Corte Europea dei Diritti dell’Uomo CASO BEYELER CONTRO ITALIA sentenza del 5 gennaio 2000 (Ricorso n° 33202/96) |
VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N° 1 AGGIUNTIVO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTTI DELL’UOMO (PROTEZIONE DELLA PROPRIETA'). SUSSISTENZA. La Corte riserva a separata decisione il quantum debeatur ai sensi dell’articolo 41 (equa soddisfazione) della Convenzione. (comunicato stampa, traduzione non ufficiale)
1. Principali fatti Il caso concerne un ricorso presentato da un cittadino svizzero, Ernst Beyeler, nato nel 1921 e residente a Basilea (Svizzera). Egli è gallerista. Il caso si riferisce ad un quadro di Vincent Van Gogh, "Le jardinier", che il sig. Beyeler comprò nel 1977 per 600 milioni di lire con l'intervento di un intermediario, senza comunque rivelare al venditore che il quadro era stato comprato per suo conto. Per conseguenza, la dichiarazione della vendita che quest’ultimo, in virtù delle prescrizioni contenute nella legge n° 1089 del 1939, fece pervenire al Ministero italiano per i Beni Culturali non menzionava il sig Beyeler. Nel 1983, il Ministero italiano ebbe conoscenza del fatto che il sig. Beyeler era il vero acquirente del quadro. Il 2 maggio 1988, quest’ultimo vendette l'opera ad una società americana che intendeva destinarlo ad una collezione veneziana, per la somma di 8,5 milioni di dollari. Il 24 novembre 1988, esercitando il suo diritto di prelazione e per eccepire che il sig. Beyeler aveva omesso d’informare il Ministero del fatto che nel 1977 il quadro era stato acquistato per suo conto, l'Italia acquistò il quadro al prezzo della vendita conclusa nel 1977. 2. Procedura Il ricorso è stato presentato davanti alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo il 5 settembre 1996. Dopo aver dichiarato il ricorso ricevibile, la Commissione ha adottato, il 10 settembre 1998, un rapporto formulando il parere che non vi era stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n° 1 aggiuntivo alla Convenzione (venti voti contro dieci). Essa ha portato il caso davanti alla Corte il 2 novembre 1998.
Una udienza ha avuto luogo l’ 8 settembre 1999. La sentenza è stata resa dalla Grande Camera composta da 17 giudici. 3. Riassunto della sentenza Capi di impugnazione Il ricorrente si duole della violazione dell’articolo 1 del Protocollo n° 1 e segnatamente di essere stato espropriato dalle autorità italiane del quadro di cui egli afferma essere il proprietario legittimo, con modalità contrarie alle esigenze di questa disposizione. Egli sostiene parimenti di essere vittima di un trattamento discriminatorio contrario all’articolo 14 della Convenzione per il fatto che le autorità hanno dichiarato, espressamente, che la misura incriminata era ancor più giustificata perché il ricorrente era cittadino svizzero. Decisione della Corte L’eccezione preliminare del Governo Quanto alla eccezione del Governo fondata sul non esaurimento delle vie di ricorso interne, per il fatto che il ricorrente avrebbe potuto adire alle giuridiszioni civili al fine di ottenere la rivalutazione della somma pagata nel 1977, la Corte dichiara per escluderla che il Governo aveva sollevato questa eccezione per la prima volta davanti alla Corte e non anche davanti alla Commissione.
Articolo 1 del Protocollo n° 1 alla Convenzione
Sull’applicabilità dell’articolo 1 La Corte considera che questa disposizione è applicabile al caso di specie. Una serie di elementi di diritto e di fatto provano che il ricorrente era titolare di un interesse patrimoniale riconosciuto nel diritto italiano, anche se revocabile in determinate condizioni, dalla acquisizione dell’opera fino al momento in cui il diritto di prelazione è stato esercitato e quando un corrispetivo gli era stato versato. Così, il Consiglio di Stato ha affirmato che l’esercizio del diritto di prelazione da parte del Ministero rientrava nella categoria degli atti di espropriazione e che nella specie, le autorità amministrative non hanno commesso alcun errore notificando al ricorrente, in tanto che acquirente finale, il decreto di prelazione. La Corte di Cassazione ha, da parte sua, reiterato la constatazione del Consiglio di Stato secondo cui l’amministrazione non aveva esercitato il suo diritto di prelazione che quando essa aveva avuto la certezza che il quadro era stato acquistato dal ricorrente. Inoltre, nel 1988 il decreto di prelazione ha colpito il ricorrente in tanto che avente diritto sul quadro nella vendita del 1977 e l'ammontare del prezzo pagato a questa data è stato versato a costui. D'altronde, tra l’acquisto dell’opera e l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, il ricorrente si è trovato nella situazione di possesso del quadro che si è prolungata durante molti anni ed in varie occasioni, le autorità sembrano aver considerato de facto il ricorrente come avente un interesse patrimoniale in questo quadro, persino in qualità di vero proprietario. L’interesse del ricorrente costituiva pertanto un " bene ", ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n° 1, e la Corte reputa dover esaminare la situazione denunciata alla luce della norma generale enunciata nella prima frase di questa disposizione.
Sull’osservazione dell’articolo 1
Sull’esistenza di una ingerenza La Corte considera che la misura incriminata, segnatamente l’esercizio del diritto di prelazione da parte del Ministero dei Beni Culturali, ha constituito senza alcun dubbio una ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni.
Sul rispetto del principio di legalità La Corte ricorda che la legalità costituisce una condizione primordiale della compatibilità di una misura d’ingerenza con l’articolo 1 del Protocollo n° 1. La Corte gode, tuttavia, di una competenza limitata per verificare il rispetto del diritto interno, soprattutto allorquando nella specie alcun elemento del fascicolo non le permette di concludere che le autorità italiane abbiano fatto una applicazione manifestamente erronea, o che possa condurre a delle conclusioni arbitrarie delle disposizioni legali in causa. Tuttavia, il principio di legalità significa ugualmente l’esistenza di norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e prevedibili. La Corte osserva che sotto un certo profilo, la legge manca di chiarezza, in particolare nella misura in cui essa prevede che in caso di una dichiarazione incompleta, il termine per l’esercizio del diritto di prelazione resta aperto, senza tuttavia indicare attraverso quali modi un simile vizio potrebbe essere ulteriormente sanato. Questo elemento non potrebbe tuttavia condurre, da solo, alla conclusione che l’ingerenza in causa fosse imprevedibile o arbitraria. Nondimeno, l’elemento d’incertezza presente nella legge e l’ampio margine di manovra che quest'ultima conferisce alle autorità devono essere tenute in debito conto nell’esame della conformità della misura litigiosa con le esigenze del giusto equilibrio.
Sul fine dell’ingerenza La Corte considera che il controllo del mercato delle opere d’arte da parte dello Stato costituisce un fine legittimo nel qudro della protezione del patrimonio culturale ed artistico di un paese. Allora, quando si tratta di una opera d’arte realizzata da un artista straniero, la Corte nota che la Convenziona dell’Unesco del 1970 favorisce, in determinate condizioni, il recupero delle opere d’arte al loro paese d’origine. La Corte constata tuttavia che non è in gioco, nella specie, il ritorno di una opera d’arte nel suo paese di origine. La Corte ammette daltronde il carattere legittimo dell’azione di uno Stato che accoglie in maniera lecita sul suo territorio delle opere appartenenti al patrimonio culturale di tutte le nazioni e che mira a privilegiare la soluzione la più idonea a garantire una larga accessibilità al beneficio del pubblico, nell’interesse generale della cultura universale.
Sull’esistenza di un giusto equilibrio
a) Comportamento del ricorrente La Corte nota che, nell'ambito della vendita del 1977, il ricorrente non ha rivelato al venditore che il quadro era acquistato per suo conto. Il ricorrente ha poi atteso sei anni, dal 1977 fino al 1983, senza dichiarare il suo acquisto, situazione irregolare in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto italiano che avrebe dovuto conoscere. Egli non si è manifestato alle autorità che nel dicembre 1983, allorquando egli ha avuto l’intenzione di vendere il quadro alla " Peggy Guggenheim Collection " di Venezia per la somma de due milioni di dollari. La Corte reputa da allora che l’argoment del Governo fondato sulla mancanza di trasparenza da parte del ricorrente abbia un certo peso, tanto più che niente impediba a quest'ultimo di regolarizzare la sua situazione prima del 2 dicembre 1983 al fine di conformarsi alle prescrizioni legali.
b) Comportamento delle autorità La Corte non mette in causa né il diritto di prelazione sulle opere d’arte in quanto tale, né l’interesse dello Stato ad essere informato di tutti i dati di un contratto, ivi compresa l’identità dell’acquirente finale nel caso di una vendita attraverso un intermediario, ciò che ha per fine di mettere le autorità in posizione di determinarsi in piena consapevolezza quanto all’esercizio eventuale del diritto di prelazione. Orbene, dopo essere state informate, nel 1983, dell’elemento mancante nella dichiarazione fatta nel 1977, cioè l’identità dell’acquirente finale, le autorità italiane hanno atteso fino al 1988 prima di interessarsi seriamente della questione della proprietà del quadro e di decidere di esercitare il diritto de prelazione. Durante questo lasso di tempo, le autorità hanno mantenuto una attitudine ora ambigua, ora consenziente agli occhi del ricorrente ed esse l’hanno spesso trattato, de facto, come l’avente diritto legittimo della vendita del 1977. Inoltre, il largo margine di manovra di cui le autorità hanno goduto nel quadro delle disposizioni applicabili, come interpretate dalle giurisdizioni interne, così come la mancanza di chiarezza della legge, sopra richiamata, hanno amplificato l’incertezza in pregiudizio del ricorrente.
Conclusioni La Corte stima che il Governo convenuto non ha spiegato in maniera convincente perché le autorità italiane non hanno agito all'inizio dell’anno 1984 nel modo in cui lo hanno fatto nel 1988. Da allora, rimproverare al ricorrente nel 1988 una irregularità di cui le autorità avevano già avuto conoscenza quasi cinque anni prima non sembra giustificata. A tal proposito, conviene sottolineare che, di fronte ad una questione di interesse generale, i poteri pubblici sono tenuti a reagire in tempo utile, in maniera corretta e con la più grande coerenza. Inoltre, questa situazione ha permesso al Ministero dei beni Culturali di acquisire il quadro, neln 1988, ad un prezzo sensibilmente inferiore al suo valore di mercato. Le autorità hanno dunque tratto un arricchimento ingiusto dall’incertezza che ha regnato durante questo periodo ed alla quale esse autorità hanno largamente contribuito. Indipendentemente dalla nazionalità del ricorrente, un simile arricchimento non è conforme all’esigenza del " giusto equilibrio ".
Articolo 14 Considerate le proprie conclusioni sull’articolo 1 del Protocollo n° 1, la Corte stima che non vi sia necessità di esaminare separatamente se il ricorrente è stato vittima, in ragione della sua nazionalità, di una discriminazione contraria all’articolo 14.
Articolo 41 La Corte considera che la questione dell’applicazione dell’articolo 41 non può essere allo stato decisa. Per conseguenza, è necessario riservare questa questione e fissare la procedura ulteriore, tenendo conto dell’eventualità di un accordo tra lo Stato convenuto ed il ricorrente. A tal fine, la Corte accorda alle parti un termine di sei mesi. Il Giudice Luigi Ferrari Bravo ha espresso una opinione dissidente. |