sentenza 8 agosto 2002

Cassazione Italiana .(sentenza  08 agosto 2002 n.11987/2002) Giudizio di equa riparazione - legge Pinto n-89/2001- Danno  non patrimoniale delle persone fisiche per l’eccessiva durata del processo. Onere della prova, sia pure non rigorosa, a carico del ricorrente. Sussistenza- (decisione in controtendenza rispetto alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo)

   
Cassazione - sezione prima civile - sentenza 10 giugno-8 agosto 2002, n. 11987
Presidente Delli Priscoli - Relatore Morelli - PM Raimondi - - ricorrenti Adamo più 60 - controricorrenti 
Ministero Grazia  Giustizia, Presidenza del Consiglio dei Ministri

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

S E N T E N Z A

Sul ricorso proposto da:

ADAMO AGOSTINO ed altri

- ricorrenti –

contro

MINISTERO GRAZIA E GIUSTIZIA, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

-controricorrenti -

avverso il decreto della Corte d’Appello di Roma, depositato il 06/11/01

Oggetto: legge Pinto -

                                               Efficacia sentenze CEDU

                                               - Prova del danno

          RGN: 1449/02

                       Svolgimento del processo e motivi della decisione

         1.     Agostino Adamo ed altri 59 dipendenti della Ferrovia Alifana- Napoli hanno impugnato per cassazione il decreto in data 6 novembre 2001 della Corte di Appello di Roma, che ha respinto il ricorso da loro proposto per ottenere l' "equa riparazione" del danno che assumevano conseguente all'ingiustificato protrarsi - oltre il termine di "ragionevole durata" di cui all'art. 2 della c.d. legge Pinto (n. 89/2001) - dei giudizi da essi rispettivamente promossi (nel novembre – dicembre l994),per l'ottenimento di differenze salariali, innanzi al TAR Campania giudizi conclusisi nel maggio 1999 (con sentenze di rigetto non appellate e cosi divenute definitive).

Si è costituita la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

         2.     Preliminarmente va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso formulata in udienza dal Procuratore generale.

L'irritua1ità della correlativa notifica, all'uopo denunciata, per essere stata essa effettuata nei confronti del Ministro della Giustizia in luogo che del Presidente del Consiglio dei Ministri (spiegabile anche in ragione dell'errata intestazione della sentenza di appello, di cui si dirà) è stata, infatti, comunque, sanata dall'intervenuta costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio con piena accettazione del contraddittorio.

         3.     Nel merito, viene in discussione il complessivo decisum della Corte romana. La quale - pur ritenuta, in premessa, "una concreta violazione del termine di ragionevole durata del processo, attesa la natura esclusivamente documentale e la relativa complessità della controversia" - ha poi, comunque,   respinto le domande dei sessanta istanti per insussistenza del danno lamentato, con condanna dei medesimi alla rifusione delle spese di lite in favore del Ministro della Giustizia.

         4.    Con i quattro motivi dell'odierna impugnazione, la difesa dei ricorrenti, nel criticare le riferite statuizioni (di rigetto e di condanna), rispettivamente, ora denuncia:

         4.1   Irritualità della pronuncia nel suo complesso - o "quantomeno relativamente alla condanna alle spese", ulteriormente (questa in particolare ) viziata per violazione dell'art. 92 c.p.c. - per avere il Collegio di Appello individuato "sua sponte" il loro contraddittore nel Ministro della Giustizia, in luogo del Presidente del Consiglio evocato in causa;

         4.2   violazione del giudicato esterno costituito dalla sentenza della Corte di Strasburgo (dell'3 febbraio 2000 in causa Zeuli c. Italia) di condanna della Stato a risarcire altri dipendenti della stessa Ferrovia per l'eccessiva durata dei giudizi innanzi al TAR in cui questi avevano proposto, con analogo esito negativo, l'identica questione giuridica trattata, con tempi del pari non ragionevoli, nei successivi processi da cui ora deriverebbe il rivendicato diritto a riparazione;

        4.3   carenza di motivazione in ordine ai profili della "complessità" della controversia (apoditticamente ritenuta " relativa" mentre sarebbe stata insussistente) e del termine di "ragionevole durata" (del pari immotivatamente fissato in misura superiore a quella individuata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo);

        4.4   violazione, infine, dell'art. 2 l. n. 89/01 cit. e dell'art. 111 Costituzione, per il denegato (a torto ) automatismo del danno non patrimoniale a fronte di rilevate (come nella specie) violazioni del diritto alla ragionevole durata del processo;

5.                La prima complessa doglianza è, per ogni aspetto, inammissibile.

I riferimenti in decreto al Ministro della Giustizia - invece che al Presidente del Consiglio (effettivo legittimato passivo ex art. 3 n. 3 L n. 89/01) concretamente chiamato in causa e in questa costituitosi con il ministero dell'Avvocatura dello Stato - si risolvono , infatti, all'evidenza, in un mero errore materiale o in un errore comunque di fatto percettivo, suscettibile come tale di correzione, ex art. 287, ovvero di revocazione, ex art. 395 n. 4 c.p.c., davanti allo stesso Giudice che lo ha pronunziato, ma non di sindacato in questa sede di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn.6319/2000, 8256/2000).

Mentre - per il profilo in particolare della statuizione sulle spese – la mancata (integrale o parziale)compensazione delle stesse, in considerazione della" non soccombenza" degli attori sulla questione della durata non ragionevole dei giudizi, quale sostanzialmente si lamenta, esprime un giudizio di fatto riservato alla discrezionalità del giudice del merito ed in quanto tale, a sua volta non denunciabile in Cassazione.

       6.  Non fondata, poi, la successiva seconda censura, di asserita violazione di "giudicato" della Corte di Strasburgo. E ciò per l'erroneità, in radice, della premessa,da cui quella critica muove, del carattere direttamente vincolante per il giudice interno" della decisione della predetta Corte Europea.

Ancorché debba conoscersi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quanto ai criteri da essa elaborati per la valutazione della ragionevole durata del processo, valore di precedente, di cui non si può non tener conto, ai fini della interpretazione del contenuto dell'art. 2 1.89/01 - nella misura in cui questo richiama l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, cui quella giurisprudenza propriamente si riferisce - ciò però che deve escludersi è, infatti, l'asserito vincolo diretto che dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo deriverebbe per il Giudice italiano.

Diversamente dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea di Lussemburgo - che al pari dei regolamenti del Consiglio CE, hanno (per i profili dell'interpretazione della normativa comunitaria) diretta efficacia nell'ordinamento interno ai sensi dell'art. 189 del Trattato CEE (cfr. Corte Cost. n. 113/85 in relazione a n. 170/84) e, se pronunciate in sede di rinvio pregiudiziale, vincolano espressamente il giudice rimettente - per le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo  non sussistono, nel quadro delle fonti, analoghi meccanismi normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice interno.

Dal che, quindi, a maggior ragione, l’impossibilità di attribuire, nel nostro ordinamento, a dette sentenze l'efficacia di giudicato di cui all' art.29O9 c.c.., come preteso dai ricorrenti.

          7. Va esaminato, a questo punto, l'ultimo motivo del ricorso, che reca censure - alla denegata esistenza di prova dell’an del danno - le quali involgono questioni logicamente e giuridicamente preliminari rispetto a quelle (sostanzialmente) attinenti al quantum, di cui al precedente terzo motivo.

Sostengono, dunque, con il riferito quarto mezzo, i ricorrenti che abbia errato il Collegio Romano nel postulare in via di principio - e nel ritenere di fatto nella specie insussistente - la prova del danno, mentre avrebbe dovuto, viceversa, riconoscere che, nel quadro della fattispecie di responsabilità introdotta dal legislatore del 2001, una volta accertata la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, il danno sarebbe "in re ipsa", quanto meno per il profilo dell’an.

La prospettazione dei ricorrenti, seppure suggestiva, non può, però, condividersi.

          7.1  Il problema va risolto, per altro, fuori dello schema dell'illecito aquiliano, nel quale la dimostrazione del danno sarebbe de plano a carico di chi ne pretende il risarcimento (art. 2043 c.c.).

E ciò perché, ad avviso del Collegio all'equa riparazione di cui all'art 2 legge 89/01, va riconosciuta più propriamente natura indennitaria e non risarcitoria.                                              

Orientano in questo senso, infatti, già sul piano testuale, i significativi richiami all'equità e al limite delle risorse disponibili, la totale assenza di riferimenti, invece, all'elemento soggettivo della responsabilità (al presupposto indefettibile, cioè dell'illecito aquiliano) e l'uso stesso del termine indennizzo (sub art. 3, comma 7, legge 89/01).

Molteplici argomenti di carattere logico - sistematico confortato poi ulteriormente l'interpretazione indennitaria.

Tra questi, la considerazione, in primo luogo, che l'equa riparazione deriva, nello schema configurato dalla citata legge n. 89, da una attività lecita dell’Amministrazione, quale innegabilmente è l’attività giudiziaria. La quale non diviene illecita per il solo fatto del suo, sia pure eccessivo, protrarsi e rileva, comunque, in funzione esclusiva del suo porsi in contrasto con il "termine ragionevole di cui all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo", indipendentemente - come detto - da qualsiasi(non richiesto) connotato di colpa di organi giudiziari o di ogni altra autorità dello Stato (che può essere, in tesi, anche quella legislativa o amministrativa per i profili, rispettivamente, disciplinatori del processo o di organizzazione delle strutture), la cui attività possa avere inciso sulla durata della procedura (vedi art. 2, punto 2,legge 89 citata).

La constatazione, inoltre, che l'endiadi "equa riparazione", nei contesti normativi in cui si trova già adoperata (artt.314 e 643 c.p.p., in materia di ingiusta detenzione e di errore giudiziario), è stata già del pari qualificata in termini di indennizzo (cfr. Cassazione 2760/97).

La considerazione, infine, che, nei casi di vero e proprio illecito connesso alla durata eccessiva del processo, già prima della legge Pinto - ed ora indipendentemente da questa - è attribuito al danneggiato una specifica azione risarcitoria dalla legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.

Dal che, quindi, la conclusione che quella avente ad oggetto l' "equa riparazione" per la non ragionevole durata del processo non è obbligazione ex delicto , ma obbligazione ex lege, riconducibile, nel quadro delle fonti di cui all'art. 1173 c.c., agli "atti o fatti idonei a produrla secondo l'ordinamento giuridico".

7.2   La ritenuta natura indennitaria dell'equa riparazione non conduce, però, di per sé al preteso automatismo della sua attribuzione in favore del soggetto che lamenti violazione del suo diritto alla ragionevole durata del processo.

A siffatta violazione - accertabile in base ai criteri che l'art. 2 legge 89/2001 mutua dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e che rileva, si ripete, nella sua oggettività - la predetta legge n. 89 non ricollega, infatti, l'applicazione di una pena privata, multa o sanzione nei confronti dell’apparato, ma, appunto, una equa riparazione in favore del soggetto che "per effetto" della eccessiva durata del giudizio, violativa del riconosciuto suo diritto ad una durata ragionevole dello stesso, abbia subito un danno, patrimoniale o non patrimoniale.

Tale danno - che, sul piano diacronico, è correlato al solo periodo eccedente la durata della procedura - va dunque dimostrato dalla parte legittimata a chiederne il ristoro. Ancorché, per quanto in particolare attiene al danno non patrimoniale o c.d. morale, tale prova possa essere in concreto agevolata dal ricorso a presunzioni e a ragionamenti inferenziali, che trovano fondamento nella conoscenza, in base ad elementari e comuni nozioni di psicologia, degli effetti che la pendenza di un processo civile, penale e amministrativo provoca nell’uomo medio.

          7.3   Né è sostenibile in contrario che nella lesione del diritto alla ragionevole durata del processo [l'an debeatur] il danno sia in re ipsa, costituendo la violazione di quel diritto, all'un tempo, sia il fatto causam dans del danno, sia l'evento in sé di danno (danno evento), cosi come ritenuto nelle sentenze 7713/2000 e 6507/2001 di questa Corte.

Dette pronunce si riferiscono ben vero, ed unicamente, ad ipotesi di "diritti fondamentali della persona" la cui inviolabilità sia garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui violazione "non può rimanere senza la sanzione minima risarcitoria", costituendo perciò danno evento di per sé risarcibile (così Corte Cost. 1986 n. 184, a proposito del diritto alla salute e del danno biologico).

Ma tale non é il caso del diritto alla ragionevole durata del processo, che trova, invece la sua fonte al livello di legge ordinaria (n. 89/01 cit.). E che - contrariamente a quanto pur da taluni affermato - non é direttamente riconducibile alla previsione dell'art. 111 della Costituzione.

Disposizione, quest'ultima, che - per il profilo della ragionevole durata, che assume come connotato del giusto processo - prefigura un canone oggettivo di disciplina della funzione giurisdizionale e non direttamente una garanzia del singolo strutturata in termini di diritto soggettivo; contiene cioè una norma meramente programmatica, non utilizzabile come strumento di controllo della durata del singolo processo (a ciò appunto ora provvedendo la legge 89/01) e che, rileva, invece, unicamente come parametro di controllo della legge che sia in tesi in contrasto con gli obbiettivi della ragionevole durata dei processi.  Spettando, dunque, in tale contesto, al legislatore bilanciare le istanze di ragionevolezza della durata del processo con il quantum delle garanzie concedibili, al suo interno, alle parti. [Nel che, poi, é il vero nodo, non più eludibile, del "caso Italia". Atteso che, in particolare per quel che attiene al settore civile, la consentita esperibilità del ricorso alla Corte di legittimità, sostanzialmente senza filtri, senza significativi limiti di materia e di valore e senza il limite stesso di reiterabilità della impugnazione - da cui consegua, in ogni caso di accoglimento con rinvio, il ritorno del processo alla fase precedente - definisce un complessivo modello di giudizio per il quale non esiste un momento predefinibile di arresto, che potrebbe virtualmente durare all'infinito e, con tale latitudine può essere utilizzato anche per controversie di minimo valore economico.(£. 5.000 nel caso deciso da Cass. 2670/96). Con la conseguenza, in un sistema cosi conformato, che l'afflusso delle nuove controversie non é bilanciato dallo smaltimento di quelle pregresse, per notevole parte delle quali si verifica un effetto di stagnazione, con un complessivo sovraccarico, in progressivo incremento, delle strutture giudiziarie, tale rendere ardua la sollecita definizione dei processi.]

7.4   Non ha errato, quindi, la Corte territoriale nel presupporre la necessità della prova della sussistenza di un danno in concreto ai fini della correlativa equa riparazione ex art. 2 legge 89/01.

Né è censurabile, in questa sede di legittimità, il giudizio di fatto, congruamente per altro motivato, con cui la stessa Corte ha, nella specie, escluso la ricorrenza di un danno morale (quello materiale non essendo stato neppure richiesto) in considerazione, tra l'altro, della gestione non individuale ma collettiva della lite e della sua inerenza a rivendicazione non personali ma di categoria, sulla cui fondatezza per di più nessuno dei ricorrenti aveva creduto al punto di proporre appello avverso la decisione negativa di I° grado.

Da ciò, conclusivamente, l'infondatezza della censura in esame.

8.  Restano assorbite le doglianze attinenti, come detto, al quantum del preteso danno, di cui al residuo terzo mezzo dell’impugnazione.

9.  Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto.

La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

          Roma 10 giugno 2002