaurimento deve essere apprezzata al momento dell’introduzione del ricorso  (vedi la decisione Brusco c. Italia (seconda sezione) del 6 settembre 2001, ricorso n° 69789/01, che sarà pubblicata in CEDH 2001).

Essa osserva segnatamente che la frequenza crescente delle sue constatazioni di non-rispetto, da parte dello Stato italiano, dell’esigenza del « termine ragionevole » l’aveva indotta a concludere che l’accumulo di queste mancanze costituiva una pratica incompatibile con la Convenzione ed a richiamare l’attenzione del Governo sul « pericolo importante » che la « lentezza eccessiva della giustizia » rappresenta per lo stato di diritto (vedi le sentenze Bottazzi c. Italia [GC], n° 34884/97, § 22, CEDH 1999-V, e Di Mauro c. Italie [GC], n° 34256/96, § 23, CEDH 1999-V). Peraltro, l’assenza di un ricorso efficace per denunciare  la durata eccessiva delle procedure aveva obbligato i soggetti alla giurisdizione a sottoporre sistematicamente alla Corte di Strasburgo  dei ricorsi che avrebbero potuto essere istruiti anzitutto ed in maniera più appropriata nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano. Questa situazione rischiava, a lungo termine, di affliggere il funzionamento, sia sul piano nazionale che sul piano internazionale, del sistema di protezione dei diritti dell’Uomo costruito dalla Convenzione (vedi, mutatis mutandis, la sentenza Kudła predetta, § 155).

Ora, la via di ricorso  introdotta dalla legge Pinto si iscrive nella logica di permettere agli organi dello Stato convenuto di riparare le mancanze all’esigenza del « termine ragionevole » e di ridurre, per conseguenza, il numero dei ricorsi che la Corte sarà chiamata a trattare. Ciò non vale soltanto per i ricorsi presentati dopo la data d’entrata in vigore della legge, ma anche per i ricorsi che , alla data in questione, erano già iscritti nel ruolo della Corte.

A tal riguardo , una importanza particolare deve essere data al fatto che la norma transitoria contenuta nell’articolo 6 della legge Pinto si riferisce esplicitamente ai ricorsi già presentati a Strasburgo  e mira dunque a far ricadere nel campo di competenza delle giurisdizioni nazionali ogni ricorso pendente davanti alla Corte e non ancora dichiarato ricevibile. Questa disposizione transitoria offre ai soggetti alla giurisdizione italiana una reale possibilità di ottenere una riparazione della loro doglianza a livello interno, possibilità  di cui è doveroso ,  in principio,   far uso.

Alla luce di quanto precede, la Corte reputa che i  ricorrenti erano  tenuti, ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, ad adire la corte d’appello con una domanda ai sensi degli articoli 3 e 6 della legge Pinto. Non si potrebbe ravvisare, peraltro, alcuna circostanza eccezionale atta a dispensarli dall’obbligo di esaurimento delle vie di ricorso interne.

Ne consegue che questa parte del ricorso deve essere rigettato per non esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.

Pe questi motivi, la Corte, all’unanimità,

Rinvia l’esame della doglianza dei  ricorrenti sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n° 1.

Dichiara il ricorso irricevibile per il resto.

Christos Rozakis (Presidente)

 Erik FRIBERG (cancelliere)